Esiste ancora il meridiano di Monte Mario?

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Ladim
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Esiste ancora il meridiano di Monte Mario?

Intervento di Ladim »

Più volte si è accennato, qui, al ruolo coperto dalla cultura riguardo all’impoverimento identitario cui va incontro la nostra lingua, in un’epoca ormai globalmente condizionata dai linguaggi tecnologici e, soprattutto, dal prestigio del modello anglosassone (in senso lato), quest’ultimo ammirato ecumenicamente quale riferimento irrinunciabile di esemplarità economica e culturale; più volte si è puntato l’indice sulla fiacchezza dell’impegno italiano, o, per meglio dire, dei risultati della nostra ricerca in quegli ambiti ‘forti’ del pensiero e dell’interesse contemporanei, marcando la spinta pragmatica che la cultura deve avere per veicolare il successo di una lingua, dentro e fuori i termini delle proprie isoglosse. Infine, è capitato – per quel che mi riguarda – di sottolineare sparsamente la debolezza dell’animus culturale del nostro paese, attribuendo alla superficialità e alla pochezza della ‘memoria italiana’ un peso rilevante e anzi fondamentale.

Così si presenta la questione dei forestierismi, se si osserva il fenomeno nel suo insieme, sotto il profilo ‘sociale’ e, appunto, ‘culturale’: ci troviamo di fronte a una nutrita schiera di tipi sociali che, nel quotidiano, per i più svariati motivi, attinge spontaneamente all’inglese per comunicare, esprimere, pensare, in ultimo ‘vivere’ tutte le proprie relazioni sociali. E tuttavia la questione potrebbe arricchirsi di un ulteriore interesse. Qualora volessimo superare le paratie di una sincronia linguistica ad ogni modo allarmata, bisognerebbe forse aggiungere un terzo fattore, e cioè quello complessivo della ‘storia’: per quel che riguarda noi, la storia di un’«opinione» che ancora oggi, tutto sommato, caratterizza la considerazione ‘emotiva’ condivisa – a nostro oscuro appannaggio – dai principali paesi europei. Si tratta dell’opinione che l’Italia ha via via suscitato presso coloro che – nel corso della storia moderna, più o meno dal Seicento in poi – hanno goduto di una certa autorevolezza e, con la loro voce, hanno contribuito a definire un’ 'immagine' che si è poi confermata nel tempo, con alti e bassi, ingenerando un’impressionabilità diffusa e, spesso, avvolta nel pregiudizio.

La crisi dell’identità culturale italiana di oggi, quindi, può avere una radice storica ben profonda. A una serie di cause endogene e di più recente formazione (nuovo assetto sociale ed economico, industrializzazione prima e terziarizzazione dopo della società e conseguente unificazione del mercato mondiale), si accompagnerebbe un ordine di ragioni esogene, ribadite e più o meno confermate da particolari condizioni storiche, ovvero da un’ideologia condivisa senz’altro da chi nei secoli passati, per i più diversi motivi, ha visitato il nostro paese e ne ha fatto oggetto di riflessione. Di particolare interesse è allora il periodo che, appunto, si inizia con i primi decenni del Seicento, in cui i giudizi di alcuni personaggi, in particolare inglesi, vanno assumendo un carattere viepiù critico: dalle ceneri della consuetudine aristocratica del Grand Tour culturale emerge un nuovo modo di osservare il nostro paese; agli umanisti, agli scrittori, o alla più banale gentry che vedevano nell’Italia la culla del mondo antico, ora subentrano gli scienziati, i tecnici, i pensatori che possono dare vita al dibattito politico, suscitando l’interesse di un pubblico, quello inglese, ormai in procinto di abituarsi alla ricchezza economica londinese e alle relative novità sociali che a essa si legano. Si constata, insomma, il mutamento di un’immagine che sempre meno veicola la dimensione culturale, sempre più il frutto di un’osservazione appuntata sugli aspetti economici e politici.

