La meravigliosa debolezza del verbo essere
Moderatore: Cruscanti
La meravigliosa debolezza del verbo essere
È il titolo d’una recensione di Maurizio Ferraris apparsa ieri (5 giugno) nel quotidiano La Repubblica, pp. 36–37. L’articolo m’ha lasciato davvero perplesso, sia per la fastidiosa commistione d’asserzioni su ontologia e grammatica dei vari filosofi citati, sia anche per la pressappocaggine con cui sarebbe stata condotta la presunta «scoperta originale» dell’autore del libro recensito. Stendo poi un velo pietoso su certi infelici giochi di parole —salvo aver riso, a articolo ultimato, per l’autologica assenza della nozione d’ellissi. A voi (fedelmente):
La meravigliosa debolezza del verbo essere
Per Heidegger su questa parola si basano tutte le lingue
Aristotele, Kant e Chomsky però la ridimensionano
Maurizio Ferraris
L’ontologia è la disciplina filosofica che si occupa dell’essere, ed è stata battezzata molto tardi (per i tempi quasi biblici della filosofia), all’inizio del Seicento, partendo da ontos, il genitivo del participio presente di einai, “essere” in greco. la sua domanda fondamentale, d’accordo con il filosofo americano Willard Van Orman Quinte (1908–2000) è «Che cosa c’è?». In un certo senso Andrea Moro, professore di Linguistica generale presso il San Raffaele di Milano si mette a indagare il seguito della frase, non in Quine, ma in Ornella Vanoni e Gino Paoli: «C’è che mi sono innamorato di te», e si chiede che cosa esattamente significhi questo “C’è”. La sua scienza non riguarda gli enti, ma il verbo essere, e Moro propone ironicamente di chiamarla “einaiologia”, da einai. Diciamo subito che, al di là della linguistica, l’einaiologia è utilissima per l’ontologia, e aiuta a liberarla da tante fisime, in particolare quella secondo cui il verbo essere sarebbe un verbo fortissimo, che, come una specie di Atlante, regge il mondo sulle proprie spalle.
La formula canonica del giudizio, S è p, un certo soggetto è un certo predicato, “il tavolo è nero”, “Socrate è musico”, porta in sé qualcosa del “fiat lux”, della creazione del mondo. Heidegger scriveva con una certa ebbrezza che se nella lingua mancasse la parola “essere” non è che avremmo una parola in meno, non avremmo nessuna lingua. All’iperbole soggiaceva anche il solitamente sobrio Quine, perché alla domanda “Che cosa c’è?” rispondeva “C’è tutto”, lasciando intendere che il verbo essere conferiva una esistenza, sia pure umbratile, a tutto quanto, compresi i ferri lignei e i rotondiquadrati. In questo titanismo si cela un retrogusto di prova ontologica, quasi che la copula è facesse esistere le cose, o quantomeno che nella terza persona dell’indicativo presente del verbo essere si nascondesse il segreto dell’esistenza.
Ed è qui che, a svegliare l’ontologia dal suo sonno dogmatico, interviene l’einaiologia. Prendiamo la frase “Vietato attraversare i binari”. Se io metto “È vietato attraversare i binari” cambia qualcosa? No, il concetto resta tale e quale. Kant, nel dire che “essere” non è un predicato reale, bensì una posizione assoluta, ha messo tutti sull’avviso. Pretendere che l’essere aggiunga qualcosa a un concetto è un po’ come andare al bar e ordinare una birra piccola, chiara e reale: quell’ultima specificazione apparirebbe bizzarra e lascerebbe di stucco il barista. Che cosa cambia allora? È il tempo. Potrei mettere «era vietato attraversare i binari» (e ora non lo è più) o «sarà vietato attraversare i binari» (e non lo è ancora). Essere e tempo? Sì, proprio così, in Aristotele molto prima e molto meglio che in Heidegger: la copula “è” in S è p, non serve per far esistere le cose (al punto che se dicessi “Beato lui!” dovrei necessariamente supporre che il giudizio implichi “Lui è beato”), ma serve essenzialmente per marcare il tempo, nella fattispecie il presente.
