L’Accademia della Crusca: «Nei giorni del Covid, troppe parole inglesi»
Moderatore: Cruscanti
L’Accademia della Crusca: «Nei giorni del Covid, troppe parole inglesi»
Articolo uscito ieri su «la Repubblica», riassumibile, al solito, in due parole: «arrendevolezza consapevole».
Tra l'altro, quello menzionato è solo uno dei diversi motivi per cui l'inglese «suscita tanto appeal», a cominciare dalla mancanza di autorità linguistiche come quelle di Spagna e Francia, che si occupino di limitare gli altri due grandi fenomeni storici omessi: l'egemonia culturale in salsa inglese cui siamo stati sottoposti dopo la guerra, nonché la ricezione principalmente grafica delle informazioni.
Vi si aggiunga, scendendo nel caso in questione, anche quanto rilevato dallo Zoppetti, ovvero il mancato «lockdown» del fenomeno: finché si parlava di Cina, la cosa era esprimibile a parole italiane, quando il problema si è spostato in Europa ed è divenuto globale, allora l'italiano non bastava piú. «Internazionalismi», si dirà; bisognerebbe spiegare a costoro che, in un'epoca di globalismo, tutto - specialmente le novità - può essere «internazionalismo».
Tra l'altro, quello menzionato è solo uno dei diversi motivi per cui l'inglese «suscita tanto appeal», a cominciare dalla mancanza di autorità linguistiche come quelle di Spagna e Francia, che si occupino di limitare gli altri due grandi fenomeni storici omessi: l'egemonia culturale in salsa inglese cui siamo stati sottoposti dopo la guerra, nonché la ricezione principalmente grafica delle informazioni.
Vi si aggiunga, scendendo nel caso in questione, anche quanto rilevato dallo Zoppetti, ovvero il mancato «lockdown» del fenomeno: finché si parlava di Cina, la cosa era esprimibile a parole italiane, quando il problema si è spostato in Europa ed è divenuto globale, allora l'italiano non bastava piú. «Internazionalismi», si dirà; bisognerebbe spiegare a costoro che, in un'epoca di globalismo, tutto - specialmente le novità - può essere «internazionalismo».
G.B.
Re: L’Accademia della Crusca: «Nei giorni del Covid, troppe parole inglesi»
No, è peggio. La Crusca, per bocca del professor Marazzini, ha esplicitamente detto qui che «ogni tentativo di sostituire ora la parola [lockdown] sarebbe ridicolo». «Ridicolo» per cosa, egregio professor Marazzini? Sono solo io a sentirmi preso in giro, se anche la Crusca, nata per difendere la lingua italiana, prende queste posizioni? Anni e anni di tentativi di tradurre le parole straniere che arrivavano senza che nessuno dicesse nulla e ora si parla di tentativo «ridicolo»? Ma se la Crusca dice così, che senso ha il nostro sforzo di linguisti e appassionati senza nessuna rilevanza istituzionale? Scusate lo sfogo, ma quando ci vuole ci vuole.
Re: L’Accademia della Crusca: «Nei giorni del Covid, troppe parole inglesi»
Personalmente, la vedo ancor peggio di Lei, caro Carnby. Io non faccio fatica a pensare a un futuro in cui la stessa Accademia, per bocca di qualche avanguardista dell'ultim'ora, consigliasse di usare, ove possibile, parole inglesi in sostituzione a quelle italiane, cosí da accelerare il processo in maniera pianificata. Forse sarebbe la prima e ultima vera presa di posizione della Crusca in questa situazione.
Spero sinceramente di sbagliarmi.
Spero sinceramente di sbagliarmi.
G.B.
- Ferdinand Bardamu
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Re: L’Accademia della Crusca: «Nei giorni del Covid, troppe parole inglesi»
Mi chiederei che senso ha la stessa esistenza della Crusca. Gli approfondimenti che produce ribadiscono l’ovvio, danno eccessivo risalto a cose marginali o trattano in maniera prolissa dell’ultimo anglicismo giornalistico (ovviamente senza consigliare alcun’alternativa italiana, non sia mai). A che serve un’istituzione del genere, che rinuncia al suo ruolo di guida fondamentale per il buon uso dell’italiano?
Re: L’Accademia della Crusca: «Nei giorni del Covid, troppe parole inglesi»
Condivido le vostre osservazioni. Vorrei sottolineare un’altra aberrazione nell’articolo citato da Carnby:
Però ogni giornalista scrive per il pubblico del suo paese e quello italiano sta all’interno del medesimo meccanismo linguistico che ci spinge a essere cosí disponibili verso i forestierismi: quindi non necessariamente deve essere un maestro di lingua, fa quello che può, anzi interpreta lo spirito della sua nazione, non può andare controcorrente.
