Della scomparsa del prescrittivismo
Moderatore: Cruscanti
Della scomparsa del prescrittivismo
Vorrei sapere se qualcuno conosce l’origine della scomparsa del prescrittivismo in Italia. Perché, accanto al descrittivismo, non si affiancano raccomandazioni? C’è forse qualcosa di deleterio in questo? Chi ha imposto (ché d’imposizione si tratta secondo ogni evidenza, o di lavaggio del cervello) questa linea di pensiero?
Ultima modifica di Marco1971 in data sab, 06 feb 2010 0:00, modificato 1 volta in totale.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Quindi i giornalisti? Ma io ne conosco piú d’uno propenso alla conservazione del bello scrivere... Che cosa è successo, invece, nel mondo della linguistica? Che senso ha tutto questo avallare? Si giustifica tutto, senza dare i mezzi per una corretta scrittura.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Per sapere cosa è successo al mondo della linguistica basta "sfogliare" la Crusca in rete... È diventata permissivista al cento per cento. Non so cosa penserebbe, oggi, il prof. Nencioni vedendo la "sua" Crusca nelle mani dei cosí detti progressisti linguistici... 

«Nostra lingua, un giorno tanto in pregio, è ridotta ormai un bastardume» (Carlo Gozzi)
«Musa, tu che sei grande e potente, dall'alto della tua magniloquenza non ci indurre in marronate ma liberaci dalle parole errate»
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Ci ho riflettevo proprio in questi giorni, indagando sulla struttura di altre lingue.
Si dice spesso che la lingua è una delle piú genuine manifestazioni della cultura di un popolo, e io credo che rifletta moltissimo del modo di pensare e di approcciarsi al mondo.
Le varie lingue presentano una straordinaria varietà di approcci: alcuni popoli danno importanza primaria al verbo, per altri il verbo "non esiste", c'è chi coniuga gli aggettivi, ecc.
Questi sono esempi di come la visione che si ha del mondo possa essere incredibilmente varia.
Queste visioni sono il frutto di ciò che l'atteggiamento del popolo in questione è nei confronti del mondo.
Popoli che danno grande importanza alla narrazione di fatti, ad esempio, svilupperanno un sistema verbale che dettagli con precisione il modo o il tempo di un'azione, mentre popoli piú descrittivi sentiranno di poterne fare a meno.
Un popolo "filosofeggiante" svilupperebbe un sistema di creazione dei concetti molto flessibile – si veda il greco, che tuttora ci fornisce la maggior parte delle particelle che usiamo per la creazione di termini scientifici, o il cinese che adopera un sistema incredibilmente elastico di combinazione di termini ("contraddizione" è, letteralmente, "lancia-scudo", e "porto" si crea come "vomita-ingoia"); la penetrazione di parole straniere in cinese è scarsissima, anche per quanto riguarda i nomi della tecnica moderna, che sono solitamente costruiti a partrire da radici cinesi (cosí telefono è "elettricità-voce", e televisione è "elettricità-vista").
Molti popoli asiatici dimostrano linguisticamente l'attenzione che porgono alle gerarchie o ai gradi esprimendosi diversamente a seconda dell'interlocutore: ed ecco quindi che molte lingue asiatiche – per quanto espressioni, anche esagerate, di cortesia linguistica si possono ritrovare in molte lingue anche molto diverse tra loro: il nostro stesso "ciao", potrebbe derivare da "schiavo (tuo)", o il portoghese che ringrazia con "obrigado" (le sono obbligato) – hanno un sistema estremamente complesso di desinenze onorifiche, e usano verbi o pronomi diversi a seconda del rapporto tra il grado di chi parla e del suo interlocutore: cosí in tailandese, ad esempio, vi sono diversi modi di dire "io" a seconda che ci si rivolga a un passante qualsiasi o a un membro della famiglia reale, caso in cui bisogna dire kha phra bat ("servitore dei vostri venerabili piedi").
Questo lungo preambolo per dire che le ragioni degli atteggiamenti linguistici vanno ricercate nella natura dei popoli che parlano la lingua in oggetto.
Che popolo è quello italiano? Ci si potrebbe quasi chiedere se esista un popolo italiano...
Personalmente ho visto gli italiani uniti solo in una notte, quella della vittoria degli ultimi mondiali. Ma neanche la nazionale basta, anzi quanto ci si divide pure a tal riguardo? Ognuno tira l'acqua al suo mulino, fermo nelle sue convinzioni e nella sua provincialità, e si diffonde il campanilismo piú esasperato.