Questo è il primo degli indebolimenti dell’essere a cui si impegna Moro, che però non si limita al recupero di Aristotele e Kant, ma ne propone un secondo sulla scia della linguistica di Noam Chomsky: il vebro essere è flessibilissimo, cioè, appunto, più debole di altri verbi. In italiano, osserva Moro con una scoperta originale, in una sequenza sintagma nominale / verbo / sintagma nominale (in parole più imprecise nome / verbo / nome), il verbo si accorda sempre con il sintagma nominale di sinistra: si dice “Caino uccise Abele e Pinocchio”, e non “Caino uccisero Abele e Pinocchio”. Quando però il verbo è l’essere, le cose vanno diversamente. Posso dire sia “Due foto del muro furono la causa della rivolta”, sia “La causa della rivolta furono due foto del muro”, dove il verbo si accorda con “due foto sul muro”, il sintagma nominale di destra. Abbiamo dunque sia la frase copulare canonica, sia la frase copulare inversa, e questo appunto perché il verbo essere è molto più arrendevole degli altri.
Questa breve storia del verbo essere non è una storia, ma una teoria, però siamo contenti lo stesso. L’asimmetria tra il ruolo centrale degli enti (naturali, ideali, sociali) nella nostra vita e l’evanescenza del verbo essere ci fa toccare con mano, ancora una volta, la differenza tra ontologia, quello che c’è, e l’epistemologia, quello che pensiamo e diciamo a proposito di quello che c’è. Hanno sbagliato i filosofi a pretendere che ’essere costituisse il linguaggio o che il linguaggio costituisse il linguaggio o che il linguaggio costituisse l’essere. Niente di grave. Proprio perché quello che c’è ha in una grande quantità di casi una bellissima autonomia rispetto a tutti i linguaggi e a tutte le teorie, ci può essere ontologia, che si chiede “Che cosa c’è?”, e indaga gli enti (cioè in parole povere gli oggetti) in quanto possono anche rivelarsi indipendenti dalle nostre cogitazioni e formulazioni linguistiche. E ci può essere einaiologia (da intendersi come una branca dell’epistemologia), che studia frasi tutt’altro che trasparenti – anche dal punto di vista linguistico – come «C’è che mi sono innamorato di te».
Bah!… Il libro consta di 330 pagine; m’auguro migliori di questa recensione.
La meravigliosa debolezza del verbo essere
Per Heidegger su questa parola si basano tutte le lingue
Aristotele, Kant e Chomsky però la ridimensionano
Maurizio Ferraris
L’ontologia è la disciplina filosofica che si occupa dell’essere, ed è stata battezzata molto tardi (per i tempi quasi biblici della filosofia), all’inizio del Seicento, partendo da ontos, il genitivo del participio presente di einai, “essere” in greco. la sua domanda fondamentale, d’accordo con il filosofo americano Willard Van Orman Quinte (1908–2000) è «Che cosa c’è?». In un certo senso Andrea Moro, professore di Linguistica generale presso il San Raffaele di Milano si mette a indagare il seguito della frase, non in Quine, ma in Ornella Vanoni e Gino Paoli: «C’è che mi sono innamorato di te», e si chiede che cosa esattamente significhi questo “C’è”. La sua scienza non riguarda gli enti, ma il verbo essere, e Moro propone ironicamente di chiamarla “einaiologia”, da einai. Diciamo subito che, al di là della linguistica, l’einaiologia è utilissima per l’ontologia, e aiuta a liberarla da tante fisime, in particolare quella secondo cui il verbo essere sarebbe un verbo fortissimo, che, come una specie di Atlante, regge il mondo sulle proprie spalle.
La formula canonica del giudizio, S è p, un certo soggetto è un certo predicato, “il tavolo è nero”, “Socrate è musico”, porta in sé qualcosa del “fiat lux”, della creazione del mondo. Heidegger scriveva con una certa ebbrezza che se nella lingua mancasse la parola “essere” non è che avremmo una parola in meno, non avremmo nessuna lingua. All’iperbole soggiaceva anche il solitamente sobrio Quine, perché alla domanda “Che cosa c’è?” rispondeva “C’è tutto”, lasciando intendere che il verbo essere conferiva una esistenza, sia pure umbratile, a tutto quanto, compresi i ferri lignei e i rotondiquadrati. In questo titanismo si cela un retrogusto di prova ontologica, quasi che la copula è facesse esistere le cose, o quantomeno che nella terza persona dell’indicativo presente del verbo essere si nascondesse il segreto dell’esistenza.
