Infarinato ha scritto:Carnby ha scritto:…l'alternanza tra «cielo»/«gielo» (quest'ultimo antiquato) e «celeste»/«gelato», oggi puramente grafica, mi fa pensare a un periodo nel quale la /j/ fosse effettivamente pronunciata.
È probabile: tutto sta nel capire
quando ha cessato d’esser pronunciata (…ho scritto a Larson: vediamo cosa mi risponde). Penso, però,
abbastanza presto.
Scusandomi innanzitutto per il vergognoso ritardo, passo súbito a esporvi il risultato delle mie (invero non troppo fruttuose) ricerche sull’argomento. Prima di tutto i (pochi) dati certi:
- In testi toscani due-trecenteschi si hanno invariabilmente [per i casi in esame] forme con <cie> e <gie> (cfr., e.g., TLIO e/o OVI) laddove il resto d’Italia ha <ce> e <ge>.
- La maggior parte dei testi fiorentini dugenteschi non forniscono materiale utile, viste l’anarchia grafica che solitamente vi regna e l’estrazione non proprio «umanistica» della maggior parte degli autori.
- Farebbe invece testo (eccome!) un fine filologo (oltre che poeta) come Dante, di cui però non rimangono autografi
. - Tuttavia possiamo sicuramente fare affidamento (per il XIV secolo) su due copisti [di lusso] della Commedia quali, e.g., il fiorentino Filippo Villani e [soprattutto] il certaldese Giovanni Boccaccio. Mentre troviamo regolarmente in entrambi <spece> (in rima con lece e fece) e <effige>/<vestige> (in rima con vige , indige e affige… né potrebbe essere altrimenti, visto che è Dante a farli rimare!), cielo e gelo sono scritti sempre con -i- (si noti che, in casi come questi, quand’anche la [j] fosse del tutto vocalizzata in [i], la rima [«italiana» o no che sia] non è [contrariamente a quanto si afferma anche in luoghi autorevoli] di nessun aiuto, ché, a tal fine, contano semplicemente nucleo sillabico e coda: la «rima», appunto
).
- Ancora nella seconda metà del XVI secolo, il Salviati afferma che «le […] pronunzie [di c[a]ecus e cieco], nella lor prima sillaba, per l'aggiunta dell’i, differenti sono oltre modo». Similmente il Buommattei nella prima metà del XVII secolo: «In CIELO, GIELO, e simili, è ben dittongo: perché l’I non vi sta per segno, ma vi opera, perché lo pronunziamo. E molto ben si sente dall’orecchio la differenza che è tra CIELO, e CELO, tra GIELO, e GELOSO» (Della lingua toscana libri sette, Napoli 1789 [Firenze 1643¹; I libro: Venezia 1623], I libro, Trattato quinto, Capo II, p. 61). Ma la Terza Crusca (1691) ammette [già], seppur molto cautamente, le grafie (e quindi presumibilmente le pronunce) <gelo> e <leggero>, e anche <acceca> (quest’ultima solo in una citazione [ammesso che non si tratti d’un refuso]).
- Nell’Ottocento l’-i- di queste voci sembra ormai essere un residuo del passato, una norma cui aderire magari ancora ossequiosamente, ma che non trova piú riscontro nel parlato reale: «Parendo a taluni la I in voci tali del tutto soppressa (che non è), s’erano messi a scrivere Celo per Cielo, ma l’uso non prese» (Tommaseo-Bellini 1861-1879, s.v. «C», sott. mia; gielo è invece segnata come grafia antiquata per gelo). Il Petrocchi (1900), molto attento all’uso vivo, ammette invece esplicitamente la grafia <celo> (accanto a <cielo>). Segnatamente, il Petrocchi mette a lemma: cèco e cièco (!) I: 437; cièlo e cèlo I: 484; gèlo I: 1036 (gièlo non è registrato); leggièro e leggèro II: 44.
Quali conclusioni trarre da tutto ciò?
Prima di tutto, che (come del resto s’era già convenuto sopra) l’-
i- non può essere un fatto meramente grafico. Quand’anche il Boccaccio e i suoi contemporanei (primo fra tutti il raffinatissimo Petrarca, di cui possediamo gli autografi) s’attenessero semplicemente a una norma ortografica non piú rispondente alla pronuncia, tale norma doveva essere comunque recente, e proprio perché —Dante e stilnovisti a parte— gli autori dei manoscritti dugenteschi non erano dei fini umanisti (neanche
ante litteram), dobbiamo presumere che, se interponevano un’
i in parole quali
cielo e
gelo [
e non altrove, ché si danno anche casi in cui si ha un uso generalizzato di <cie> e <gie>), ciò rispecchiasse effettivamente la pronuncia [toscana] del tempo. Del resto, anche il Fiorelli nota: «…
gielo e
giemo, che hanno una storia fonetica in tutto analoga a quella di
cielo e
cieco, hanno abbandonato l’-
i-
non solo nella pronunzia ma anche, e stabilmente nell’ortografia» (Camilli & Fiorelli 1965: 58, n. 81, sott. mia).
