«Apeiron»

Spazio di discussione su prestiti e forestierismi

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G. M.
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«Apeiron»

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Dal Treccani:
àpeiron s. m. [traslitt. del gr. ἄπειρον, agg. neutro, «illimitato, indeterminato»]. – Termine con cui il filosofo Anassimandro designa il principio (ἀρχή) ingenerato e imperituro, da cui ogni definita realtà particolare deriva e in cui si dissolve alla fine di ogni ciclo cosmico.
Come si italianizzerebbe? Apiro, come trovo in questo libro dell'Ottocento?
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Infarinato
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Re: «Apeiron»

Intervento di Infarinato »

Sí, con l’accento sull’i:)
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G. M.
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Re: «Apeiron»

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Grazie come sempre. :wink:
Ligure
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Re: «Apeiron»

Intervento di Ligure »

Per altro, coll'accento sull'a si tratterebbe d'un altro aggettivo - di diverso significato e diversa provenienza -, anche se non saprei quanto effettivamente adoperato in italiano. :wink:

P.S.: stento sempre a considerare voci dell'antichità classica quale, ad es., àpeiron - parola consapevolmente impiegata da un ristrettissimo numero di competenti - alla stessa stregua di termini quale, ad es., "pajama/pyjama party" in quanto, personalmente, non riesco ad accettare la parola "forestierismo" se non in quanto connotata da evidenti aspetti di relativa sincronicità e da caratteristiche d'influenza di culture e lingue in qualche modo certamente "forestiere", ma contemporanee. E non necessariamente alla base della nostra cultura (non solo di tipo linguistico).

Mentre mi pare che, ad es., le voci originali della filosofia "antica" non abbiano molto da condividere - soprattutto per quanto concerne la "motivazione" che sta alla base dell'acquisizione del "prestito" - con quanto viene veicolato (in modo più o meno adeguato rispetto alle parole originali) tramite voci, sintagmi ecc. dell'attuale lingua inglese.

P.P.S.: tutt'al più potrei, forse, avvertire quasi come forestierismo una pronuncia quale "àpiro" - greco attuale -, ma è un'esperienza che ha infime possibilità di capitarmi concretamente, dal momento che sono sempre meno i "filosofi" che conoscano davvero il greco (certamente meno ancora quello moderno) e non è affatto usuale in Italia pronunciare i termini greci della filosofia "antica" in modo conforme alla pronuncia greca moderna. Mentre credo che nessun "filosofo" riuscirà, comunque, a resistere al "fascino sociale" rappresentato dall'accentazione terzultimale - "àpeiron" -, "proparossitona" nel caso di specie. Fascino molto ridimensionato nella coscienza di chi ha fatto studi scientifici e che non può che considerarla, in definitiva, una "posizione" al pari delle altre ...

Infatti, "terzultimale" - come "dice" la parola stessa - non significa che si tratti della "terza" sillaba. Implica soltanto che si conti a partire dall'ultima sillaba pronunciata. Infatti, in questa voce, l'accento si riscontra sulla prima delle tre sillabe che, formando la parola, vengono di seguito pronunciate.

Inoltre, la quasi totalità dei "filosofi" risulta priva di qualsiasi consapevolezza della vicenda diacronica dei dittonghi greci, della loro trascrizione, della loro latinizzazione e della loro italianizzazione.

Siccome i "pochi" dicono - "tutti" - "àpeiron", la pronuncia "proparossitona" appare "socialmente prestigiosa" e portatrice di chissà quali significati reconditi, mentre "apìro" - data "la diffusa ignoranza dei colti" - può essere avvertito quale errore. Quasi nessuno è disposto a fare un minimo sforzo per capire, ma ben pochi sono disposti a discostarsi da un "difensivo conformismo", che consente di poter agevolmente continuare a non approfondire, ma di essere sulle posizioni della "maggioranza". Dov'è più difficile essere "criticati" e meno importante saper adeguatamente illustrare la propria - ed eventualmente diversa - posizione personale (ciò che richiederebbe impegno). La lingua è anche questo ...
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G. M.
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Re: «Apeiron»