Ed è qui che, a svegliare l’ontologia dal suo sonno dogmatico, interviene l’einaiologia. Prendiamo la frase “Vietato attraversare i binari”. Se io metto “È vietato attraversare i binari” cambia qualcosa? No, il concetto resta tale e quale. Kant, nel dire che “essere” non è un predicato reale, bensì una posizione assoluta, ha messo tutti sull’avviso. Pretendere che l’essere aggiunga qualcosa a un concetto è un po’ come andare al bar e ordinare una birra piccola, chiara e reale: quell’ultima specificazione apparirebbe bizzarra e lascerebbe di stucco il barista. Che cosa cambia allora? È il tempo. Potrei mettere «era vietato attraversare i binari» (e ora non lo è più) o «sarà vietato attraversare i binari» (e non lo è ancora). Essere e tempo? Sì, proprio così, in Aristotele molto prima e molto meglio che in Heidegger: la copula “è” in S è p, non serve per far esistere le cose (al punto che se dicessi “Beato lui!” dovrei necessariamente supporre che il giudizio implichi “Lui è beato”), ma serve essenzialmente per marcare il tempo, nella fattispecie il presente.
Questo è il primo degli indebolimenti dell’essere a cui si impegna Moro, che però non si limita al recupero di Aristotele e Kant, ma ne propone un secondo sulla scia della linguistica di Noam Chomsky: il vebro essere è flessibilissimo, cioè, appunto, più debole di altri verbi. In italiano, osserva Moro con una scoperta originale, in una sequenza sintagma nominale / verbo / sintagma nominale (in parole più imprecise nome / verbo / nome), il verbo si accorda sempre con il sintagma nominale di sinistra: si dice “Caino uccise Abele e Pinocchio”, e non “Caino uccisero Abele e Pinocchio”. Quando però il verbo è l’essere, le cose vanno diversamente. Posso dire sia “Due foto del muro furono la causa della rivolta”, sia “La causa della rivolta furono due foto del muro”, dove il verbo si accorda con “due foto sul muro”, il sintagma nominale di destra. Abbiamo dunque sia la frase copulare canonica, sia la frase copulare inversa, e questo appunto perché il verbo essere è molto più arrendevole degli altri.
Questa breve storia del verbo essere non è una storia, ma una teoria, però siamo contenti lo stesso. L’asimmetria tra il ruolo centrale degli enti (naturali, ideali, sociali) nella nostra vita e l’evanescenza del verbo essere ci fa toccare con mano, ancora una volta, la differenza tra ontologia, quello che c’è, e l’epistemologia, quello che pensiamo e diciamo a proposito di quello che c’è. Hanno sbagliato i filosofi a pretendere che ’essere costituisse il linguaggio o che il linguaggio costituisse il linguaggio o che il linguaggio costituisse l’essere. Niente di grave. Proprio perché quello che c’è ha in una grande quantità di casi una bellissima autonomia rispetto a tutti i linguaggi e a tutte le teorie, ci può essere ontologia, che si chiede “Che cosa c’è?”, e indaga gli enti (cioè in parole povere gli oggetti) in quanto possono anche rivelarsi indipendenti dalle nostre cogitazioni e formulazioni linguistiche. E ci può essere einaiologia (da intendersi come una branca dell’epistemologia), che studia frasi tutt’altro che trasparenti – anche dal punto di vista linguistico – come «C’è che mi sono innamorato di te».
Bah!… Il libro consta di 330 pagine; m’auguro migliori di questa recensione.
V’ha grand’uopo, a dirlavi con ischiettezza, di restaurar l’Erario nostro, già per somma inopia o sia di voci scelte dal buon Secolo, o sia d’altre voci di novello trovato.
Non sono d'accordo sulle sue perplessità, che peraltro non vengono meglio precisate o argomentate. La recensione di Ferraris è chiara e concisa, come dev'essere una recensione per un quotidiano e non per una rivista scientifica. Quanto alla commistione di ontologia e grammatica, si tratta di un problema che risale almeno a Platone ed Aristotele ed è reperibile in tutta la storia della filosofia, con punti di forza nella scolastica medievale (Abelardo, Ockham), in Leibniz, nella scuola di Brentano e nella filosofia analitica (Meinong, Frege, Russell, Carnap, Wittgenstein, Quine, Dummett, ecc.). Suggerisco qualche utile lettura, in particolare due ottime raccolte collettanee di articoli:
La struttura logica del linguaggio, a cura di Andrea Bonomi, Milano, Bompiani, 1973.