In un contesto del genere sembra naturale una disattenzione generale per il "bello scrivere", come dice Marco. Implica, di per sé, unificazione e rispetto di un sistema piú generale e vasto, aspetti che obbiettivamente non sono il nostro forte.
L'italiano generalmente non è troppo fiero di esserlo, e comportarsi italianamente (anche sul piano linguistico) è quasi vergognoso. Siamo profondamente esterefoli, e questo si riflette sulla lingua: usare parole italiane è talvolta "ridicolo"; non è forse questa la reazione piú consueta nel proporre termini come "filme" o "guisco"? Eppure un popolo come quello finlandese, che se ne sbatte altamente degli inglesi, dell'inglese o di chi per loro, dice e scrive tranquillamente "filmi", "viski" e "konjakki" (da leggere pressapooco come "cognacchi"), senza sentirsi ridicolo (o rozzo, o pronviciale, solo in questi contesti ci pare lecito italianizzare) proprio per nulla.
L'uso di un italiano "genuino" e "pulito" è, per l'appunto, visto come una cosa arcaica o provinciale o volgare.
Meglio distinguersi come si può. Ed ecco che ogni discordanza sembra apparire gradita, e che ogni assurdità prende subito piede (io forme come "se stesso" non riesco a spiegarmele diversamente), laddove sembra impossibile far accettare regole coerenti, semplici e logiche.
Chissá, magari gli italiani hanno semplicemente un bisogno estremo di sentirsi originali, di esprimere la propria individualità. Non a caso siamo un popolo di chiacchieroni. Non a caso in italia ci sono piú scrittori che lettori.
Io ho avuto un paio di amici cosí: con uno straordinario desiderio di distinguersi dagli altri, nonostante l'indubbia ordinarietà, appena incontravano un soggetto "bizzarro" o "insolito" ne scimmiottavano spudoratamente gli aspetti di originalità; cosí, imitando, si credevano incredibilmente originali ed eccezionali.
Con la lingua, semplicemente, facciamo lo stesso.
Una forma sbagliata non è un "errore", è originale.
Si dice spesso che la lingua è una delle piú genuine manifestazioni della cultura di un popolo, e io credo che rifletta moltissimo del modo di pensare e di approcciarsi al mondo.
Le varie lingue presentano una straordinaria varietà di approcci: alcuni popoli danno importanza primaria al verbo, per altri il verbo "non esiste", c'è chi coniuga gli aggettivi, ecc.
Questi sono esempi di come la visione che si ha del mondo possa essere incredibilmente varia.
Queste visioni sono il frutto di ciò che l'atteggiamento del popolo in questione è nei confronti del mondo.
Popoli che danno grande importanza alla narrazione di fatti, ad esempio, svilupperanno un sistema verbale che dettagli con precisione il modo o il tempo di un'azione, mentre popoli piú descrittivi sentiranno di poterne fare a meno.
Un popolo "filosofeggiante" svilupperebbe un sistema di creazione dei concetti molto flessibile – si veda il greco, che tuttora ci fornisce la maggior parte delle particelle che usiamo per la creazione di termini scientifici, o il cinese che adopera un sistema incredibilmente elastico di combinazione di termini ("contraddizione" è, letteralmente, "lancia-scudo", e "porto" si crea come "vomita-ingoia"); la penetrazione di parole straniere in cinese è scarsissima, anche per quanto riguarda i nomi della tecnica moderna, che sono solitamente costruiti a partrire da radici cinesi (cosí telefono è "elettricità-voce", e televisione è "elettricità-vista").
Molti popoli asiatici dimostrano linguisticamente l'attenzione che porgono alle gerarchie o ai gradi esprimendosi diversamente a seconda dell'interlocutore: ed ecco quindi che molte lingue asiatiche – per quanto espressioni, anche esagerate, di cortesia linguistica si possono ritrovare in molte lingue anche molto diverse tra loro: il nostro stesso "ciao", potrebbe derivare da "schiavo (tuo)", o il portoghese che ringrazia con "obrigado" (le sono obbligato) – hanno un sistema estremamente complesso di desinenze onorifiche, e usano verbi o pronomi diversi a seconda del rapporto tra il grado di chi parla e del suo interlocutore: cosí in tailandese, ad esempio, vi sono diversi modi di dire "io" a seconda che ci si rivolga a un passante qualsiasi o a un membro della famiglia reale, caso in cui bisogna dire kha phra bat ("servitore dei vostri venerabili piedi").
