«La parola piú scomposta della lingua italiana...»
Moderatore: Cruscanti
«La parola piú scomposta della lingua italiana...»
...morfologicamente, qual è, secondo voi? Io ho in mente un animale d’altri tempi...
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Occorre un altro aiutino?
Termina in -t ed è bisillabo.
Se a niun sovviene, quando a mezzo fia la notte tututto disvelerovvi.

Se a niun sovviene, quando a mezzo fia la notte tututto disvelerovvi.

Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
- u merlu rucà
- Moderatore «Dialetti»
- Interventi: 1340
- Iscritto in data: mar, 26 apr 2005 8:41
Sí!
Si tratta di mammút, la cui t finale in sillaba accentata (meno striderebbe in sillaba atona – màmmut, per intenderci) precipita il vocabolo nel girone delle parole immonde. Esistono varianti morfologicamente italiane, come mammòto, mammúto [questa piuttosto infelice, ché viene in mente un essere dalle immani mammelle
] e mammútto. La prima variante si trova presso Gioberti; dell’ultima si ha un esempio in Baldini.
Personalmente avrei proposto mammónte se, come afferma il GRADIT, la forma mammut (attraverso il francese mammouth) è probabilmente dovuta a un errore di lettura* del russo mamot, mamont (-out per -ont). Ma mi accontento di mammòto e mammutto, con una preferenza per la prima forma, forse piú armonica.
Esistono altri termini in -út, che però non appartengono all’uso comune: belzebút (tipo di scimmia, e non vedo perché non si sia semplicemente aggiunta un’accezione a belzebú), e, nella notazione musicale medievale, gammaút, gesolreút (ut fu poi sostituito da do). Come termini storici caduti dall’uso sono intoccabili; non si capisce bene, tuttavia, perché non si sia fatto gammaútte, gesolreútte, visto che c’è solreútte e non trovo traccia di solreút.
La mia rapida ricerca non m’ha consentito di rinvenire altri vocaboli in -ut accentati sulla u (se non alcuni in cui si rinvia alla variante con terminazione vocalica), mentre abbiamo, d’uso comune, vèrmut, in cui l’accentazione sulla prima sillaba rende piú tollerabile la finale consonantica – senza conferirle piena accettabilità: io, per me, memore di Nievo e di Faldella, m’avvalgo dell’antico vermútte.
____________________
*Non sarebbe un caso isolato: anche zènit è «cattiva lettura di zemt, con cui si rendeva l’ar. SAMT». (A. Castellani, Grammatica storica della lingua italiana, Bologna, Il Mulino, 2000, p. 242, n. 244.) Non si può ovviamente ignorare la portata storica di tali errori di lettura, e siccome esiste il bellissimo zènito, teniamocelo; se l’errore non fosse avvenuto, si sarebbe forse giunti alle forme sàmite, sàmito, o, seguendo la pronuncia volgare d’allora, a sèmite, sèmito.


Personalmente avrei proposto mammónte se, come afferma il GRADIT, la forma mammut (attraverso il francese mammouth) è probabilmente dovuta a un errore di lettura* del russo mamot, mamont (-out per -ont). Ma mi accontento di mammòto e mammutto, con una preferenza per la prima forma, forse piú armonica.
Esistono altri termini in -út, che però non appartengono all’uso comune: belzebút (tipo di scimmia, e non vedo perché non si sia semplicemente aggiunta un’accezione a belzebú), e, nella notazione musicale medievale, gammaút, gesolreút (ut fu poi sostituito da do). Come termini storici caduti dall’uso sono intoccabili; non si capisce bene, tuttavia, perché non si sia fatto gammaútte, gesolreútte, visto che c’è solreútte e non trovo traccia di solreút.
La mia rapida ricerca non m’ha consentito di rinvenire altri vocaboli in -ut accentati sulla u (se non alcuni in cui si rinvia alla variante con terminazione vocalica), mentre abbiamo, d’uso comune, vèrmut, in cui l’accentazione sulla prima sillaba rende piú tollerabile la finale consonantica – senza conferirle piena accettabilità: io, per me, memore di Nievo e di Faldella, m’avvalgo dell’antico vermútte.
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*Non sarebbe un caso isolato: anche zènit è «cattiva lettura di zemt, con cui si rendeva l’ar. SAMT». (A. Castellani, Grammatica storica della lingua italiana, Bologna, Il Mulino, 2000, p. 242, n. 244.) Non si può ovviamente ignorare la portata storica di tali errori di lettura, e siccome esiste il bellissimo zènito, teniamocelo; se l’errore non fosse avvenuto, si sarebbe forse giunti alle forme sàmite, sàmito, o, seguendo la pronuncia volgare d’allora, a sèmite, sèmito.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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