Intervento di G. M. »

Ligure ha scritto: dom, 10 lug 2022 12:00[...] stento sempre a considerare voci dell'antichità classica [...] alla stessa stregua di termini quale, ad es., "pajama/pyjama party" in quanto, personalmente, non riesco ad accettare la parola "forestierismo" se non in quanto connotata da evidenti aspetti di relativa sincronicità e da caratteristiche d'influenza di culture e lingue in qualche modo certamente "forestiere", ma contemporanee. [...] mi pare che, ad es., le voci originali della filosofia "antica" non abbiano molto da condividere - soprattutto per quanto concerne la "motivazione" che sta alla base dell'acquisizione del "prestito" - con quanto viene veicolato [...] tramite voci, sintagmi ecc. dell'attuale lingua inglese [...]
Si tratta di fenomeni ampi e articolati, che sicuramente possono presentare delle differenze fra i vari àmbiti. Ci sono anche però delle somiglianze di fondo: innanzitutto, come sappiamo bene, la generale tendenza italiana moderna a preferire per varie ragioni forme linguistiche sentite come "migliori" in quanto —stringendo all'osso— meno italiane.
Ai miei occhi, l'elemento primario che unisce apeiron e il generico anglicismo, per cui possono essere trattati entrambi in questa sezione del fòro, è appunto il loro essere termini di struttura visibilmente non italiana, riconoscibile anche da chi non ha nozioni di linguistica (e infatti, oggi, ragione del loro successo presso il pubblico generale). Un fatto "di superficie" e immediato, oltre tutti gli aspetti socioculturali che possono stargli alle spalle.
Ligure ha scritto: dom, 10 lug 2022 12:00 Per altro, coll'accento sull'a si tratterebbe d'un altro aggettivo - di diverso significato e diversa provenienza -, anche se non saprei quanto effettivamente adoperato in italiano. :wink:
Adesso siamo curiosi, ci deve dire qualcosa di più! :wink:
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G.B.
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Re: «Apeiron»

Intervento di G.B. »

G. M. ha scritto: dom, 10 lug 2022 12:53
Ligure ha scritto: dom, 10 lug 2022 12:00 Per altro, coll'accento sull'a si tratterebbe d'un altro aggettivo - di diverso significato e diversa provenienza -, anche se non saprei quanto effettivamente adoperato in italiano. :wink:
Adesso siamo curiosi, ci deve dire qualcosa di più! :wink:
Àpiro, da ἄπῠρος «privo di fuoco».
G.B.
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G. M.
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Re: «Apeiron»

Intervento di G. M. »

G.B. ha scritto: dom, 10 lug 2022 13:10 Àpiro, da ἄπῠρος «privo di fuoco».
Credo che con «diversa provenienza» Ligure intendesse un termine non dal greco. :?:
Ligure
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Re: «Apeiron»

Intervento di Ligure »

G. M. ha scritto: dom, 10 lug 2022 12:53
Ligure ha scritto: dom, 10 lug 2022 12:00[...] stento sempre a considerare voci dell'antichità classica [...] alla stessa stregua di termini quale, ad es., "pajama/pyjama party" in quanto, personalmente, non riesco ad accettare la parola "forestierismo" se non in quanto connotata da evidenti aspetti di relativa sincronicità e da caratteristiche d'influenza di culture e lingue in qualche modo certamente "forestiere", ma contemporanee. [...] mi pare che, ad es., le voci originali della filosofia "antica" non abbiano molto da condividere - soprattutto per quanto concerne la "motivazione" che sta alla base dell'acquisizione del "prestito" - con quanto viene veicolato [...] tramite voci, sintagmi ecc. dell'attuale lingua inglese [...]
Si tratta di fenomeni ampi e articolati, che sicuramente possono presentare delle differenze fra i vari àmbiti. Ci sono anche però delle somiglianze di fondo: innanzitutto, come sappiamo bene, la generale tendenza italiana moderna a preferire per varie ragioni forme linguistiche sentite come "migliori" in quanto —stringendo all'osso— meno italiane.
Ai miei occhi, l'elemento primario che unisce apeiron e il generico anglicismo, per cui possono essere trattati entrambi in questa sezione del fòro, è appunto il loro essere termini di struttura visibilmente non italiana, riconoscibile anche da chi non ha nozioni di linguistica (e infatti, oggi, ragione del loro successo presso il pubblico generale). Un fatto "di superficie" e immediato, oltre tutti gli aspetti socioculturali che possono stargli alle spalle.
Lei ha sintetizzato bene la posizione, probabilmente, prevalente, che risulta chiara e che comprendo benissimo.

