«Il/la prefetto»

Spazio di discussione su questioni di lessico e semantica

Moderatore: Cruscanti

CarloB
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Intervento di CarloB »

Mi sembra che le Raccomandazioni spiazzino un po' la discussione in corso in questo filone.
Con le proposte mi trovo in gran parte perfettamente d'accordo, perché la Sabatini proponeva di volgere regolamente al femminile quasi tutti i sostantivi indicanti professioni, mestieri eccetera. Quindi anche la prefetta e, sorpresa! la sindaca; la sindaco rappresenterebbe infatti una fase di passaggio verso la forma nuova più linguisticamente coerente: ne informerò al più presto la mia prima cittadina :lol: ).
Prendo atto della fiera avversione verso il suffisso -essa. Tranne che, meno male, in dottoressa e professoressa. Si registra invece un'oscillazione di giudizio nei confronti di studentessa. Che ci sia di sessista nell'usarlo ora che le donne sopravanzano gli uomini nei risultati scolastici non lo capisco bene. E dire di Alda Merini che è una poeta e non una poetessa mi pare non le aggiunga nulla.
Alcuni esempi mi sembrano semplici esercitazioni. La prete o la sacerdote nel caso della chiesa cattolica sono di là da venire; e nelle chiese riformate si parlerà tranquillamente di pastore.
La scarsa fortuna di architetta credo sia dovuta non a sessismo, ma esattamente al contrario: architetta può suonare ed essere percepito come derisorio o ammiccante.
La parte delle raccomandazioni che mi convince meno è quella che riguarda il maschile neutro non marcato.
Non mi pare che i reperti o resti umani di Cro-Magnon o Neanderthal abbia lo stesso significato di uomo di Cro-Magnon o Neanderthal: in questo secondo caso ci si riferisce a un'intera cultura, e non agli specifici reperti.
Caccia alla persona o all'individuo al posto di caccia all'uomo mi lasciano perplesso. Allo stesso modo non sono sicuro che la gente comune equivalga proprio a l'uomo della strada.
Evitare l'articolo per indicare i popoli in maniera non sessista mi pare francamente assurdo. Dovremmo dire: Romani conquistarono la Gallia? Andiamo...
Ai cugini francesi segnaleremo che la fraternità va sostituita con la solidarietà. Mi chiedo però se i due vocaboli siano davvero intercambiabili o se non vengano comunemente percepiti come espressione di sentimenti di diversa pregnanza. Solidarietà è inviare un contributo alle vittime di una catastrofe o a Telethon. Fraternità dovrebbe essere qualcosa di più intenso.
Ancora: la Merkel e il Sarkozy (aggiornando l'esempio de la Thatcher e il Brandt) vanno bene in Toscana. Altrove il viene percepito come obsoleto/affettato oppure regionale.
E da ultimo, sostenere che il linguaggio corrente (maschilista) è ideologico, mentre le proposte avanzate sono un'ottica diversa è come dire che il pensiero altrui è sbagliato (ideologia) mentre il nostro è ottica diversa, e beninteso migliore. Forse che sì, forse che no, e forse che si dovrà individuare un ragionevole compromesso.
Le Raccomandazioni sono un testo evidentemente datato, sia per alcuni esempi (neri è stato ulteriormente sostitutito da afroamericani) sia per il tono un po' oltranzista.
La scomparsa dell'autrice delle Raccomandazioni a pochi anni di distanza dalla loro pubblicazione impedisce di sapere che cosa scriverebbe adesso. E vorrei fosse chiaro che il disaccordo che, da non linguista e alla buona, sento di dover esprimere su alcuni punti va di pari passo con la massima ammirazione per la studiosa.
Mi domando a questo punto se non esista un aggiornamento di queste indicazioni.
Avatara utente
Incarcato
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Intervento di Incarcato »

Se esistano aggiornamenti, francamente non so. :roll:

Condivido alcune sue considerazioni, per esempio quelle sul maschile non marcato. Tuttavia, la parte che io trovo piú interessante è quella sui nomi di professione e sulle cariche, perché sono quelle che ad oggi creano i maggiori fastidi e oscillazioni. Poi è evidente che alcuni nomi di professione storicamente già del tutto inseriti nel lessico possono tranquillamente essere mantenuti, però io trovavo feconde quelle proposte in un'ottica programmatica per i futuri vocaboli o per quelli di recentissima introduzione.
I' ho tanti vocabuli nella mia lingua materna, ch'io m'ho piú tosto da doler del bene intendere le cose, che del mancamento delle parole colle quali io possa bene esprimere il concetto della mente mia.
Avatara utente
Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Riporto queste considerazioni di Giovanni Nencioni (La Crusca risponde, Firenze, Le Lettere, 1995, pp. 68-69):
Non si deve però credere che tutto il lessico si muova seguendo omogeneamente i mutamenti della cultura; rimangono zone piú o meno inerti, dove si è prodotta una stratificazione di concezioni antiche del mondo e della vita, che si riflette in un lessico cristallizzato a cui i parlanti, incolti o colti, ricorrono senza curarsi di verificarne la rispondenza alle concezioni moderne. Tutti continuiamo a dire che il sole sorge o tramonta, anche se, dopo la scoperta di Copernico, sappiamo che il suo moto, come quello dei pianeti e delle costellazioni, è solo apparente; tutti parliamo di buonumore e di malumore, di umor nero o irascibile, anche se non condividiamo piú la dottrina degli umori propria della medicina antica. L’orientamento del nostro accordo sul maschile è anch’esso il residuo di uno stadio antropologico arcaico, e siccome investe profondamente il sistema morfologico è difficile modificarlo anche laddove il rapido cambiamento del costume moderno lo esigerebbe: alludo ai nomi di mestieri e professioni un tempo propri dell’uomo ed oggi estesi alla donna, la cui trasposizione al femminile (o, come si suol dire, il cambio di genere) pone spesso alternative imbarazzanti e suscita proposte di soluzioni artificiose. Ma mentre i tentativi di eliminare l’accordo plurinominale al maschile inducono talvolta a giri lambiccati che esigono un forte autocontrollo logico del parlante riducendo la spontaneità e consonanza del colloquio, le denominazioni professionali al femminile s’impongono come conseguenza di un moto spontaneo della società moderna e rispondono ad esigenze di certezza e uniformità terminologica degli ordini professionali, artigianali e della legislazione. L’attuale indecisione dell’uso (ad es. tra avvocata e avvocatessa, o tra medico, medica e medichessa) è la conseguenza di una improvvisa e positiva crisi di crescenza della nostra società, alla quale l’inerzia dell’istituto linguistico stenta ad adeguarsi; crisi che sarà certamente superata dall’uso spontaneo degli ambienti di lavoro o da quello ufficialmente adottato dagli ordini professionali e dalla normativa.
Le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua contengono proposte del tutto insostenibili, come il voler modificare espressioni idiomatiche cha hanno avuto corso plurisecolare (alludo in particolare a a misura d’uomo, che si vorrebbe tramutare in a misura umana). Tuttavia, nel caso del participi presenti e passati, la femmini(li)zzazione mi pare spesso naturalissima. Faccio un solo esempio. A me non è mai garbato studentessa (che risale al 1907), e auspicherei che si generalizzasse l’uso ambigenere lo studente, la studente, come ho sentito dire io stesso, da una studente, all’università di Firenze nel 1996 («Sono una studente»).
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Brazilian dude
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Intervento di Brazilian dude »

