bubu7 ha scritto:Esistono due fattori concorrenti che spingono a preferire la forma accentata.
Il primo, l’abbiamo già ricordato, è il fatto che nell’interiezione si avverte sempre meno la derivazione per apocope dalla forma intera. Ci troviamo di fronte a un monosillabo forte [...]
Il secondo, è che la forma apocopata è un dittongo ascendente che [...] si ritrova (come ricordava Infarinato) anche in posizione prepausale. I dittonghi ascendenti di questo tipo (di monosillabi forti) vogliono a maggior ragione l’accento per evitare ambiguità di pronuncia, come riportato chiaramente da tutte le grammatiche.
Nego queste due premesse, adducendo anch’io quali argomenti a sostegno dell’antitesi due fattori concorrenti che spingono a preferire la forma apostrofata.
Il primo, come già detto, è il fatto che nessun monosillabo interiettivo (quindi forte e in posizione prepausale) generato da apocope sillabica, in cui non s’avverte la derivazione dalla forma intera, produce geminazione, né prende su di sé l’accento. Inoltre per le interiezioni (parliamo sempre di monosillabi) l’unico uso grafico sensibilmente in espansione nell’italiano contemporaneo, come il Serianni stesso afferma, è la giustapposizione o la frapposizione dell’acca (quest’ultimo caso per i dittonghi).
Ora, è anche vero che non dispongo del libro di Paolo D’Achille, ma a meno che per italiano moderno non s’intenda la lingua dei messaggini e dei diari in rete, a me pare che nessun apostrofo abbia sinora abdicato in favore di un accento.
{Per comodità di lettura, piuttosto che rinviare ai miei precedenti interventi, riporto qui di séguito le forme "incriminate":
to’/toh (< to[gli]),
va’/vah (< va[de]),
ve’/veh (< ve[di]),
be’/beh (< be[ne]) e forse
ba’/bah (< ba[da]). Si dice che l’analogia non prova nulla... ma «è la cosa meno fuorviante che abbiamo» (Samuel Butler).}
Tutt’altro discorso vale per i polisillabi ossitoni, qualunque sia la loro origine, i quali soltanto senz’eccezioni (come riportato chiaramente da ogni grammatica) —anche a discapito della natura ageminante dell’ultimo elemento— prendono l’accento e producono raddoppiamento fonosintattico, come in
vabbè. Ma non è il caso del monosillabo
tie’.
Il secondo fattore è che non esiste grammatica seria o aggiornata che prescriva l’accento sui monosillabi (quanto sia antiquata la nozione di "dittongo ascendente", lo sappiamo ormai tutti) per evitare ambiguità di dizione. A scanso di equivoci, dacché pare che qualcuno sconosca pure le piú banali ragioni ortografiche, su
piè e
diè abbiamo l’accento grafico non perché s’è voluta impedire un’improbabile regressione d’accento fonetico (come qualcuno ha stranamente scritto, restando, piú stranamente ancora, non corretto), bensí perché sono cogeminanti. E la scelta filologicamente ineccepibile del Pirandello, anziché relegare l’apostrofo alla tradizione, facendoci incorrere in mille cavilli e contraddizioni, com’è accaduto negl’interventi che mi precedono, dovrebbe dimostrare che tutt’i timori che c’invitano a prendere aberranti precauzioni grafiche sono infondati.