Infatti, mi sono preoccupato di non farne un problema d'impostazione né - tanto meno - "filosofico" e ho sempre fatto riferimento alla mia sensibilità personale (forse, non necessariamente del tutto isolata). Il concetto di "forestierismo" implica, evidentemente, una differenza tra un "fuori" e un "dentro", che appare indiscutibile e particolarmente saliente in un "contesto di sincronicità". Infatti il contrasto tra il "fuori" e il "dentro" scotomizza la dimensione temporale.

Sempre parlando in prima persona, non riesco a percepire in modalità analoga il rapporto tra un "prima" e un "poi" - quindi, un aspetto diacronico - nell'ambito di uno stesso "dentro". Nel cui contesto inserirei le lingue della classicità tradizionale (latino e greco). Cioè la lingua di Roma - "dentro" - e il greco, che pur non essendo - originariamente - la lingua di Roma, venne parlato anche a Roma a motivo della preminenza culturale e lasciò un'eredità anche di tipo linguistico.

Ovviamente è per questi semplici motivi che non "mi suonerebbe" adeguato (impiego deliberatamente un'espressione non nettamente "assertiva") poter ritenere il latino un linguaggio "forestiero" anche soltanto in senso meramente topologico. Dal momento che la nostra lingua ne costituisce l'evoluzione sullo stesso territorio e non certamente l'evidenza storica di una "resa" a suoni, voci e modi giunti da "fuori".

Certo, il latino è un'altra lingua e possiede strutture diverse da quelle della lingua italiana, ma ne rappresenta le premesse in un rapporto diacronico di "filiazione". Mentre, ad es., la relazione coll'inglese (e la cultura che questa lingua veicola) è descritto da un rapporto di "con-correnza" (anche solo nel significato letterale) in un contesto di "sincronicità". Esistono, al mondo, tutte e due contemporaneamente.

Mi rendo perfettamente conto che gli studi classici risultano in declino (anche a motivo di modalità d'insegnamento non sempre adeguate), ma non mi sentirei d'italianizzare forzatamente le citazioni in latino che, specialmente un tempo, le persone colte impiegavano anche nella conversazione informale. Così come non mi sentirei di suggerire d'italianizzare - nella conversazione o in un testo - chi usa frasi del tipo di "si tratta di un unicum ..." ecc.

Relativamente al greco classico, non sta certamente a me farne rilevare l'importanza linguistica e, per altro, vale un po' lo stesso discorso. Molte voci - attraverso il latino - sono passate all'italiano e si tratta di una lingua che è stata parlata a Roma dalle classi colte, quindi all'interno dei "confini" di quello che è considerato l'attuale territorio italiano. Quello è il greco che noi ritroviamo nel nostro italiano. Anche in questo caso non può esistere un panorama di contemporaneità, ma si rende evidente un "dentro" - almeno, la Roma dell'età classica nelle persone maggiormente dotate di cultura - e un contributo alla filiazione e alla derivazione linguistica. E anche in questo caso siamo di fronte a un rapporto di tipo, ovviamente, "diacronico" - come implicano tutti i casi d'evoluzione linguistica - e non meramente "sincronico" (nel cui contesto possono sorgere vicende di "con-correnza", impossibili se esiste un rapporto di "paternità" di qualche tipo).

