Se si vuole ignorare l'origine e il senso proprio del termine, affidandoci esclusivamente alle tendenze del momento, sì. Tuttavia un hacker non è necessariamente un pirata informatico ed intendere la parola solo o principalmente in quel senso è errato da un punto di vista storico e, se mi è permesso dirlo, pure linguistico.
Il significato originale, preciso della parola "hacker", come spesso succede per molti termini tecnici, è incerto, sebbene il fatto che "to hack" in inglese significhi "fare a pezzettoni con l'accetta" ("cut with heavy blows in an irregular or random fashion" secondo l'O.E.D.) e, per estensione, "lavorare grossolanamente" è piuttosto suggestivo e consente di fare un parallelo con l'espressione italiana "tagliato con l'accetta". Quel che si sa è che il termine veniva adoperato in quel di Boston per indicare chi lavorava a progetti di contenuto tecnologico, in particolare elettrici ed elettronici, probabilmente in maniera poco ortodossa. Pare che il termine si sia diffuso nella comunità dei radioamatori già negli anni '50, mentre l'associazione con l'informatica è solo molto più tarda. Comunque sia, le ipotesi sull'origine del termine sono le seguenti:
- da "to hack" inteso come "lavorare grossolanamente", "arrabattarsi", il termine avrebbe quindi indicato un amatore, uno smanettone, uno di quelli che trasformano il proprio garage in un laboratorio;
- da "to hack" inteso come "farsi strada a colpi di accetta", il termine avrebbe quindi indicato qualcuno che esplora in maniera poco ortodossa, magari amatoriale, le possibilità di una data tecnologia;
- da "hack" inteso come "impiegatuccio", ovvero qualcuno che è messo a fare lavoro ordinario e ripetitivo.
Traduco le vignette per facilitare l'interpretazione:
(Nota: il Lisp è una famiglia di linguaggi di programmazione funzionali, mentre il Perl è un linguaggio di programmazione famigerato per la sua irregolarità sintattica ed è generalmente considerato poco elegante)
- "La scorsa notte mi appisolai leggendo un libro sul Lisp." - "Improvvisamente mi ritrovai immerso in una luce azzurra."
- "D'un tratto, proprio come si dice, avvertii una grande illuminazione. Vidi la nuda struttura del codice Lisp disvelarsi in fronte a me." - "I modelli ed i metamodelli danzavano. La sintassi svaniva ed io nuotavo nella purezza del concepimento quantificato, della manifestazione delle idee."
- "Davvero questo è il linguaggio con il quale gli dei hanno forgiato l'universo."
- "No, non lo è." - "Ah, no?" - "Voglio dire, apparentemente, sì. In realtà l'abbiamo raffazzonato quasi tutto col Perl."
Insomma, a me pare che la traduzione per "hacker" sia bell'e pronta con "smanettone": gergale ed efficace come l'originale. Poi certamente nulla vieta, a seconda dei contesti, di parlare di "pirati informatici", di "esperti di sicurezza (informatica)" ecc.
Certamente non farebbe male notare che esiste pure il termine "cracker", cioè "scassinatore" o magari "ladro", che è più precisamente usato per chi si intrufola nei sistemi informatici a scopo di lucro illecito.
Scusate la prolissità, ma la tendenza ad impiegare termini di cui non si conosce l'origine, né il contesto, né il significato, solo perché suonano bene, porta ad un impoverimento della lingua e della comunicazione. In special modo i giornalisti hanno l'abitudine di usare parole da ambiti che non conoscono, finendo per attribuir loro un significato più banale, più piatto, più semplicistico (e a volta addirittura totalmente errato...) di quello originale, ma più di successo per l'ampiezza di pubblico di cui godono. Tutto ciò risulta infine in una comunicazione malata, in cui chi usa tali termini in maniera esatta finisce per essere frainteso, oppure gioca proprio sul fatto che la gente fraintenda: mi riferisco, rimanendo in tema informatico, a quando si sente parlare di "hacker", "troll", "bot" ecc. sui mezzi di comunicazione.