«tiè, tie’»

Spazio di discussione su questioni di grafematica e ortografia

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Intervento di Infarinato »

bubu7 ha scritto:L'esempio sembrerebbe contraddire la sua ipotesi della sola posizione prepausale della forma tronca in toscano. L'autore esprime graficamente il raddoppiamento e, come si vede, non lo specifica dopo tie' in quanto l'apocope era ben avvertita.
Benissimo (grazie): tie’ dev’essere una variante [occasionale/senese] del piú comune [in italiano antico] te’ (una sola occorrenza di tie’ [col valore di «tiene», non dell’imperativo «tieni»] nell’OVI in testi toscani [nessuna di tiè, impossibile cercare te’, e il TLIO è temporaneamente inaccessibile :(]).

Ovviamente, se mai è esistito in toscano un [seppur marginale] tie’ non esclusivamente prepausale, non poteva che essere ageminante. Mi domando, però, se in base a quest’unico esempio del Degli Agazzari si possa realmente parlare di «forma tradizionale», che è piuttosto te’.

Certo è che questo tie’ [poco o] nulla ha [a] che vedere [per uso e fonosintassi, in toscano] col tiè moderno.
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bubu7
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Intervento di bubu7 »

Infarinato ha scritto: Certo è che questo tie’ [poco o] nulla ha [a] che vedere [per uso e fonosintassi, in toscano] col tiè moderno.
È vero.
Non trascurerei però, come continuatore della forma antica, Pirandello.

E allora, scusa, tie', ti do le terre... (I vecchi e i giovani).

Tie', saziati, figlio bello mio, animuccia mia! (In silenzio).

Pirandello non si può considerare un autore che indulgeva a forme regionali. Al più, gli scappava qualche arcaismo.

P.s.
Ho trovato nelle Rime del [praticamente] fiorentino Poliziano:

che per or mi tiè contento
e io sempre sarò intento


Forse la forma apocopata tie' (tiè) non era poi così peregrina nell'italiano antico. :roll:
Ultima modifica di bubu7 in data mar, 07 ott 2008 9:57, modificato 1 volta in totale.
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
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Intervento di Infarinato »

bubu7 ha scritto:
Infarinato ha scritto: Certo è che questo tie’ [poco o] nulla ha [a] che vedere [per uso e fonosintassi, in toscano] col tiè moderno.
È vero.
Non trascurerei però, come continuatore della forma antica, Pirandello.
Non lo «trascurerei» neanch’io, ma mi pare che negli esempi da Lei riportati egli ricerchi esplicitamente la mimesi con l’oralità, un’oralità ovviamente [centro]meridionale…
bubu7 ha scritto:Ho trovato nelle Rime del [praticamente] fiorentino Poliziano:

che per or mi tiè contento
e io sempre sarò intento
:? Prima di tutto si tratterebbe dell’indicativo tiene, non dell’imperativo tieni, e poi qui io trovo tien.
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bubu7
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Intervento di bubu7 »

Infarinato ha scritto: :? Prima di tutto si tratterebbe dell’indicativo tiene, non dell’imperativo tieni, e poi qui io trovo tien.
Puntualizzazione corretta. È meglio tener separati i due casi.
Ma poiché ci diceva che aveva trovato una sola occorrenza all'indicativo, nell'OVI, ho riportato un altro caso.
Interessante anche il collegamento. Mentre ricopiavo i due versi avevo scritto, in un primo tempo, tien. Chissà qual è la versione più fedele all'originale. :roll:
La versione della LIZ 4.0 è curata da D. Delcorno Branca e edita dall'Accademia della Crusca nel 1986.
Quella del Suo collegamento è curata da D. Puccini e edita dalla Garzanti nel 1992.
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

bubu7 ha scritto:Il Gabrielli bivolume si spinge a proporre la forma "tè!".
Dove ha letto questo?
Il Gabrielli bivolume ha scritto:te’ (leggi ), interiez. Forma abbreviata di tièni!, dell’uso ant. o dial., come dire to’, prendi.
La dicitura «leggi » è lí solo per indicare la corretta pronunzia, non si tratta d’una proposta grafica.