Metafisica: classici contemporanei, a cura di Achille C. Varzi, Roma-Bari, Laterza, 2008.
Sul problema specifico forse una delle migliori presentazioni, anche da un punto di vista storico, è la seguente:
Jean-Louis Gardies: Esquisse d'une grammaire pure, Paris, Vrin, 1975 (disponibile anche in inglese con il titolo Rational grammar, translation by Kevin Mulligan, München-Wien, Philosophia Verlag, 1985).
Da non trascurare è anche la Storia dell'ontologia, a cura del medesimo Maurizio Ferraris (Milano, Bompiani, 2008), che in realtà si presenta piuttosto come una raccolta di articoli tematici.
Ho la vaga impressione che lei, come molti dei puristi di Ottocento e Novecento, nutra una diffidenza "allotria" per la terminologia filosofica, che talora potrà essere inutilmente complicata e ingiustificata, ma il più delle volte è indispensabile per affrontare problemi reali.
Già che ci sono, e a proposito di ontologia, penso di aver capito per quale motivo i suddetti puristi in molti repertori e dizionari (dal Palazzi al Gabrielli) censuravano un vocabolo apparentemente innocuo e ben foggiato come "inesistente" preferendo "insussistente". Vediamo chi riesce a indovinare...
La struttura logica del linguaggio, a cura di Andrea Bonomi, Milano, Bompiani, 1973.
Metafisica: classici contemporanei, a cura di Achille C. Varzi, Roma-Bari, Laterza, 2008.
Sul problema specifico forse una delle migliori presentazioni, anche da un punto di vista storico, è la seguente:
Jean-Louis Gardies: Esquisse d'une grammaire pure, Paris, Vrin, 1975 (disponibile anche in inglese con il titolo Rational grammar, translation by Kevin Mulligan, München-Wien, Philosophia Verlag, 1985).
Da non trascurare è anche la Storia dell'ontologia, a cura del medesimo Maurizio Ferraris (Milano, Bompiani, 2008), che in realtà si presenta piuttosto come una raccolta di articoli tematici.
Ho la vaga impressione che lei, come molti dei puristi di Ottocento e Novecento, nutra una diffidenza "allotria" per la terminologia filosofica, che talora potrà essere inutilmente complicata e ingiustificata, ma il più delle volte è indispensabile per affrontare problemi reali.
Già che ci sono, e a proposito di ontologia, penso di aver capito per quale motivo i suddetti puristi in molti repertori e dizionari (dal Palazzi al Gabrielli) censuravano un vocabolo apparentemente innocuo e ben foggiato come "inesistente" preferendo "insussistente". Vediamo chi riesce a indovinare...
Teo Orlando
Io credo di saperlo, ma non voglio rovinare agli altri il gusto di cercare.Teo ha scritto:Già che ci sono, e a proposito di ontologia, penso di aver capito per quale motivo i suddetti puristi in molti repertori e dizionari (dal Palazzi al Gabrielli) censuravano un vocabolo apparentemente innocuo e ben foggiato come "inesistente" preferendo "insussistente". Vediamo chi riesce a indovinare...
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
-
Fausto Raso
- Interventi: 1725
- Iscritto in data: mar, 19 set 2006 15:25
Ci provo, sperando di non fare una figura "caprina".
Inesistente e insussistente sembrano sinonimi (e lo sono nell'uso comune), ma a ben vedere hanno significati diversi.
Inesistente: che non è in atto; che non è nella realtà (ma può esserlo nell'immaginario);
Insussistente: che non esiste proprio
Inesistente e insussistente sembrano sinonimi (e lo sono nell'uso comune), ma a ben vedere hanno significati diversi.