Questo lungo preambolo per dire che le ragioni degli atteggiamenti linguistici vanno ricercate nella natura dei popoli che parlano la lingua in oggetto.
Che popolo è quello italiano? Ci si potrebbe quasi chiedere se esista un popolo italiano...
Personalmente ho visto gli italiani uniti solo in una notte, quella della vittoria degli ultimi mondiali. Ma neanche la nazionale basta, anzi quanto ci si divide pure a tal riguardo? Ognuno tira l'acqua al suo mulino, fermo nelle sue convinzioni e nella sua provincialità, e si diffonde il campanilismo piú esasperato.
In un contesto del genere sembra naturale una disattenzione generale per il "bello scrivere", come dice Marco. Implica, di per sé, unificazione e rispetto di un sistema piú generale e vasto, aspetti che obbiettivamente non sono il nostro forte.
L'italiano generalmente non è troppo fiero di esserlo, e comportarsi italianamente (anche sul piano linguistico) è quasi vergognoso. Siamo profondamente esterefoli, e questo si riflette sulla lingua: usare parole italiane è talvolta "ridicolo"; non è forse questa la reazione piú consueta nel proporre termini come "filme" o "guisco"? Eppure un popolo come quello finlandese, che se ne sbatte altamente degli inglesi, dell'inglese o di chi per loro, dice e scrive tranquillamente "filmi", "viski" e "konjakki" (da leggere pressapooco come "cognacchi"), senza sentirsi ridicolo (o rozzo, o pronviciale, solo in questi contesti ci pare lecito italianizzare) proprio per nulla.
L'uso di un italiano "genuino" e "pulito" è, per l'appunto, visto come una cosa arcaica o provinciale o volgare.
Meglio distinguersi come si può. Ed ecco che ogni discordanza sembra apparire gradita, e che ogni assurdità prende subito piede (io forme come "se stesso" non riesco a spiegarmele diversamente), laddove sembra impossibile far accettare regole coerenti, semplici e logiche.
Chissá, magari gli italiani hanno semplicemente un bisogno estremo di sentirsi originali, di esprimere la propria individualità. Non a caso siamo un popolo di chiacchieroni. Non a caso in italia ci sono piú scrittori che lettori.
Io ho avuto un paio di amici cosí: con uno straordinario desiderio di distinguersi dagli altri, nonostante l'indubbia ordinarietà, appena incontravano un soggetto "bizzarro" o "insolito" ne scimmiottavano spudoratamente gli aspetti di originalità; cosí, imitando, si credevano incredibilmente originali ed eccezionali.
Con la lingua, semplicemente, facciamo lo stesso.
Una forma sbagliata non è un "errore", è originale.
Il sonno della ragione genera mostri.
Grazie di queste interessanti considerazioni, senz’altro condivisibili. Ma il desiderio d’originalità, il volersi distinguere, la sete d’esotismo, ecc., possono ritenersi caratteristiche apparse di recente? Non è cosí da sempre? Anche solo trent’anni fa, i dizionari dicevano «errato X o Y»; oggi non piú. Che cosa è davvero cambiato?
Dall’altra parte proliferano le rubriche linguistiche, con italiani solleciti di correttezza e precisione (che rimangono piú che spesso a bocca asciutta, con risposte o vaghe, o sbrigative, o inesatte). A che pro, se in fondo la mentalità è «fa’ come ti pare, l’uso lo fai te»?
Dall’altra parte proliferano le rubriche linguistiche, con italiani solleciti di correttezza e precisione (che rimangono piú che spesso a bocca asciutta, con risposte o vaghe, o sbrigative, o inesatte). A che pro, se in fondo la mentalità è «fa’ come ti pare, l’uso lo fai te»?
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Il problema, secondo me, è che l'inglese ha un fascino, per così dire, "moderno" e "tecnologico" (oserei dire "robotico"). Gli adattamenti "selvaggi" dell'italiano tradizionale con i nessi consonantici come -x-, -pt-, -ct- assimilati e l'obbligatorietà della vocale finale danno l'idea di una lingua "strana", popolaresca e poco "europea", troppo dissimile da quelle che sono le lingue percepite come più "evolute" come il francese, lo spagnolo e, naturalmente, l'inglese, come se la facilità di pronuncia e la musicalità fossero un qualcosa da vergognarsi. I nessi consonantici, anche in posizione finale danno invece l'idea di qualcosa di più "difficile": la lingua che li evita è la lingua di chi non sa pronunciarli, quindi si tratta di persone meno abili e "inferiori", per così dire. Certo è che preferirei *electrico e *constante a welfare...