Dopo tutte le considerazioni fatte mi sembra che s’imponga semplicemente la grafia tiè, registrata, come detto da Bubu7, dal Battaglia e presente, come ricordato da Infarinato, nel GRADIT. La grafia tie’ ha lo svantaggio d’introdurre un’anomalia nel nostro sistema grafico: l’apostrofo non indica l’accento tonico, per cui sarebbe possibile, specie a uno straniero, considerare anche la pronuncia /'tie/ (tíe).
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Intervento di bubu7 »

Marco1971 ha scritto:
bubu7 ha scritto:Il Gabrielli bivolume si spinge a proporre la forma "tè!".
Dove ha letto questo?
Il Gabrielli bivolume ha scritto:te’ (leggi ), interiez. Forma abbreviata di tièni!, dell’uso ant. o dial., come dire to’, prendi.
La dicitura «leggi » è lí solo per indicare la corretta pronunzia, non si tratta d’una proposta grafica.
Grazie della segnalazione. La mia consultazione del Gabrielli non è stata approfondita. Conosco bene il senso delle diciture del Gabrielli ma, semplicemente, non avevo controllato l'esistenza di un'entrata separata per l'interiezione.

La forma tè! 'prendi!' è riportata, come familiare, sotto il verbo tenere punto 4.
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Intervento di bubu7 »

Infarinato ha scritto: Non lo «trascurerei» neanch’io, ma mi pare che negli esempi da Lei riportati egli ricerchi esplicitamente la mimesi con l’oralità, un’oralità ovviamente [centro]meridionale…
A parte che bisognerebbe verificare la resa in dialetto siciliano della forma apocopata (in altri dialetti centro-meridionali la forma apocopata è ) prima di risponderle ho voluto ricontrollare quanto dice Serianni, su Pirandello, nella Storia della lingua italiana dell’Einaudi.
Egli sostiene che nella prosa di Pirandello sono rari i regionalismi semantici e sintattici mentre l’Altieri Biagi ha sottolineato la sua «discrezione filologica» cioè il suo scrupolo nel rispettare la norma tradizionale.
Serianni continua dicendo che i modi di riproduzione dell’oralità di Pirandello sono tutti risolti all’interno della grammatica tradizionale.
In conclusione, il professore e accademico Pirandello, a differenza di altri scrittori suoi contemporanei come Nievo, si muoveva nell’alveo della nostra migliore tradizione letteraria. :)
Ultima modifica di bubu7 in data mar, 07 ott 2008 13:26, modificato 1 volta in totale.
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Intervento di Infarinato »

bubu7 ha scritto:In conclusione, il professore e accademico Pirandello, a differenza di altri scrittori suoi contemporanei come Nievo, si muoveva nell’alveo della nostra migliore tradizione letteraria. :)
Sí, ma questo non cambia nulla, caro Bubu, gli esempi di Pirandello non potendo comunque costituire dei continuatori diretti (né sul piano fonologico né su quello morfosintattico) d’un [marginale] tie’ «paleofiorentino». Quindi [fino a prova contraria] non c’è «tradizione», né di pronuncia né di grafia, ma, eventualmente (ne dubito, però), solo un «dòtto ripescaggio». ;)
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Infarinato ha scritto: Sí, ma questo non cambia nulla, caro Bubu, gli esempi di Pirandello non potendo comunque costituire dei continuatori diretti (né sul piano fonologico né su quello morfosintattico) d’un [marginale] tie’ «paleofiorentino».
Certo. Non era questo che volevo sostenere.
Infarinato ha scritto:Quindi [fino a prova contraria] non c’è «tradizione», né di pronuncia né di grafia, ma, eventualmente (ne dubito, però), solo un «dòtto ripescaggio». ;)
Non mi spingo neanche a ipotizzare un ripescaggio. Rilevo che un grande scrittore contemporaneo ha usato la forma e, probabilmente, non per mimesi del dialetto siciliano. Forse non possiamo parlare di tradizione ma abbiamo un'altra attestazione significativa dell'uso della forma in italiano slegata, mi sembra, dall'interiezione di probabile origine romanesca e col semplice valore di forma apocopata di una voce verbale.
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bubu7 ha scritto: A parte che bisognerebbe verificare la resa in dialetto siciliano della forma apocopata...
Il vocalismo siciliano non prevede il dittongamento nelle parole derivate dalla e breve latina. Quindi tie’ non può essere dovuta, in Pirandello, alla mimesi dell’oralità locale.

