«V’en/ve’n/ven» e simili
Moderatore: Cruscanti
«V’en/ve’n/ven» e simili
Trovo queste curiose grafie nel DiPI: v’en e ve’n per ve ne (o forse interpreto male le indicazioni). Non capisco cosa rappresenti quell’apostrofo: queste forme antiche s’hanno a scrivere univerbate:
Quando me ne vo > Quando men vo
Se ne sta > Sen sta
Te lo dico > Tel dico
Ve lo chiedo > Vel chiedo
Ve ne sono > Ven sono, ecc.
Qualcuno riesce a illuminarmi sul valore dell’inutile apostrofo?
Quando me ne vo > Quando men vo
Se ne sta > Sen sta
Te lo dico > Tel dico
Ve lo chiedo > Vel chiedo
Ve ne sono > Ven sono, ecc.
Qualcuno riesce a illuminarmi sul valore dell’inutile apostrofo?
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Intanto ecco alcuni esempi (tutti dalla Divina Commedia, tranne uno dal Canzoniere petrarchesco):
Allora incominciai: «Con quella fascia
che la morte dissolve men vo suso,
e venni qui per l’infernale ambascia. (Purgatorio, 16)
I’ dissi lui: «Quanto posso, ven preco;
e se volete che con voi m’asseggia,
faròl, se piace a costui che vo seco». (Inferno, 15)
I’ non tel potei dir, allor, né volli;
or tel dico per cosa experta et vera:
non sperar di vedermi in terra mai. (Petrarca, Canzoniere, 250)
Così sen va, e quivi m’abbandona
lo dolce padre, e io rimagno in forse,
che sì e no nel capo mi tenciona. (Inferno, 8)
Allora incominciai: «Con quella fascia
che la morte dissolve men vo suso,
e venni qui per l’infernale ambascia. (Purgatorio, 16)
I’ dissi lui: «Quanto posso, ven preco;
e se volete che con voi m’asseggia,
faròl, se piace a costui che vo seco». (Inferno, 15)
I’ non tel potei dir, allor, né volli;
or tel dico per cosa experta et vera:
non sperar di vedermi in terra mai. (Petrarca, Canzoniere, 250)
Così sen va, e quivi m’abbandona
lo dolce padre, e io rimagno in forse,
che sì e no nel capo mi tenciona. (Inferno, 8)
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
C’è scritto cfr ‘confronta’: basta quindi andare alle singole entrate.
Qualche altro chiarimento.
Ve’n /ven/ sarebbe una variante, meno comune, dell’apocope di ve ne (ve ne prego); v’en /vEn/ unisce l’elisione di vi all’apocope di enno (ant. sóno) (vi enno); ven /vEn/ (meno bene /ven/) sta per viene.
Sotto la voce ven andrebbe però segnalato che si tratta anche della forma antica e poetica più comune per l'apocope di ve ne.
Manderò due righe al Canepari.
Qualche altro chiarimento.
Ve’n /ven/ sarebbe una variante, meno comune, dell’apocope di ve ne (ve ne prego); v’en /vEn/ unisce l’elisione di vi all’apocope di enno (ant. sóno) (vi enno); ven /vEn/ (meno bene /ven/) sta per viene.
Sotto la voce ven andrebbe però segnalato che si tratta anche della forma antica e poetica più comune per l'apocope di ve ne.
Manderò due righe al Canepari.
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
V. M. Illič-Svitič
V. M. Illič-Svitič
Grazie, Bubu7, della spiegazione.
Non ho molta dimestichezza col DiPI, ma ci sarei dovuto arrivare da solo... 


Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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