G. M. ha scritto: dom, 10 lug 2022 12:53
Ligure ha scritto: dom, 10 lug 2022 12:00 Per altro, coll'accento sull'a si tratterebbe d'un altro aggettivo - di diverso significato e diversa provenienza -, anche se non saprei quanto effettivamente adoperato in italiano. :wink:
Adesso siamo curiosi, ci deve dire qualcosa di più! :wink:
Mi scuso, ma nella fretta e nell'attitudine pigra (e, quindi, priva di riscontri oggettivi) della giornata domenicale, intendevo soltanto dire che non ho proceduto a verificare se la voce - d'indubbia "formazione greca" (ἄ-πῠρος risulta, infatti, composto dall'alfa privativo e dalla radice di πῦρ, πυρός, gen. = "fuoco") - non fosse giunta in italiano da altre lingue moderne.
Avatara utente
G. M.
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Re: «Apeiron»

Intervento di G. M. »

Ligure ha scritto: lun, 11 lug 2022 12:11 [...] non mi sentirei d'italianizzare forzatamente le citazioni in latino che, specialmente un tempo, le persone colte impiegavano anche nella conversazione informale. Così come non mi sentirei di suggerire d'italianizzare - nella conversazione o in un testo - chi usa frasi del tipo di "si tratta di un unicum ..." ecc..
Per evitare fraintendimenti, sento il bisogno di chiarire brevemente la mia posizione; l'ho già fatto sei mesi fa, ma repetita juvant :wink: (anche e soprattutto per i tanti visitatori che frequentano il fòro solo sporadicamente).

Io non ho nulla in contrario all'uso (consapevole, e non eccessivo) di latinismi, grecismi e «forestierismi» d'ogni genere, anglicismi compresi (purché marcati tutti sistematicamente col corsivo, che ritengo molto importante). Per ottenere determinati effetti, in certi casi possono essere uno strumento espressivo utile, che riterrei sbagliato eliminare in modo assoluto per una ragione di principio.

Ciò a cui tengo è che ci siano alternative pienamente italiane. Quello che mi disturba, quindi, non è la presenza occasionale del forestierismo, bensì l'assenza di un termine equivalente italiano. C'è in me il desiderio di una lingua completa e ricca, anche di termini rari e specialistici: una lingua che può ricorrere al forestierismo, ma non è costretta a farlo come scelta primaria se non unica, come di fatto —per le variegate ragioni sociolinguistiche che conosciamo— è spessissimo costretta oggi.

Quindi, variando lievemente il suo esempio, se qualcuno vuole scrivere «si tratta di un hapax», per me non c'è niente di male; mi fa piacere, però, che si sappia —e che chi dice hapax sappia— che l'italiano ha un valido termine per dirlo, che è unicismo. (E, oltre a saperlo, si usi anche... :wink:).
Ligure
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Re: «Apeiron»

Intervento di Ligure »

Credo che entrambi abbiamo avuto la possibilità di esprimere pacatamente opinioni e sensibilità che risultano, chiaramente, differenti.

Personalmente, mi sento particolarmente interessato all'effettivo andamento dei fenomeni linguistici. Riconosco, ovviamente, che si possano identificare "leggi linguistiche". Ma le avverto, come fanno gli studiosi, in senso descrittivo, esplicativo, non "imperativo" né - certamente - mai "indiscriminato". In quanto esse illustrano e spiegano adeguatamente ciò che è realmente avvenuto. Non ci richiedono di "simulare" ciò che - oggettivamente - non s'è verificato né di modificare ciò che da noi, eventualmente, non fosse ritenuto "conforme".

Nel caso specifico della voce filosofica greca ἄπειρον, si può ritenere vero che l'evoluzione linguistica "avrebbe" determinato la "chiusura" del dittongo e "avrebbe" determinato un esito privo della consonante finale. Credo, infatti, che nei grecismi "di tradizione ininterrotta" ciò sia avvenuto. Ma - pur potendomi sbagliare - non mi risulta che nel caso di ἄπειρον (voce unicamente presente in ambito filosofico o, meglio, nel contesto della storia della filosofia) ciò sia avvenuto.

E l'unica "tradizione" colta - di una certa rilevanza - è quella degli studiosi della storia della filosofia antica che, in Italia, continuano a pronunciare la parola in modo conforme all'uso invalso negli studi classici, in cui risulta ampiamente minoritaria la cosiddetta pronuncia "erasmiana" e, in ogni dittongo, si fanno sentire distintamente le vocali che lo compongono.