Marco1971 ha scritto:…e auspicherei che si generalizzasse l’uso ambigenere lo studente, la studente
Come in portoghese: o estudante, a estudante, e in spagnolo: el estudiante, la estudiante.
Avatara utente
Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Il portoghese e lo spagnolo, l’ho già ripetuto innumerevoli volte, sono piú coerenti e omogenei dell’italiano, divenuto ormai caotica baraonda di parole diafoniche. Non c’era nessun valido motivo di coniare studentessa, visto che i participi hanno per natura facoltà di assumere ambo i generi. Altrimenti si dovrebbe avere anche: acquirentessa, agentessa, assistentessa, corrispondentessa, credentessa, dipendentessa, dirigentessa, docentessa, parentessa, presidentessa*, supplentessa, utentessa, e cosí via. Lo stesso dicasi di nomi terminanti in -e, che si prestano a una femminizzazione non connotata: il giudice/la giudice, il vigile/la vigile, ecc.
____________________
*Le uniche parole in -entessa sono: copresidentessa, neopresidentessa, presidentessa, studentessa, vicepresidentessa; in tutti i casi si rimanda alla forma in -ente. In -antessa abbiamo: brigantessa, elefantessa, gigantessa, mercantessa, santessa. Queste forme in -essa hanno o una connotazione spregiativa, o si riferiscono alla moglie/femmina.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Se dottoressa rimonta al XVI secolo, professoressa è del 1946... Debbo dire che questi femminili in -essa sovente mi danno un’impressione di pomposità (duchessa, principessa, e simili, vanno bene perché gli stanno bene anche lustrini e penne di struzzo); profetessa e poetessa hanno un che di aulico che si confà a questo tipo di altezza sfarzosa. Ma ha sempre una connotazione magniloquente che poco si addice alla realtà terrestrissima di occupazioni nel mondo del lavoro. Methinks. :D
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Scusate se esagero, ma la questione mi appassiona. Ho già citato Giovanni Nencioni qui sopra e lo ricito (per poi dissentire – solo in parte), dallo stesso articolo:
Alla precisa osservazione, infine, della prof. Casini che «La Crusca per voi» non si è adeguato alle Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, stese dalla Commissione nazionale per la realizzazione della parità tra uomo e donna presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri e ben note alla Crusca, si risponde con piú di un argomento. Anzitutto col fatto che ogni articolo di proposta o di risposta di «La Crusca per voi» è firmato da un autore libero e responsabile delle proprie scelte grammaticali e stilistiche. In secondo luogo col citare il proposito generale del foglio, di parlare ai lettori col mezzo linguistico piú comune, in modo da eliminare difficoltà e ambiguità di comunicazione. In terzo luogo con l’aver adottato il criterio metodologico di illustrare l’origine e la ragione delle crisi e dei problemi della lingua mettendo i lettori in grado di orientarsi alle soluzioni, piuttosto che dettar loro le troppo invocate «norme» risolutive; e col conseguente impegno in proprio di evitare il ricorso a norme autoritarie, che cioè provengano dall’esterno della lingua, specie quando esse investano una intera parte del sistema linguistico, provocando forti differenze tra gli utenti e togliendo alla lingua naturale una parte della sua pur difettosa naturalezza. Naturalezza che è bene proteggere contro un mondo procreatore di «codici» artificiali e cultore della violenza piú sottile, quella intellettuale.
Anch’io credo nella naturalezza (ma quella genuina, non quella che dà come naturali ‘docking station’ e simili). E comunque lo stesso concetto di naturalezza, riferito a singoli neologismi, varia da persona a persona.

Io credo invece che, data la natura dispersiva e indisciplinata del popolo italiano, sia necessario non solo che l’Accademia della Crusca detti norme risolutive (anche del tipo «dite... non dite...») ma che ci sia nel suo stesso seno concertazione e accordo; altrimenti ognuno parla per sé e non è piú un organo coeso. Non serve ch’io descriva l’Académie Française e la Real Academia Española.

Poi mi direte, come sempre, che la nostra storia è diversa, eccetera. Tutto vero. Ma ciò non toglie che la gente comune vuole delle certezze; e se non vengono da un’autorità riconosciuta (che non possono essere i dizionari, inerti accozzatori), non sono benaccette, e si continua a navigare nella buissima notte oscillatoria.