Concordo in gran parte con lei, Carnby. Aggiungerei che si tratta di distorta percezione delle cose, dovuta a un insegnamento inadeguato.
Mi piacerebbe però che qualcuno mi desse una risposta alla domanda iniziale: l’abbandono di normatività (a parte il calo della reale competenza di chi è incaricato di redigere le trattazioni) a che cosa è dovuto? E perché è diventato opinione comune che ormai non si fa che descrivere senza presa di posizione?
Mi piacerebbe però che qualcuno mi desse una risposta alla domanda iniziale: l’abbandono di normatività (a parte il calo della reale competenza di chi è incaricato di redigere le trattazioni) a che cosa è dovuto? E perché è diventato opinione comune che ormai non si fa che descrivere senza presa di posizione?
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Caro Marco, in risposta alle tue osservazioni aggiungerei al mio intervento precedente il fatto che l'italiano, in fondo, è solo recentemente diventato lingua davvero "comune".
Può darsi (non saprei dirlo, invero) che la ricerca forzata dell'originalità, dell'esotismo, della lectio difficilior siano tratti tipici del popolo italiano da sempre. Ma solo recentemente si è raggiunta una condizione per cui l'italiano è davvero lingua del popolo, e in cui la cultura (come tutto il resto) è sufficientemente democratizzata (e la democrazia sicuramente non è un concetto fecondo sul piano culturale).
Può darsi (non saprei dirlo, invero) che la ricerca forzata dell'originalità, dell'esotismo, della lectio difficilior siano tratti tipici del popolo italiano da sempre. Ma solo recentemente si è raggiunta una condizione per cui l'italiano è davvero lingua del popolo, e in cui la cultura (come tutto il resto) è sufficientemente democratizzata (e la democrazia sicuramente non è un concetto fecondo sul piano culturale).
Sono d'accordissimo con lei. Queste però mi sembrano piú i datti di fatto che constatiamo, piuttosto che le ragioni di tali atteggiamenti.Il problema, secondo me, è che l'inglese ha un fascino, per così dire, "moderno" e "tecnologico" (oserei dire "robotico"). Gli adattamenti "selvaggi" dell'italiano tradizionale con i nessi consonantici come -x-, -pt-, -ct- assimilati e l'obbligatorietà della vocale finale danno l'idea di una lingua "strana", popolaresca e poco "europea", troppo dissimile da quelle che sono le lingue percepite come più "evolute" come il francese, lo spagnolo e, naturalmente, l'inglese, come se la facilità di pronuncia e la musicalità fossero un qualcosa da vergognarsi. I nessi consonantici, anche in posizione finale danno invece l'idea di qualcosa di più "difficile": la lingua che li evita è la lingua di chi non sa pronunciarli, quindi si tratta di persone meno abili e "inferiori", per così dire.
Il sonno della ragione genera mostri.
Tutto questo può valere, credo, per la gente comune, per il popolo come massa. Ma quale incidente, o scoperta, ha sviato radicalmente chi di lingua si occupa professionalmente?
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Secondo me la ragione è appunto una sorta di "complesso d'inferiorità" verso le lingue che hanno nessi consonantici più complicati e consonanti finali nelle parole native. L'italiano medio (e forse anche qualche studioso) vuol rimediare a questo inserendo (selvaggiamente) parole inglesi nella lingua italiana senza alcun adattamento. È una sorta di "competizione" nella quale l'italiano ne esce, per così dire, penalizzato: tutte le lingue hanno queste caratteristiche, perché l'italiano no?
Sí, tutto vero. Ma in questo filone non si tratta delle parole straniere, si tratta del mutato atteggiamento dei linguisti nei confronti della lingua.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Immagino che i linguisti abbiano cominciato a seguire l'uso comune. Oppure, accantonato almeno in parte lo studio delle lingue classiche (nelle quali peraltro tali nessi erano presenti in gran quantità), abbiano iniziato a confrontare anch'essi l'italiano alle lingue straniere più diffuse. Non bisogna dimenticare che le persone colte un tempo (forse con più moderazione) usavano costellare i discorsi di francesismi spesso non adattati: oggi al francese s'è sostituito l'inglese.