Qui si cerca di giustificare l’uso di forestierismi appellandosi a un presunto spirito della nazione, di cui il giornalista si farebbe l’interprete, quasi che tutto il popolo italiano si aspettasse di leggere nei giornali (e ritenesse del tutto normale) il maggior numero possibile di parole straniere. E saremmo presi in una sorta d’ingranaggio ineluttabile: il giornalista non potrebbe servirsi di parole italiane, altrimenti andrebbe controcorrente e deluderebbe le aspettative del pubblico. Devo dire che una simile distorta visione della realtà rasenta il delirio febbrile. E, con tali abbacinamenti, non vedo proprio speranza alcuna.
Però ogni giornalista scrive per il pubblico del suo paese e quello italiano sta all’interno del medesimo meccanismo linguistico che ci spinge a essere cosí disponibili verso i forestierismi: quindi non necessariamente deve essere un maestro di lingua, fa quello che può, anzi interpreta lo spirito della sua nazione, non può andare controcorrente.
Qui si cerca di giustificare l’uso di forestierismi appellandosi a un presunto spirito della nazione, di cui il giornalista si farebbe l’interprete, quasi che tutto il popolo italiano si aspettasse di leggere nei giornali (e ritenesse del tutto normale) il maggior numero possibile di parole straniere. E saremmo presi in una sorta d’ingranaggio ineluttabile: il giornalista non potrebbe servirsi di parole italiane, altrimenti andrebbe controcorrente e deluderebbe le aspettative del pubblico. Devo dire che una simile distorta visione della realtà rasenta il delirio febbrile. E, con tali abbacinamenti, non vedo proprio speranza alcuna.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Re: L’Accademia della Crusca: «Nei giorni del Covid, troppe parole inglesi»
Non voglio suscitare false speranze, ma... sia in Rete, sia parlando con la gente di persona, nella mia piccola esperienza personale ho l'impressione che l'atteggiamento stia un poco cambiando. Non dico "ai vertici" (politici, giornalisti, Crusca), dove l'anglomania è fortissima. Dico "in basso", tra le singole persone.
Su Facebook sono iscritto da un po' di tempo a un gruppo di appassionati della lingua, con più di ventimila iscritti. C'è qualche persona competente, ma la maggior parte sono dilettanti e alquanto ignoranti, persino più di me ( ). Dove prima imperava l'anglomania allegra, con rapida derisione collettiva di chi esprimeva un punto di vista diverso («Le lingue mutano ed è bello, siete fascisti, evviva la Crusca descrittivista, ridicoli dinosauri», ecc.), adesso invece c'è molto più dibattito, e vedo sempre più voci che spingono per un rilancio della lingua, prendendo persino in considerazione il "tabù" di coniare parole nuove (!), con creatività, senza demandare la nostra neologia all'inglese. Ho l'impressione che, lentamente ma sensibilmente, qualcosa stia cambiando. Si è trattato di un cambiamento avvenuto in non molti mesi, e —sospetto— proprio come reazione a certe posizioni esageratamente "prone" all'inglese dei politici e della Crusca.
Molto più lentamente (si parla stavolta di diversi anni) sto notando un cambiamento simile anche nella comunità della Vichipedia... dove un tempo mi si faceva la guerra per ogni singolo forestierismo che volevo togliere, adesso spesso riesco a farlo senza incontrare grande opposizione; e altri vichipediani di idee simili hanno confermato questa mia impressione di un lieve mutamento degli atteggiamenti sul tema.
Insomma, penso che certe "sparate" come quella di Marazzini, con il loro eccesso, possano paradossalmente svegliare la popolazione dal torpore e aiutare la nostra causa.
Su Facebook sono iscritto da un po' di tempo a un gruppo di appassionati della lingua, con più di ventimila iscritti. C'è qualche persona competente, ma la maggior parte sono dilettanti e alquanto ignoranti, persino più di me ( ). Dove prima imperava l'anglomania allegra, con rapida derisione collettiva di chi esprimeva un punto di vista diverso («Le lingue mutano ed è bello, siete fascisti, evviva la Crusca descrittivista, ridicoli dinosauri», ecc.), adesso invece c'è molto più dibattito, e vedo sempre più voci che spingono per un rilancio della lingua, prendendo persino in considerazione il "tabù" di coniare parole nuove (!), con creatività, senza demandare la nostra neologia all'inglese. Ho l'impressione che, lentamente ma sensibilmente, qualcosa stia cambiando. Si è trattato di un cambiamento avvenuto in non molti mesi, e —sospetto— proprio come reazione a certe posizioni esageratamente "prone" all'inglese dei politici e della Crusca.
Molto più lentamente (si parla stavolta di diversi anni) sto notando un cambiamento simile anche nella comunità della Vichipedia... dove un tempo mi si faceva la guerra per ogni singolo forestierismo che volevo togliere, adesso spesso riesco a farlo senza incontrare grande opposizione; e altri vichipediani di idee simili hanno confermato questa mia impressione di un lieve mutamento degli atteggiamenti sul tema.