Abbuio. Abbuio. Abbuio. (Lascio a chi legge la scelta tra voce verbale o deverbale a suffisso zero.)
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
CarloB
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Iscritto in data: mar, 01 feb 2005 18:23

Intervento di CarloB »

Le Raccomandazioni sono rimaste in buona misura lettera morta.
Per alcuni aspetti giustamente, a mio avviso, perché proponevano soluzioni irragionevoli ed estremiste. Rimando agli esempi fatti da Marco e da me.
Per altri aspetti, invece, sono state disattese a torto: le proposte di femminizzazione dei nomi di professioni, mestieri, cariche eccetera sono quasi sempre condivisibili, sempre secondo il mio parere, ed è un peccato che non abbiano incontrato il consenso neppure di persone, come la mia prima cittadina, che pure si sentono sicuramente in consonanza di idee con l'ispirazione di quel testo.
Ho provato a interrogare alcune conoscenti e amiche che lavorano nel pubblico impiego come dirigenti. Nessuna di loro (quattro: campione esiguo, lo ammetto) ama definirsi la direttrice del tale o talaltro ufficio né firmarsi come tale; preferiscono la formula il direttore. Alla inevitabile domanda: perché? hanno risposto che sentono direttrice come diminutivo. Non capisco ma mi adeguo, come diceva il buon Ferrini. Evidentemente c'è un problema di percezione che per il momento sbaraglia tutte le buone ragioni linguistiche.
Ho notato che il suffisso -essa è particolarmente malvisto, anche da Marco. Segnalo che vigilessa è usato, a quel che sento per la strada e a quel che leggo sui giornali, universalmente da uomini e donne. Forse perché le valorose regolatrici del traffico, impegnate spesso e volentieri a staccar multe, non godono di grande simpatia?
Aboliamo pure studentessa, che apprendo risalire ufficialmente al 1907: immagino però che fosse nell'uso già da qualche tempo. Lo stesso immagino di professoressa, che mi stupisce molto risalga soltanto al 1946. Come sostituirlo? Professora? E allora perché non anche dottora?
Quanto a un'istituzione capace di dare norme (beh, raccomandazioni) in materia di lingua, sarebbe l'ottimo. Il problema mi pare stia nel fatto che purtroppo la Crusca non occupa da noi il posto che le accademie della lingua occupano in Francia e in Spagna e non si sa come questa situazione possa cambiare. Inoltre non sono sicuro che da noi ci sarebbe la stessa reverenza verso i pronunciamenti dell'autorità liguistica (posto che reverenza ci sia altrove: in Francia i settimanali politici, L'Express, Le Nouvel Observateur, Le Point, Marianne, mi sembrano pieni di anglismi).
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Intervento di bubu7 »

Marco1971 ha scritto: Io credo invece che, data la natura dispersiva e indisciplinata del popolo italiano...
Esprimo la mia più profonda riprovazione per questi giudizi che, oltre a non essere di natura propriamente linguistica (come le potrà confermare il nostro Infarinato), offendono ingiustamente un’intera Nazione.

Applaudo invece alle parole di Nencioni: non per niente quest’ultimo ha sempre parlato di «amore intelligente per la lingua» e mai di amore cieco.
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
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Intervento di Infarinato »

bubu7 ha scritto:
Marco1971 ha scritto: Io credo invece che, data la natura dispersiva e indisciplinata del popolo italiano...
Esprimo la mia più profonda riprovazione per questi giudizi che, oltre a non essere di natura propriamente linguistica (come le potrà confermare il nostro Infarinato), offendono ingiustamente un’intera Nazione.
È vero: questo è un [soggettivo] giudizio etico (che condivido :mrgreen:), ma non è qui usato per «proscrivere» l’uso d’una parola… ;)

Comunque, sí: capisco lo sconforto, ma cerchiamo davvero di limitare queste osservazioni extralinguistiche allo stretto indispensabile.
Ultima modifica di Infarinato in data lun, 21 gen 2008 15:14, modificato 1 volta in totale.
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Intervento di bubu7 »

Infarinato ha scritto: ...ma non è qui usato per «proscrivere» l’uso d’una parola… ;)
Ah no, certo... qui è usato per proporre una «prescrizione» che riguarderebbe l'intera lingua. :wink:
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Intervento di Infarinato »

bubu7 ha scritto:Ah no, certo... qui è usato per proporre una «prescrizione» che riguarderebbe l'intera lingua. :wink:
Non è proprio cosí (e Lei lo sa)… Ma qui mi fermo, ché altrimenti contravverrei alla mia stessa «raccomandazione». :D
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Intervento di methao_donor »

