La lingua italiana a 150 anni dall'Unità d'Italia

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Ferdinand Bardamu
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La lingua italiana a 150 anni dall'Unità d'Italia

Intervento di Ferdinand Bardamu »

Ricopio qui sotto l'articolo apparso nell'ultimo numero (21 maggio 2010) del Venerdì, supplemento del quotidiano La Repubblica. Ho ricopiato l'articolo fedelmente (ho soltanto scritto per esteso un paio di numeri e il simbolo di percentuale), compresi la punteggiatura lacunosa, l'anglicismo – quasi beffardo in un articolo con un argomento simile – e lo sfondone sul detto latino.

UNITÀ? L'Italia è sfatta. Ora (ri)facciamo l'italiano

In otto anni l'uso aziendale di termini stranieri è aumentato del 773 per cento. E si è riversato anche nei dialoghi comuni. «Accade solo da noi, non in Francia né in Spagna», accusa una voce di sinistra come Luciana Castellina. Nel mezzo dei tiepidi preparativi per il centocinquantesimo, linguisti e intellettuali pongono la questione della lingua

di Paolo Hutter

TORINO. Si svolgerà nel 2011, proprio nel mezzo delle iniziative per i 150 anni dell'Unità d'Italia, il prossimo congresso della lingua italiana, che esattamente si chiama «Assise della lingua italiana», ed è organizzato dalla Dante Alighieri, la scuola nazionale di italiano all'estero.

Il programma non è ancora definito, ma terrà conto dei problemi di attualità. Che non sono la fotocopia di quelli politici, della tensione tra nazionalismo e federalismo o separatismo. Sono quelli dell’autonomia, se non della sopravvivenza, dell’italiano, minacciato dall’inglese piú di quel che accada ad altre lingue. «L’Italia non si è minimamente occupata di difendere l’italiano. Non solo Francia e Spagna, ma persino il Portogallo hanno scoperto e investito sull’importanza della logo lingua» dice Luciana Castellina, ex eurodeputata, una protagonista della cultura italiana che contrasta la «colonizzazione» aggiungendo un nuovo valore alle «riscoperte» della sinistra, dopo la nazione, l’unità, la bandiera (tutte messe in forse dalla propaganda leghista). «Non sono i dialetti a rischiare l’estinzione» le fa eco il professor Massimo Arcangeli, preside di Lingue a Cagliari e curatore dell’osservatorio linguistico di Zanichelli. «Qualche anno fa qualcuno pensava che sarebbero scomparsi. Invece sono ancora vivi, se pur cambiati, contaminati. Sono nati dei neo-dialetti, ma esistono. Sono parlati anche da molti giovani, soddisfano un bisogno di espressività, si difendono da sé. È l’italiano a essere minacciato, impoverito. Nell’introduzione dell’ultimo dizionario Zanichelli abbiamo pubblicato 2.800 parole italiane da salvare, parole come fragranza, garrulo, solerte, sapido, fulgore. Da una parte i semplicismi, la tendenza alla banalizzazione da mass media (sic!), dall’altro (sic!) l’invasione dei termini inglesi, o pseudo-inglesi, anche quando non ce n’è nessun bisogno. Occorre istituire un presidio della lingua italiana, o di termini italiani, come esistono i presídi di cibi e di prodotti alimentari tipici. Dobbiamo tutelare la nostra biodiversità linguistica».

L’avanzata dell’anglitaliano, o dell’itanglese, è stata documentata di recente anche da una ricerca di Agostini Associati. Secondo questo studio il numero di termini inglesi che è entrato nell’uso corrente aziendale e commerciale nella nostra lingua è aumentato del 773 per cento in otto anni. La rilevazione è stata condotta su una base di documenti aziendali tradotti nell’anno 2000 paragonati con una base equivalente di documenti tradotti nel 2008, su piú di 50 milioni di parole. In alcuni testi si arriva a usare un termine anglosassone ogni tre. Si può pensare che questo sia un aspetto inevitabile della globalizzazione e della modernizzazione, che sia l’inglese il nuovo latino del mondo, imbattibile per la sua praticità, elasticità, brevità: ma non è cosí. Alle altre lingue neo-latine, anche nel loro uso concreto e attuale, non accade la stessa cosa. L’invasione è molto minore. Addirittura in Francia si dice ordinateur per computer, in spagnolo ordenador o computador.