Le "leggi linguistiche" servono per "spiegare", non per "imporre". Infatti, il termine stesso di "legge" potrebbe risultare improprio se confrontato, ad es., colle leggi fiscali di uno stato moderno, che risultano vincolanti ed "esecutive".

E, in ogni settore delle attività umane, l'impegno dovrebbe risultare confrontabile colla probabilità di successo.

In questo caso, la voce viene usata esclusivamente nel contesto dello studio della filosofia antica.

Alla quasi totalità dei locutori della lingua italiana la parola - di per sé - non dice assolutamente nulla (sia che il dittongo si pronunci aperto quanto chiuso).

Un'effettiva "italianizzazione" - dal momento che la voce non rappresenta il risultato di una "tradizione ininterrotta" (che ce l'avrebbe consegnata col "dittongo chiuso" e l'accento penultimale, data la "lunghezza" della sillaba) - implicherebbe la traduzione (forse, piuttosto "indeterminato" che "infinito" ...), ma è altrettanto storicamente vero che gli studiosi della filosofia hanno sempre preferito mantenere il termine originale e "interpretarlo" a beneficio dei loro allievi e lettori.

Analizzarne le ragioni ci porterebbe troppo lontano.

Risulta praticamente impossibile che i filosofi militanti accettino una pronuncia diversa da quella attualmente in uso, anche perché il termine - come illustrato - non ha subito (se non sul suolo di Grecia) un'effettiva evoluzione linguistica storicamente intesa e nessuno di loro comprenderebbe (né accetterebbe, penserei) l'esigenza d'un adeguamento ex post.

Perché, dunque, dover "simulare" un fenomeno che - nella "verità della storia linguistica" - non s'è mai verificato?

E quale sarebbe il "valore aggiunto" per gli italiani (o per tutti gl'italofoni) nell'apprendere che "si dovrebbe" pronunciare "chiuso" il dittongo d'una parola (che rimane, indubbiamente, "greca" in quanto non s'accettò mai di tradurla) le cui scrizioni - nell'alfabeto italiano - riportano, prevalentemente, le due vocali della grafia originaria, dal momento che la consapevolezza dell'iter evolutivo (ma quello "effettivo"!) delle voci d'origine greca, patrimonio di ben pochi, non verrebbe , comunque, conseguita, anche per mancanza assoluta di qualsiasi competenza e interesse in merito?

Mentre, in mancanza di qualsiasi tentativo serio di traduzione, il termine (del tutto indipendentemente dall'apertura o dalla chiusura del dittongo, che non può assolutamente rivestire alcuna rilevanza in merito, trattandosi d'una variazione di tipo fonetico o, tutt'al più, fonologico, e dalla posizione dell'accento), continuerebbe a conservare per la stragrande maggioranza degl'italiani - e "giustamente", verrebbe da dire! - tutta la sua "opacità" semantica.

P.S.: la lingua italiana non ha mai mostrato predisposizione all'estremizzazione ed è, in parte, "mista", accettando in voci che non sono, evidentemente, di "tradizione diretta" anche aspetti fonetici non direttamente specifici.

Infatti, nessuno di noi scriverebbe né direbbe mai piumbeo (o piombio), biasfemo, ghiaciale e ghiaciazione (o, meglio, ghiacciale e ghiacciazzione!), piuviometro (o pioggiometro), chiamore, compianare, ecchiesiale e infiniti altri.

E "togliere" il dittongo aperto e la posizione "proparossitona" dell'accento ai filosofi e agli studiosi militanti, che si ritengono, in qualche modo, i "detentori" del termine (mentre il resto della popolazione linguistica conserverebbe - nel merito - un'indifferenza del tutto olimpica), non sembrerebbe nulla di molto diverso.