In altre parole, finché è possibile parlare di un’Italia rinascimentale e umanistica, vale l’ammirazione di chi descrive il nostro paese come una sorta di museo in cui poter rivivere le suggestioni dell’antichità; quando però il sistema economico occidentale si libera dalle catene dell’autoconsumo feudale, ecco che l’ammirazione si può convertire in ‘disprezzo’, e le tensioni di un secolo intero, quello delle guerre di religione e del nuovo sistema economico pre-paleocapitalistico, producono l’immagine di un’Italia catastrofica, di un paese in cui la natura è stata generosissima, che tuttavia paga lo scotto di un’iniziativa umana ‘inadeguata’. È a quest’altezza che si getta il seme di un’interpretazione che nei primi decenni dell’Ottocento, con l’etichetta di quello che oggi chiamiamo «determinismo climatico», affibbierà ancora alla «razza italiana» il disonore della pigrizia e dell’indolenza.

Naturalmente non è mia intenzione elaborare qui un’ipotesi sorvegliata e rigorosa; quanto piuttosto fermare alcune considerazioni che possano arricchire, se possibile, il nostro dibattito; quindi non ci si aspetti un pensiero strutturato in tutti i suoi dettagli – ché se guardo al prestigio rinascimentale italiano, non devo dimenticare l’interesse che gl’intellettuali europei, proprio tra XVII e XVIII secolo, hanno manifestato per la nostra storia medievale, di sicuro confrontando una memoria ‘recente’ e, per dir così, ‘notevole’, con un’attualità di tutt’altro segno: al dinamismo politico dell’Italia dei comuni e anche delle grandi signorie si contrappone la passività seicentesca di un’esperienza civile sottomessa e schiacciata dalle vessazioni spagnole, da una rigidità controriformistica ancorata a un ‘sorprendente’ ritardo civile.

A questo proposito, sarebbe interessante rileggere il bel lavoro di Franco Venturi, L’Italia fuori d’Italia, per avere sotto mano le coordinate, le fonti con cui circoscrivere la storia di questa ‘opinione europea’ (di matrice inglese ma anche francese), di quest’immagine italiana poco gradevole eppure realmente accusata.

Quindi, costringendo la nostra riflessione a confrontarsi con il pochissimo che qui s’è detto (lasciando fuori i pur significativi eventi della storia recente e recentissima), potremmo immaginarci una coscienza europea moderna, formatasi tra Parigi e Londra, in cui l’immagine del nostro paese ne esce comunque penalizzata – tale coscienza apparterrebbe alla cultura europea di cui noi stessi siamo parte, non solo per ciò che abbiamo prodotto di notevole (e universalmente riconosciuto): ma anche per il modo in cui, passivamente, recepiamo dagli altri – interiorizzandola – l’idea della nostra identità.

Vi è quindi un peso culturale di lungo periodo che graverebbe sulla considerazione che gl’italiani hanno della loro, chiamiamola così, ‘immagine’? Se è vero che il nuovo sistema sociale e civile è scarsamente italiano, ed è soprattutto anglo-americano, è anche vero che la sufficienza con cui noi stessi consideriamo alcuni aspetti della nostra storia culturale comporta un insensibile atteggiamento di diffidenza nei confronti della tradizione italiana, in ultimo un’accoglienza acritica per tutto ciò che si offre attraverso i nuovi canali d’intermediazione culturale.

Diversamente, il peso culturale di breve periodo orienta il giudizio spiccio, il senso comune. L’istituzionalizzazione dell’istruzione sembra aver ottenuto il diradamento della nostra identità, attribuendo alla tradizione italiana quell’alone di obsolescenza che, troppo spesso, ci invita a frequentare i banchi di scuola soltanto per ottenere l’effimero premio di un titolo di studio (nella più rosea delle prospettive, una buona formazione professionale), e non più per cementare la coscienza di un’identità collettiva, anche irrazionalmente (mai fanaticamente) affezionata a sé stessa.
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Federico
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Iscritto in data: mer, 19 ott 2005 16:04
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Intervento di Federico »

Ma lei crede che tutto il problema si possa ricondurre a questa «crisi d'immagine», compresa la pigra trascuratezza e incuria linguistica che sembra essere una delle cause principali dell'adozione acritica di molti anglismi?
Cioè, la lingua condividerebbe la crisi dell'identità nazionale di cui è simbolo e componente fondamentale.
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