Non ho molto da dire, anche perché il mio punto di vista è già stato espresso più sopra dagli articoli di Nencioni e dai commenti di Marco, che condivido praticamente in tutto. Soltanto vorrei commentare questa perplessità di CarloB
Ho provato a interrogare alcune conoscenti e amiche che lavorano nel pubblico impiego come dirigenti. Nessuna di loro (quattro: campione esiguo, lo ammetto) ama definirsi la direttrice del tale o talaltro ufficio né firmarsi come tale; preferiscono la formula il direttore.Alla inevitabile domanda: perché? hanno risposto che sentono direttrice come diminutivo. Non capisco ma mi adeguo, come diceva il buon Ferrini. Evidentemente c'è un problema di percezione che per il momento sbaraglia tutte le buone ragioni linguistiche.
Io non mi stupisco per nulla, invece, sebbene l'esempio in questione non sia dei più significativi, a mio avviso.
Tuttavia, mi pare comprensibilissimo che queste forme femminizzanti possano essere percepite come offensive. Per quanto mi riguarda suscitano l'effetto esattamente contrario a quello a cui mirano, un po' come gli eufemismi sociali, che "minimizzando" malamente la questione, la rendono perciò più rilevante.
Insomma, così come un "diversamente abile" mi sembra gridare un velato: "poverino, siccome è disabile e ci fa pena, facciamo finta che non lo sia, così si sente meno mortificato" (e non c'è nulla di più mortificante della pietà altrui), così un (eventuale) "avvocatessa" mi sembrerebbe dire: "Beh, sì, questa persona è un avvocato. Ma notate bene, comunque sia, che è una donna!"
E non è questo il punto no? Nel dare dell'"avvocato" a un uomo o una donna si vogliono sottolineare le sue qualità professionali, mica il suo sesso. Il farlo, invece, ha un che di sospetto. Methinks. :D
CarloB
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Intervento di CarloB »

Mi scuso, anzitutto, della risposta tardiva.
Comprendo il punto di vista. Anche a me diversamente abile sembra un modo di dire alquanto ipocrita e vitando (sebbene politicamente corretto: epperò non se ne può dir male). Invece non capisco perché le femminizzazioni dei sostantivi di professioni, qualifiche eccetera debbano essere avvertite come sminuenti. Anche dalla compagna della mia vita: ma su questo litighiamo!
methao_donor
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Intervento di methao_donor »

Beh, effettivamente la "modificazione" è opposta.
Mentre nel caso di "diversamente abile" si finge di voler cancellare una connotazione (cioè, far finta che non ci sia), nel caso delle femminilizzazioni si sottolinea la cosa (cioè, la si rende evidente oltre il necessario, e oltre qualsiasi utilità).
Tuttavia, essendo le due connotazioni opposte (nel senso che l'essere invalido è una cosa negativa, l'esser donna no), si genera comunque secondo me un effetto imbarazzante, quell'effetto buonista di chi tace il "brutto", a meno che non risalti come "pregio": ossia, come il soggetto di turno "riesca" nonostante il "difetto".
Insomma, se io dovessi leggere in un articolo: "tizia, avvocato donna bla bla bla" mi parrebbe un volgare modo di sottolineare come la tizia di turno, pur essendo una donna, è avvocato. Al che mi vien da pensare? Ma è così strabiliante che una donna sia avvocato? Perché mai dev'essere segnalato il sesso, mentre non c'è alcun bisogno di dire/scrivere: "tizio, avvocato uomo, ecc."


Per concludere, una questione "oggettiva", e quindi indipendente dal gusto (che può far preferire forme femminilizzate a quelle indifferenziate e viceversa per altri motivi). La forma (linguisticamente) discriminante è senza dubbio quella femminilizzata, proprio perché distingue in base al sesso (e discriminare, insomma, significa proprio quello), a differenza dell'altra che esclude connotazioni di genere.
Il sonno della ragione genera mostri.
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