L'applicazione ex post d'un approccio di "conformità" - secondo una modalità di tipo "legalistico" - a ciò che - nei fatti - non è avvenuto implicherebbe la riscrittura del lessico della lingua italiana... in cui non tutte le voci - per altro, anche d'uso abbastanza comune - possono ambire alla "patente" di comprovata "tradizione ininterrotta".
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G. M.
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Re: «Apeiron»

Intervento di G. M. »

La ringrazio per la spiegazione. Il suo discorso mi sembra ora virare su argomenti diversi da quanto detto prima (distinguere grecismi e latinismi dai generici forestierismi moderni) e introduce temi molto più ampi e complessi.
Ligure ha scritto: mer, 13 lug 2022 9:54 Personalmente, mi sento particolarmente interessato all'effettivo andamento dei fenomeni linguistici. Riconosco, ovviamente, che si possano identificare "leggi linguistiche". Ma le avverto, come fanno gli studiosi, in senso descrittivo, esplicativo, non "imperativo" né - certamente - mai "indiscriminato". In quanto esse illustrano e spiegano adeguatamente ciò che è realmente avvenuto. Non ci richiedono di "simulare" ciò che - oggettivamente - non s'è verificato né di modificare ciò che da noi, eventualmente, non fosse ritenuto "conforme". [...]
Le "leggi linguistiche" servono per "spiegare", non per "imporre". Infatti, il termine stesso di "legge" potrebbe risultare improprio se confrontato, ad es., colle leggi fiscali di uno stato moderno, che risultano vincolanti ed "esecutive". [...]
[...] Perché, dunque, dover "simulare" un fenomeno che - nella "verità della storia linguistica" - non s'è mai verificato? [...]
Il tema è articolato e vorrei discuterne in modo approfondito, ma mi richiederebbe più tempo di quanto ne abbia ora a disposizione. Cerco quindi di sintetizzare, sperando comunque di riuscire a “far passare” i concetti fondamentali del mio punto di vista.

Mi pare di poter identificare, nel suo discorso, tre domande/obiezioni “concentriche”. Rispondo ad ognuna, dalla più grande alla più piccola.

1. Modificare la lingua

Mi sembra che l'argomentazione più ampia si possa sintetizzare così (mi corregga se sbaglio): «La lingua è un fenomeno che presenta un’evoluzione naturale, spontanea, istintiva, inconsapevole, che segue dei processi che possiamo studiare e identificare con precisione; è innaturale cercare di intervenire su questi processi quando o dove —per un motivo o per l’altro— riteniamo che devìino dalla norma che abbiamo identificato studiandoli».

Il fatto spesso rigettato ma forse fondamentale, a parer mio, è che l’intervento, la modifica consapevole della lingua (la glottotecnica, potremmo dire, col termine di Migliorini), è esso stesso parte intrinseca, naturale e ineliminabile della lingua e del suo sviluppo. Fanno parte del fenomeno «lingua» sia tutti i processi spontanei sia, con non minore dignità, le “prescrizioni”, le formalizzazioni, le politiche linguistiche, le riforme ortografiche, i libri di grammatica, eccetera. Andando all’oggetto specifico del nostro discorso, per citare me stesso, «anche il ragionamento traduttivo e il conio [consapevole] dei neologismi sono parte normale e naturale di qualsiasi lingua sana». L’interezza naturale della lingua non si esaurisce nei fenomeni “spontanei” e “inconsapevoli”, ma abbraccia intrinsecamente anche quelli “consapevoli”: sia l’evoluzione di tradizione ininterrotta sia il termine inventato da qualcuno e da costui foggiato in un certo modo o in un altro.

Se lei ha un approccio veramente descrittivista dovrebbe —almeno a parer mio— non trovare nulla di strano, né di sbagliato, nemmeno nei miei (bislacchi, anacronistici, futili, o comunque possano apparire oggi) tentativi d’italianizzazione: perché anche questo processo consapevole fa parte (è carattere naturale e intrinseco) del fenomeno della lingua. (E, in quanto tale, volendolo guardare dall’esterno, è anch’esso a sua volta possibile oggetto di studio descrittivo). :wink:

2. Italianizzare

Venendo alla seconda argomentazione («Perché?», a che pro, qual è l'obiettivo di queste modifiche nello specifico?), beh, nel mio caso la risposta è facile: mi piace l'italiano, mi piacciono i suoi caratteri strutturali; mi considero un seguace di Castellani; riconosco le difficoltà e tendenze odierne che sta attraversando la nostra lingua; e per quel poco che mi è possibile do il mio contributo, la mia minuscola spintarella, alla continuazione e all'ampliamento dell'italiano secondo le sue forme tradizionali. :)

3. Italianizzare questo termine
Ligure ha scritto: mer, 13 lug 2022 9:54 P.S.: la lingua italiana non ha mai mostrato predisposizione all'estremizzazione ed è, in parte, "mista", accettando in voci che non sono, evidentemente, di "tradizione diretta" anche aspetti fonetici non direttamente specifici. [...] Infatti, nessuno di noi scriverebbe né direbbe mai piumbeo (o piombio), biasfemo, ghiaciale e ghiaciazione (o, meglio, ghiacciale e ghiacciazzione!), piuviometro (o pioggiometro), chiamore, compianare, ecchiesiale e infiniti altri. [...] L'applicazione ex post d'un approccio di "conformità" [...] implicherebbe la riscrittura del lessico della lingua italiana... in cui non tutte le voci [...] possono ambire alla "patente" di comprovata "tradizione ininterrotta".
Perché italianizzare ἄπειρον proprio in apìro? Non sarebbe meglio usare forme più "moderne"? A questo non so rispondere nel dettaglio perché non conosco il greco; quando mi trovo in queste situazioni infatti vengo ad aprire i filoni per farmi aiutare da chi se ne intende. :wink: Ma, se non erro, questa italianizzazione segue l'uso colto che è stato fatto per secoli per italianizzare (o generalmente "volgarizzare", anche in altre lingue) moltissimi grecismi, facendoli (1) passare prima dal greco al latino, e poi (2) italianizzando il latino come cultismo. (Ancora nel '900, per citare un termine decisamente "moderno", cibernetica e non *chibernetica). Quindi, a conti fatti, ai miei occhi «il fatto non sussiste»: il procedimento messo qui in atto è lo stesso che ha prodotto i termini che lei cita: plumbeo, blasfemo, glaciale, eccetera, che ci vanno bene così. :)
brg
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Re: «Apeiron»

Intervento di brg »

A mio avviso la situazione è ancora più semplice: non è quello un termine da mettere in un dizionario. Si tratta infatti di una parola che ha un ambito di impiego talmente ristretto da essere paragonabile ad un nome proprio. Di fatto l'uso di "apeiron" in italiano è praticamente sempre come citazione, del tipo: Anassimandro ravvide il principio di tutte le cose nella materia indistinta (ἄπειρον). Siccome l'insegnamento della lingua greca si è fatto raro, ormai è più comune riportare il termine traslitterato, che in alfabeto greco; però sempre di citazione si tratta.

A me personalmente piace tradurlo con "indiviso".

Non è l'unica voce inutile che compare nel dizionario Treccani. Come già notato, anche "missile ipersonico", la cui definizione peraltro è sbagliata, ha ben poca ragione di essere presente in un dizionario.
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G.B.
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Re: «Apeiron»

Intervento di G.B. »

Secondo me, Ligure ha reso evidente un problema fondamentale: a chi gioverebbero simili traduzioni? A chi sono rivolte?
È noto che Migliorini consigliasse di dire e scrivere auditorio invece che auditorium , ma auditorium era ed è una parola comune, «destinata a un largo uso»; è evidente «che un archeologo, un numismatico, uno storico del diritto che si rivolgono ai loro compagni di studio, possono e debbono servirsi dei termini antichi inalterati». Che poi «inalterati» sia, nella maggior parte dei casi, un parolone (soprattutto nella pronuncia) è certamente vero.

