[Non solo Ferdinand mi ha preceduto scrivendo, ma ha pure usato parole simili. Anche se mi trovo d'accordo con quanto dice, nel mio intervento esprimo concetti un po' diversi (non in opposizione), per cui lo pubblico così come l'ho scritto senza modifiche.]
Freelancer ha scritto: dom, 08 gen 2023 21:21
La vera soluzione è stata indicata da Tullio de Mauro alcuni anni fa, citata da me in questa sede, basata sull'osservazione, con la quale concordo in pieno, che quanto più si conosce l'inglese meno si infioretta il proprio italiano di parole inglesi. Quindi quel che occorrerebbe è far sì che la maggioranza degli italiani capisca, parli e scrivi bene l'inglese. Il che ovviamente è un sogno.
Un tempo ero più o meno allineato a quelle posizioni. Studiando la questione della lingua internazionale, ho poi
cambiato idea. Ma c'è un'altra ragione per cui la ritengo dubbia, a parte il mio desiderio di neutralità tra i popoli, una ragione che riguarda l'efficacia, considerata puramente entro i confini italiani. La posizione di De Mauro, che nel mondo della linguistica gode d'indubbia popolarità, per varie ragioni —anche la Gheno l'approva, ricordo che una volta me l'ha parimenti indicata come soluzione in una discussione—, secondo me manca di considerare un punto fondamentale: una cosa ovvia, che però passa inosservata, perché ci si concentra sui dettagli e si perde di vista il quadro complessivo, che richiede di distanziarsi dalle cose e ampliare il campo visivo. Io stesso, che ora cerco di far notare la cosa, ho impiegato anni ad accorgermi di questa «ovvietà».
Il possibile errore che scorgo in tale posizione è una dimenticanza: si dimentica il fatto che
le lingue sono difficili. Perché lo dimentichiamo? Perché noi che passiamo tanto tempo a ragionare e riflettere di contaminazioni interlinguistiche, in tutte le possibili, sottili e dotte sfumature (non solo noi qui su Cruscate, ma più ampiamente chiunque si interessi di lingua e —per esempio— abbia opinioni più o meno ragionate sulla questione dei forestierismi), siamo abituati a discuterne quasi sempre con persone simili a noi, per quanto riguarda competenze, cultura, predisposizioni, interessi, anche se magari d'idee opposte su molti temi: si crea in noi, in modo «naturale» ma comunque da evitare, l'errore di percezione della «bolla», per cui viviamo per così dire in un mini-mondo, con regole diverse dal mondo più grande in cui questo si trova, ma crediamo che le regole del minimondo siano le regole del mondo tutto.
Nel nostro caso, lo sbaglio può produrre risultati che richiedono almeno di essere discussi. Il primo fatto è riconoscere la differenza tra il minimondo e il mondo: per me, per lei, per Ferdinand, per De Mauro, la Gheno e Castellani, le lingue sono qualcosa di
molto più facile da maneggiare di quanto lo siano per la stragrande maggioranza degli esseri umani. Non solo sono più facili, ma sono
molto più interessanti: se qualcuno di noi dovesse essere meno portato naturalmente, per esempio per mancanza di memoria o per distrazione, ovvia però con l'interesse e la cura che pone nel maneggiare il mezzo linguistico, maggiori rispetto a quelli della media della gente. L'artista che non nasce con un talento può comunque produrre valide opere d'arte, se sopperisce alla mancanza di talento con la pazienza e la costanza nel lavoro.
Per «noi», è indubbio che «insegnare meglio l'inglese aiuterà a ridurre gli anglicismi»: credo che tutti noi abbiamo una conoscenza dell'inglese ben maggiore di quella dell'«italiano medio», e allo stesso tempo siamo molto più consapevoli e —se ne usiamo— usiamo gli anglicismi in maniera più parsimoniosa che l'italiano medio: fra le due cose sembra esserci una correlazione praticamente nel 100% dei casi. Ma possiamo estendere quanto osserviamo tra di noi a tutto il mondo là fuori? Questo è il punto centrale che dimentichiamo e sul quale, secondo me, dovremmo avere i piedi di piombo.
Le persone faticano a maneggiare la lingua. Parecchie faticano a padroneggiare persino la propria lingua madre: banalmente perché non sono dotate per la lingua, e/o non sono interessate. Ciò non è necessariamente una «colpa», né un «difetto» che vada corretto: è solo la variazione statistica, per cui noi ci troviamo sul picco della montagna e quasi tutti sono sotto di noi.
Parlare bene una lingua richiede tempo e fatica, allenamento e costanza. Parlare
bene una seconda lingua richiede molto tempo e molta fatica, molto allenamento e molta costanza. Siamo sicuri che, nell'ipotesi di far investire così tante energie nello studio dell'inglese a tutte le persone meno dotate di noi, si otterrà l'effetto sperato? O non ci sarà invece il rischio di una maggior contaminazione, semplicemente perché nella loro testa c'è meno spazio, meno memoria, meno interesse per la lingua, per cui la maggior conoscenza dell'inglese va a rubare posto alla conoscenza dell'italiano? E una volta imparato
bene l'inglese, chi è meno portato per la lingua non potrebbe pensare che l'italiano è inutile o meno utile, e quindi non degno di sforzi per conoscerlo e parlarlo bene? «Parlo già l'inglese, m'impegnerò a migliorarlo per figurare bene in tutti i contesti, voglio investire le mie risorse in modo utile per la mia vita, perché mai dovrei perdere tempo a curare la precisione formale dell'italiano, che non serve a niente e di cui non importa niente a nessuno? Ahahah,
ok boomer, ciao dinosauri».
Può darsi che De Mauro avesse ragione; può darsi che sbagliasse. Non ho una risposta certa a queste domande. Ma penso che bisognerebbe ragionarne, e non dare per iscontata la soluzione di De Mauro che così tanti danno per iscontata.
[Ricordavo vagamente —il cielo mi ha benedetto con molte doti, ma purtroppo non colla memoria, che ho piena di buchi— di aver letto queste considerazioni in qualche autore. Facendo una ricerca nel mio computiere trovo uno spunto che mi ero segnato per un libretto che stavo scrivendo, ma non vi ho indicato fonti in modo preciso. Nei prossimi giorni se avrò tempo proverò a guardare meglio.]