Ma non sono ancora completamente soddisfatto della questione.

Ieri ho dato un’occhiata alla Grammatica storica del Rohlfs che ne parla in almeno due punti.

Nel primo volume, par. 302, Abbreviazioni di forme verbali, trovo:
Certe forme verbali di uso frequente subiscono talune abbreviazioni a causa dell’indebolimento dell’accentazione dovuto alla posizione proclitica.
[…]
In Toscana e in molti dialetti dell’Italia centrale e meridionale si sente tiè ovvero , viè ovvero per ‘tiene’ e ‘viene’ e come imperativi te e ve;
Nel secondo, par. 606, Forme abbreviate [dell’imperativo].
La seconda persona singolare, grazie al suo contenuto affettivo (volitivo), è incline ad abbreviazioni. Nel toscano popolare e nel romanesco si ode viè qua ‘vieni’, tiè¹ ‘tieni’…

1. In nota il traduttore, professor Temistocle Franceschi, precisa: E, assai più frequente, (senza dittongo!).
Passando alla Grammatica storica del Castellani ritrovo un'osservazione interessante che, forse, ci può riguardare facendoci vedere in un’altra luce l’esempio del senese Degli Agazzari. Castellani nota che, in area senese, vi sono dittongamenti che non si ritrovano in area fiorentina.
Forse, per il nostro esempio, più che di paleofiorentino si può parlare solo di paleosenese?

Allora la domanda sarà: come siamo attivati alla forma te’ per l’imperativo tieni? Si sarà passati da una forma tie’ oppure la forma intera di partenza era diversa e il fiorentino non ha mai conosciuto una forma tie’?
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bubu7 ha scritto:Il vocalismo siciliano non prevede il dittongamento nelle parole derivate dalla e breve latina. Quindi tie’ non può essere dovuta, in Pirandello, alla mimesi dell’oralità locale.
Ovviamente, Pirandello scrive in italiano, quindi o non attinge al dialetto siciliano e attinge piuttosto all’italiano regionale siciliano o, se/quando vi attinge, traduce in italiano usando, nel caso specifico, la forma [già] panitaliana tie’/tiè.
bubu7 ha scritto:Castellani nota che, in area senese, vi sono dittongamenti che non si ritrovano in area fiorentina.
Diciamo meglio che certi dittongamenti [che erano anche fiorentini] si conservano piú a lungo nel senese, come per esempio biene, che regredisce assai piú lentamente che in fiorentino anche nei composti (in posizione atona, cioè).
bubu7 ha scritto:Forse, per il nostro esempio, più che di paleofiorentino si può parlare solo di paleosenese?
È proprio quello che suggerivo piú sopra…
bubu7 ha scritto:Allora la domanda sarà: come siamo attivati alla forma te’ per l’imperativo tieni? Si sarà passati da una forma tie’ oppure la forma intera di partenza era diversa e il fiorentino non ha mai conosciuto una forma tie’?
Secondo me, siamo di fronte a un caso analogo a quello di bene/biene: in fiorentino l’imperativo tieni (e cosí l’indicativo tiene) dovette concorrere [specialmente in protonia] con teni (risp. tene: ricordiamo ad esempio l’oscillazione viene/vene in italiano antico), ed è «naturale» che [in fiorentino] la forma apocopata (esclusivamente protonica?) destinata a prevalere fosse proprio te’.

Quindi, a mio modesto avviso, parlare di «forma tradizionale» per tie’ sarebbe come parlare di forma tradizionale per biene. :?
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Intervento di bubu7 »

Infarinato ha scritto: Secondo me, siamo di fronte a un caso analogo a quello di bene/biene: in fiorentino l’imperativo tieni (e cosí l’indicativo tiene) dovette concorrere [specialmente in protonia] con teni (risp. tene: ricordiamo ad esempio l’oscillazione viene/vene in italiano antico), ed è «naturale» che [in fiorentino] la forma apocopata (esclusivamente protonica?) destinata a prevalere fosse proprio te’.