Mi accorgo che mi devo ripetere per l’ennesima volta. Al tempo dei veri linguisti, uomini di grande cultura, gusto e sensibilità, l’atteggiamento era questo (Migliorini cita Jespersen e Castellani cita Migliorini):
Sono fermamente convinto che i dotti non debbano contentarsi di stare passivamente a guardare, ma che debbano prendere parte attiva, ciascuno nel proprio paese, a quelle azioni che stanno modificando le condizioni linguistiche, se è possibile migliorandole. Troppa parte è lasciata in queste azioni a dilettanti ignari: è un fatto ben noto che non c’è campo delle conoscenze umane in cui il primo venuto creda d’aver maggior titolo ad esprimere senza studio scientifico una propria opinione che nelle questioni concernenti la lingua materna: quando si discute sulla grafia o sulla pronunzia o sulla flessione o sull’uso di un termine, egli ha bell’e pronta una risposta, che per lo più non è che un ricordo sbagliato di quello che ha imparato a scuola da maestri indotti. Quelli che si sono seriamente occupati delle lingue e del loro sviluppo non debbono tenersi estranei a tali discussioni, ma debbono usare le loro conoscenze a beneficio della propria lingua: altrimenti c’è rischio che essa sia danneggiata dall’influenza conscia di altri che non hanno conoscenze sufficienti per far da guida in questo campo.
“Sottoscrivo a due mani alle parole dello Jespersen”, dice Bruno Migliorini nell’“Arch. glott. it.” del 1935 (p. 33, n. 3). Anch’io: i linguisti italiani, o quei linguisti italiani che amino l’italiano – e ce ne sono –, dovrebbero, quando si tratta di modificare a livello conscio la situazione esistente, sia pure in minimi particolari o nella scelta d’un solo vocabolo, presentarsi e agire come addetti ai lavori, e non lasciare che fisici, ingegneri, biologi, economisti, burocrati e agenti pubblicitari decidano di cose a loro ignote, facendo poi ratificare la decisione ai giornalisti. La glottotecnica miglioriniana, tenuta a battesimo nel 1942, è conseguenza e traduzione in un programma concreto del monito dello Jespersen; monito che mi sembra, oggi, più attuale che mai: ricordiamoci che siamo responsabili.
Oggi invece è sparito ogni senso critico e si è convinti che sia meglio non intervenire nell’evoluzione della lingua, e soprattutto non rivelare a nessuno quale, tra due forme o pronunce, sia quella preferibile. La domanda precisa che pongo è questa: per quali motivi si è giunti all’attuale ignavia da parte dei linguisti?
Sono fermamente convinto che i dotti non debbano contentarsi di stare passivamente a guardare, ma che debbano prendere parte attiva, ciascuno nel proprio paese, a quelle azioni che stanno modificando le condizioni linguistiche, se è possibile migliorandole. Troppa parte è lasciata in queste azioni a dilettanti ignari: è un fatto ben noto che non c’è campo delle conoscenze umane in cui il primo venuto creda d’aver maggior titolo ad esprimere senza studio scientifico una propria opinione che nelle questioni concernenti la lingua materna: quando si discute sulla grafia o sulla pronunzia o sulla flessione o sull’uso di un termine, egli ha bell’e pronta una risposta, che per lo più non è che un ricordo sbagliato di quello che ha imparato a scuola da maestri indotti. Quelli che si sono seriamente occupati delle lingue e del loro sviluppo non debbono tenersi estranei a tali discussioni, ma debbono usare le loro conoscenze a beneficio della propria lingua: altrimenti c’è rischio che essa sia danneggiata dall’influenza conscia di altri che non hanno conoscenze sufficienti per far da guida in questo campo.
“Sottoscrivo a due mani alle parole dello Jespersen”, dice Bruno Migliorini nell’“Arch. glott. it.” del 1935 (p. 33, n. 3). Anch’io: i linguisti italiani, o quei linguisti italiani che amino l’italiano – e ce ne sono –, dovrebbero, quando si tratta di modificare a livello conscio la situazione esistente, sia pure in minimi particolari o nella scelta d’un solo vocabolo, presentarsi e agire come addetti ai lavori, e non lasciare che fisici, ingegneri, biologi, economisti, burocrati e agenti pubblicitari decidano di cose a loro ignote, facendo poi ratificare la decisione ai giornalisti. La glottotecnica miglioriniana, tenuta a battesimo nel 1942, è conseguenza e traduzione in un programma concreto del monito dello Jespersen; monito che mi sembra, oggi, più attuale che mai: ricordiamoci che siamo responsabili.
Oggi invece è sparito ogni senso critico e si è convinti che sia meglio non intervenire nell’evoluzione della lingua, e soprattutto non rivelare a nessuno quale, tra due forme o pronunce, sia quella preferibile. La domanda precisa che pongo è questa: per quali motivi si è giunti all’attuale ignavia da parte dei linguisti?
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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