Quando e come s’è persa allora l’[j] dei nessi [-'tSjE-] e [-'dZjE-] di cui sopra? Qui le cose si fanno piú complicate. I dati soprariportati indurrebbero a ritenere che la perdita dell’[j] sia un fatto piuttosto recente: ottocentesco o giú di lí.
Ciò parrebbe trovare conferma nelle parole del grande linguista molisano Francesco D’Ovidio: «
Nell’odierna pronunzia toscana l’i di cieco cielo, come quel di
specie (p. 195),
è scomparso, riassorbito dalla consonante palatina che lo precede. La glottologia non se ne maraviglia; e la stessa lingua colta ha surrogato
gelo all’antiquato
gielo, benché forse anche incoraggiatavi dal latino
gelu.
Ma la tradizione ortografica e ortoepica sta ferma a cieco cielo, considerando
ceco celo come forme dialettali» (
Correzioni ai Promessi Sposi e la questione della lingua, Napoli 1895, «Pierro», p. 233, sott. mie). Inoltre, verrebbe a coincidere con la perdita di [w] dopo palatale, che si colloca proprio in questo periodo (
Migliorini 1963).
Tuttavia, bisogna stare attenti quando le testimonianze ci vengono esclusivamente dai grammatici. Larson, da me interpellato, si mostra scettico non solo nei confronti dell’asserzione del Tommaseo («che non è»), ma anche di quella del Salviati. Del resto, il Salviati
crede anche di sentire una differenza tra la pronuncia di
sogniamo congiuntivo (con [-j-]) e quella di
sogniamo indicativo (senza), che storicamente (= «fonocronologicamente») non trova giustificazione alcuna; e il fatto che i grammatici battano ripetutamente su questo punto potrebbe proprio stare a significare che l’uso vivo tralignasse.
Quel che par certo è che la pronuncia normativa prescrivesse /'tSjElo/
e sim.
fino a epoca relativamente recente.
Forse possiamo fare qualche passo avanti sulla cronologia effettiva del fenomeno se riusciamo a comprenderne la causa. Qui ci vengono ancora una volta in aiuto Camilli & Fiorelli. A p. 76 il Camilli (non contraddetto in nota dal Fiorelli

) scrive: «La perdita dell’occlusione nei primitivi [tS, dZ] ha contribuito ad eliminare la
i di cui a n. 27 e 29» (e
cielo e
cieco sono elencati al n. 27
d). Il ragionamento sotteso a quest’affermazione è sensato: diventate ormai
tutte le «
c/
g dolci» [
S/Z] in posizione intervocalica, si è venuta a creare l’associazione «
c/
g dolce» = [
S/Z], per cui anche,
e.g., [di 'SE:lo]
di cielo (non essendo possibile le sequenza [
Sj, Zj] in toscano, né oggi né mai storicamente). Col che, «tornando indietro», cioè tornando alla posizione non intervocalica,
tutte le
c/
g dolci sono diventate/tornate [tS/dZ], anche quando erano originariamente [tSj/dZj].
Di là dalle affermazioni seriori dei grammatici, questo ragionamento presenta però un’altra, piú seria, difficoltà: mentre la spirantizzazione dell’affricata sorda è approssimativamente collocabile nella
seconda metà del Trecento (e questo spiegherebbe perché nel Dugento la grafia è costantemente con -
i-, indipendentemente dal fatto che gli scrittori trecenteschi possano o meno avere elevato le grafie in esame a mera norma ortografica), la spirantizzazione di [dZ] in [Z] era già avvenuta da tempo, come testimoniano
scrizioni quale <rascione> [ra'Zo:ne] dei primi del ’200. (Questo è naturale: mentre vi sono diverse parole popolari con /tS/ intervocalico, le parole con /dZ/ intervocalico sono tutte dotte, essendo l’esito di [g] intervocalico latino davanti a vocale anteriore [dZdZ] o [0], e questo già a partire dal V sec. d. C. Postulando quindi che in confine di parola un [dZ] iniziale si riducesse già a [Z], il solo fono disponibile in quella posizione per le parole dotte [
che il latino si scrivevano con una <g>
scempia intervocalica] era inevitabilmente [Z].)
È assai probabile che il Camilli non fosse al corrente della precisa cronologia della spirantizzazione delle affricate, e la ritenesse molto piú bassa.
Comunque sia, non mi pare che il ragionamento sia interamente da buttar via: fin [quasi] dall’inizio, ['tSjE] e ['dZjE] dovevano rappresentare due combinazioni (1) senza preciso corrispondente spirantizzato oltreché (2) articolatoriamente non facili e (3) statisticamente rare. Il
terminus ante quem per la loro semplificazione è, come ci conferma il D’Ovidio, il XIX secolo, ma è assai probabile che fossero scomparse dalla lingua viva già da lungo tempo.