Quindi, a mio modesto avviso, parlare di «forma tradizionale» per tie’ sarebbe come parlare di forma tradizionale per biene. :?
Grazie, Infarinato.
Alla fine penso anch'io che sia improprio parlare di forma tradizionale per tie' e sia meglio considerarla una variante, magari un po' meno moderna, di tiè. Potremmo, seguendo il DOP, riservare la dicitura tradizionale ("nell'uso antico") a te'.
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bubu7 ha scritto:Esistono due fattori concorrenti che spingono a preferire la forma accentata.
Il primo, l’abbiamo già ricordato, è il fatto che nell’interiezione si avverte sempre meno la derivazione per apocope dalla forma intera. Ci troviamo di fronte a un monosillabo forte [...]
Il secondo, è che la forma apocopata è un dittongo ascendente che [...] si ritrova (come ricordava Infarinato) anche in posizione prepausale. I dittonghi ascendenti di questo tipo (di monosillabi forti) vogliono a maggior ragione l’accento per evitare ambiguità di pronuncia, come riportato chiaramente da tutte le grammatiche.
Nego queste due premesse, adducendo anch’io quali argomenti a sostegno dell’antitesi due fattori concorrenti che spingono a preferire la forma apostrofata.
Il primo, come già detto, è il fatto che nessun monosillabo interiettivo (quindi forte e in posizione prepausale) generato da apocope sillabica, in cui non s’avverte la derivazione dalla forma intera, produce geminazione, né prende su di sé l’accento. Inoltre per le interiezioni (parliamo sempre di monosillabi) l’unico uso grafico sensibilmente in espansione nell’italiano contemporaneo, come il Serianni stesso afferma, è la giustapposizione o la frapposizione dell’acca (quest’ultimo caso per i dittonghi).
Ora, è anche vero che non dispongo del libro di Paolo D’Achille, ma a meno che per italiano moderno non s’intenda la lingua dei messaggini e dei diari in rete, a me pare che nessun apostrofo abbia sinora abdicato in favore di un accento.
{Per comodità di lettura, piuttosto che rinviare ai miei precedenti interventi, riporto qui di séguito le forme "incriminate": to’/toh (< to[gli]), va’/vah (< va[de]), ve’/veh (< ve[di]), be’/beh (< be[ne]) e forse ba’/bah (< ba[da]). Si dice che l’analogia non prova nulla... ma «è la cosa meno fuorviante che abbiamo» (Samuel Butler).}

Tutt’altro discorso vale per i polisillabi ossitoni, qualunque sia la loro origine, i quali soltanto senz’eccezioni (come riportato chiaramente da ogni grammatica) —anche a discapito della natura ageminante dell’ultimo elemento— prendono l’accento e producono raddoppiamento fonosintattico, come in vabbè. Ma non è il caso del monosillabo tie’.

Il secondo fattore è che non esiste grammatica seria o aggiornata che prescriva l’accento sui monosillabi (quanto sia antiquata la nozione di "dittongo ascendente", lo sappiamo ormai tutti) per evitare ambiguità di dizione. A scanso di equivoci, dacché pare che qualcuno sconosca pure le piú banali ragioni ortografiche, su piè e diè abbiamo l’accento grafico non perché s’è voluta impedire un’improbabile regressione d’accento fonetico (come qualcuno ha stranamente scritto, restando, piú stranamente ancora, non corretto), bensí perché sono cogeminanti. E la scelta filologicamente ineccepibile del Pirandello, anziché relegare l’apostrofo alla tradizione, facendoci incorrere in mille cavilli e contraddizioni, com’è accaduto negl’interventi che mi precedono, dovrebbe dimostrare che tutt’i timori che c’invitano a prendere aberranti precauzioni grafiche sono infondati.
V’ha grand’uopo, a dirlavi con ischiettezza, di restaurar l’Erario nostro, già per somma inopia o sia di voci scelte dal buon Secolo, o sia d’altre voci di novello trovato.
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