Insomma, penso che certe "sparate" come quella di Marazzini, con il loro eccesso, possano paradossalmente svegliare la popolazione dal torpore e aiutare la nostra causa.
Il mio Dizionarietto di traducenti · I miei libri sull'italiano
Re: L’Accademia della Crusca: «Nei giorni del Covid, troppe parole inglesi»
Tutto questo, caro Giulio, è encomiabile e me ne rallegro. Tuttavia, se i giornali, la televisione, la radio, e con essi i linguisti e i lessicografi, continuano gli uni a immettere nella lingua gli anglicismi e gli altri a avallarli, che cosa può fare concretamente la popolazione? Anche il cittadino che intende dire, ad esempio, i meno di 30 anni, leggendo e sentendo intorno a sé gli under 30, finirà suo malgrado col pronunciare quest’ultima formula, perché il martellante flusso mediatico plasma le abitudini linguistiche, e dopo un certo tempo, tutto diventa naturale e normale. Quindi a me sembra che, in assenza di coscienza del proprio ruolo, i facitori (o disfacitori secondo i punti di vista) della lingua non cambieranno atteggiamento. O che sia questa una consapevole volontà?
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Re: L’Accademia della Crusca: «Nei giorni del Covid, troppe parole inglesi»
Che cosa possa fare concretamente la popolazione, non lo so; ma visto che, alla fin fine, giornalisti, linguisti, politici, eccetera, vengono dalla popolazione (e non cercano solo d'influenzarla, ma spesso anche di assecondarla), se le cose iniziano a cambiare in basso, qua e là inizieremo a notare qualche piccolo cambiamento anche in alto. La mia non è una profezia, ma solo una piccola osservazione limitata alla mia esperienza personale: può darsi che sia sbagliata, o può darsi che sia giusta ma non duri. Vedremo che succederà.
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- Ferdinand Bardamu
- Moderatore
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Re: L’Accademia della Crusca: «Nei giorni del Covid, troppe parole inglesi»
Mi aggiungo anch’io all’augurio che questo movimento dal basso arrivi a coinvolgere anche le istituzioni. Per adesso, però, non posso che condividere l’amarezza di Marco. Le parole di Marazzini arrivano, come sempre, a fatto compiuto e fanno trapelare una radicata volontà di consentire rassegnatamente alla deriva anglomane.
Nell’articolo segnalato in apertura da Giorgio, il presidente della Crusca dice che «dato il momento difficile in cui si trovava il Paese, si è preferito non prendere pubblicamente posizione [sull’anglicismo lockdown]». È una scusa bella e buona: l’accademia ha il compito di diffondere la conoscenza della nostra lingua, non d’ingerirsi nel dibattito politico o medico. Stilare una scheda su lockdown e consigliare caldamente l’uso di confinamento sarebbe rientrato pienamente nei suoi obbiettivi. In Francia e in Ispagna non hanno simili ubbie, e infatti dicono rispettivamente confinement e confinamiento.
Spiace dirlo, ma il lato linguistico della pandemia ha dimostrato che la preoccupazione di certi cruscanti per l’invasione di anglicismi inutili è solo di facciata. Il «famoso» gruppo Incipit nel 2020 ha prodotto un unico comunicato, riguardante il termine data breach: un solo intervento di fronte all’alluvisione di parole inglesi che si è abbattuta sull’italiano in pochissimi mesi. Su lockdown, droplet o recovery fund neanche mezza parola. Inoltre, il penultimo comunicato risale all’aprile del 2019, come se nei dodici mesi successivi non fossero entrati in italiano altri anglicismi (come deepfake, tanto per dire).
Nell’articolo segnalato in apertura da Giorgio, il presidente della Crusca dice che «dato il momento difficile in cui si trovava il Paese, si è preferito non prendere pubblicamente posizione [sull’anglicismo lockdown]». È una scusa bella e buona: l’accademia ha il compito di diffondere la conoscenza della nostra lingua, non d’ingerirsi nel dibattito politico o medico. Stilare una scheda su lockdown e consigliare caldamente l’uso di confinamento sarebbe rientrato pienamente nei suoi obbiettivi. In Francia e in Ispagna non hanno simili ubbie, e infatti dicono rispettivamente confinement e confinamiento.
Spiace dirlo, ma il lato linguistico della pandemia ha dimostrato che la preoccupazione di certi cruscanti per l’invasione di anglicismi inutili è solo di facciata. Il «famoso» gruppo Incipit nel 2020 ha prodotto un unico comunicato, riguardante il termine data breach: un solo intervento di fronte all’alluvisione di parole inglesi che si è abbattuta sull’italiano in pochissimi mesi. Su lockdown, droplet o recovery fund neanche mezza parola. Inoltre, il penultimo comunicato risale all’aprile del 2019, come se nei dodici mesi successivi non fossero entrati in italiano altri anglicismi (come deepfake, tanto per dire).
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