Cosí, un professore ordinario di filosofia userà ἄπειρον (se è bravo, davvero bravo, pronunziandolo alla greca, col tono ascendente iniziale e la e chiusa lunga del dittongo) nelle sue lezioni universitarie o nei suoi articoli, perché quella parola non ha mai varcato il confine di un ambito d'uso tanto ristretto. Che poi, oggi, nello stato in cui versa l'italiano, non si farebbe nemmeno lo sforzo d'italianizzare, se ἄπειρον diventasse parola comune, è un altro discorso, che per ora non si pone (né, con ogni probabilità, si porrà).

Quali siano le ragioni del professore, l'ha già chiarito il Migliorini: p. es., termini simili «un'assimilazione troppo rigorosa li renderebbe talvolta irriconoscibili, obliterando la connessione con la forma antica, la quale è insieme internazionale». E da ἄπειρον ad *apīrum e quindi ad *apíro la differenza è sotto gli o(re)cchi di tutti.

Tra l'altro, va detto che un latino «di laboratorio» che inserisca automaticamente ogni grecismo terminante in -ον nella sua seconda declinazione non è mai esistito: al contrario, il latino storico presenta molti casi di grecismi non assimilati che conservano la desinenza neutra della seconda declinazione greca. Ma questo è certamente secondario in un'ottica onomaturgica.
G.B.
Avatara utente
G.B.
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Re: «Apeiron»

Intervento di G.B. »

Aggiungo che comprendo le perplessità sull'uso diacronico del termine forestierismo (al quale si può sostituire [im]prestito, benché anche questa parola abbia le sue pecche) e pongo un secondo dubbio: è giusto che prevalga in esso, nel termine forestierismo, il sèma [-STRUTTURALMENTE ITALIANO]? O non è forse meglio intenderlo propriamente, come sinonimo di epactonimo, cioè «parola che viene da fuori» e poi sarà un aggettivo a specificare se sia o no strutturalmente italiano (assimilato, integrato ecc.)?
G.B.
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G. M.
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Re: «Apeiron»

Intervento di G. M. »

brg ha scritto: mer, 13 lug 2022 14:03 Si tratta infatti di una parola che ha un ambito di impiego talmente ristretto da essere paragonabile ad un nome proprio. [...]
Può essere (infatti, in un libro per ragazzi sugli albori della scienza, che lessi al tempo e dove scoprii il termine, era scritto colla maiuscola, ho appena controllato), ma nel caso particolare l'obiezione sembra un po' inconsistente: parlando del mondo classico, infatti, abbiamo sempre adattato anche i nomi propri.
G.B. ha scritto: mer, 13 lug 2022 15:04 Secondo me, Ligure ha reso evidente un problema fondamentale: a chi gioverebbero simili traduzioni? A chi sono rivolte?
È noto che Migliorini consigliasse di dire e scrivere auditorio invece che auditorium , ma auditorium era ed è una parola comune, «destinata a un largo uso»; è evidente «che un archeologo, un numismatico, uno storico del diritto che si rivolgono ai loro compagni di studio, possono e debbono servirsi dei termini antichi inalterati».
Giovano a me, se un domani dovessi usarle. :twisted: :wink:

Naturalmente comprendo l'obiezione. Il problema è classico: dove si fissa l'asticella? Certo neanche Anassimandro è una parola comune «destinata a un largo uso», e la quasi totalità degli italiani, dopo averla sentita qualche decina di volte sui banchi di scuola, non la userà più per il resto della propria vita. Eppure non vediamo nulla di male nell'usare (esclusivamente, per quanto ne so io) la forma italianizzata.
G.B. ha scritto: mer, 13 lug 2022 15:04«un'assimilazione troppo rigorosa li renderebbe talvolta irriconoscibili, obliterando la connessione con la forma antica, la quale è insieme internazionale». E da ἄπειρον ad *apīrum e quindi ad *apíro la differenza è sotto gli o(re)cchi di tutti.
Mah, non mi sembra troppo distante: da apeiron ad apiro togliamo solo due lettere... Mi sembra nella norma degli adattamenti dalle lingue classiche.
G.B. ha scritto: mer, 13 lug 2022 16:07 Aggiungo che comprendo le perplessità sull'uso diacronico del termine forestierismo [...]
Domanda terminologica interessante; ma direi che per questa è meglio aprire un filone dedicato. :wink:
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