Prendiamo look, business, fashion, le tre parole inglesi piú utilizzate nell’italiano commerciale secondo la ricerca Agostini. Quasi non le troviamo nell’uso corrente attuale di spagnolo francese portoghese. «Francia e Spagna sono nazioni di antica fondazione e hanno anche un orgoglio nazionale molto piú forte. Anche gli spagnoli, nonostante le questioni catalana e basca. Per loro esiste un concetto di lealtà linguistica ed esistono istituzioni come l’Accademia Spagnola e il Ministero per la Francofonia che si occupano di difendere e promuovere questo concetto» dice il professor Luca Serianni, curatore del Devoto Oli. Si dice particolarmente preoccupato dell’ipotesi che si sta facendo strada nel sistema universitario, di incentivare corsi che si svolgano interamente in inglese, come ha fatto il rettore del Politecnico di Torino, Profumo. E sulla necessità di usare termini inglesi per oggetti o concetti nuovi, commenta: «Una lingua o è un tutto o non è. Si deve essere in condizione di dire tutto in italiano».

Luciana Castellina si è occupata del problema nel suo libro Eurollywood, il difficile ingresso della cultura nella costruzione dell’Europa: «C’è un problema generale perché le singole culture – e lingue – europee hanno comunicato piú con gli Stati Uniti che tra di loro. Ma indubbiamente noi siamo messi peggio. Negli anni Novanta ci sono stati appelli e manifesti per la difesa della lingua italiana che non hanno avuto sbocco. E in Europa l’Italia si è mostrata la meno interessata a impegnarsi per le identità e le diversità culturali contro la colonizzazione hollywoodiana».

Massimo Arcangeli non è un purista, anzi ha scritto che «tra anglomania e anglofobia in medium (sic!) stat virus». Ma ci aiuta a definire quello che sta succedendo: «C’è uno snobismo esterofilo superficiale e una mancanza di senso civico che coinvolge gli strumenti di informazione. Diciamo i media, parola latina». È possibile reagire, riparlare l’italiano? Spetta al sistema scolastico e universitario e agli strumenti di informazione, dicono i due linguisti. Ma è forse indispensabile anche uno strumento istituzionale. Due senatori del Pdl, Frassinetti e Pastore stanno proponendo di creare un Consiglio Nazionale della Lingua.

Proposta «accolta freddamente dal centrosinistra» commenta Serianni «che teme sempre lo spettro del nazionalismo». «È vero che l’identitarismo nazionale ha avuto deviazioni reazionarie nel secolo scorso» dice Castellina «ma un certo pseudo cosmopolitismo di una certa sinistra è profondamente provinciale e subalterno». Che fare? «Bisogna impattare, contrapporsi, litigare». Come ha fatto pochi giorni fa lei stessa, al Consiglio Nazionale dell’Arci, quando ha minacciato di abbandonare la riunione se qualcuno avesse ancora parlato, nel suo intervento, di quale dev’essere la mission dell’associazione.
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Grazie, Ferdinand. :)
Una lingua o è un tutto o non è. Si deve essere in condizione di dire tutto in italiano.
Finalmente i linguisti si svegliano, dopo avere sostenuto per anni e anni che «l’italiano gode di buona salute». Ma si svegliano troppo tardi. Il processo di anglomorfizzazione in atto nella nostra lingua ha raggiunto il punto di non ritorno. O si crea un ente regolatore, che fornisca le raccomandazioni ufficiali per i mèdia e chiunque desideri esprimersi in buona lingua, o l’idioma gentil perisce dalla Terra. Se vogliamo essere realisti, opteremo per il secondo caso, visto che i fondi non si troveranno.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Ferdinand Bardamu
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Intervento di Ferdinand Bardamu »

Sono in tutto d'accordo con lei, caro Marco.

Purtroppo, l'ambiente commerciale è dominato dalla malerba degli anglicismi. Mi sembra quasi che l'italiano vi sia considerato come una zavorra, uno strumento macchinoso e inutile di cui però non si può fare a meno, se non altro per ragioni di spicciola comprensione reciproca.

Inutile sottolineare il profondo provincialismo che tale concezione denota. Accettare acriticamente un termine straniero solo perché piú alla moda e solo per seguire la corrente è sintomo di una cultura assai scarsa.
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Eh sí, siamo entrati nell’era del servilismo e di quel che chiamerei chimmicapiscismo. Non so se ci siano rimedi realistici e efficaci. :(
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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