Inesistente: che non è in atto; che non è nella realtà (ma può esserlo nell'immaginario);
Insussistente: che non esiste proprio
«Nostra lingua, un giorno tanto in pregio, è ridotta ormai un bastardume» (Carlo Gozzi)
«Musa, tu che sei grande e potente, dall'alto della tua magniloquenza non ci indurre in marronate ma liberaci dalle parole errate»
«Musa, tu che sei grande e potente, dall'alto della tua magniloquenza non ci indurre in marronate ma liberaci dalle parole errate»
Teo parla del motivo per cui inesistente era un tempo criticato, non delle eventuali sfumature di significato. 
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
La distinzione che lei propone in effetti è interessante e potrebbe essere sfruttata a livello filosofico per tradurre autori come Alexius Meinong (che distinguevano il sussistere - in tedesco bestehen - di uno stato di cose dall'esistere - in tedesco existieren - di un oggetto materiale). Tuttavia, i puristi a cui accennavo non si preoccupavano tanto di distinguere le sfumature di significato dei due aggettivi, ma arrivavano addirittura a biasimare lo stesso aggettivo inesistente!Fausto Raso ha scritto:Ci provo, sperando di non fare una figura "caprina".
Inesistente e insussistente sembrano sinonimi (e lo sono nell'uso comune), ma a ben vedere hanno significati diversi.
Inesistente: che non è in atto; che non è nella realtà (ma può esserlo nell'immaginario);
Insussistente: che non esiste proprio
Ad esempio il Palazzi, Novissimo Dizionario della lingua italiana, Milano, Ceschina, 1957:
inesistente: V. N. agg. che non esiste; voce ripresa dai puristi. E propone tra i sinonimi insussistente, fantastico, ecc.
E il Gabrielli (Dizionario dello stile corretto, Milano, Mondadori, 1976):
inesistente: deriva propr. dal linguaggio filosofico (come ppr. di inesistere), poi passato al gergo dei legali, e di qui nell'uso comune; ma è meglio la forma corretta insussistente.
Secondo me questo accanimento verso tale aggettivo ha una ragione "filosofica" da cercarsi nel verbo da cui deriva, e di cui gli stessi puristi (o meglio, i loro epigoni dell'Ottocento e del Novecento, che forse avevano tutti una fonte comune - a me stesso ignota, anche se mi piacerebbe individuarla - che censurò il vocabolo consapevolmente, ma di cui poi si perse la memoria), a mio modesto avviso, erano scarsamente consapevoli.
Vediamo se dopo quest'indizio qualcuno indovina...
Teo Orlando
Re: La meravigliosa debolezza del verbo essere
Torno quasi per caso su questo filone e mi rendo conto che a distanza di ben quindici anni nessuno ha fornito una risposta al mio interrogativo. A questo punto, cercherò di abbozzare una risposta il più possibile semplice e chiara.
Il problema fondamentale risiede nella struttura del verbo inesistere e nei due diversi prefissi in-.
Infatti, abbiamo in realtà due prefissi in- diversi, anche se grafematicamente coincidenti:
In italiano (come già in latino) in- può essere:
locativo/intensivo: “essere in qualcosa” (cfr. il latino inesse = “essere in”); e nell'italiano filosofico che riproduceva il latino scolastico il verbo inesistere = significava “avere esistenza in un ente, in una realtà”.
Privativo/negativo: “non-”: in-certo = non certo; in-esistente = non esistente
Graficamente sono identici, ma etimologicamente sono due prefissi diversi.
Veniamo ora ad approfondire meglio Il significato filosofico di inesistere.
I vocabolari più completi (Treccani in 5 volumi, Gradit, Devoto-Oli 2004, Battaglia-Barberi Squarotti) ci ricordano che inesistere nasce come verbo dotto, filosofico–teologico. Ad esempio il Treccani in cinque volumi:
«Avere esistenza in un ente: le cose finite inesistono in Dio come nel loro esemplare (Rosmini)».
E il Battaglia-Barberi Squarotti:
«ine§ìstere, intr. (per la coniug.: cfr. Esistere). Filos. Esistere in un altro ente o sostanza. Rosmini, XIV-11: Inesistere vuol dire essere compreso (intellettivamente). L’inesistenza intellettiva nasce in quanto che un essere è manifestativo di sé ad un altro: ma egli non è solo manifestativo, ma anche agente in un altro«.
Si legge anche, nella parte etimologica, un rimando al latino tardo inexsistèns -èntis (Mario Vittorino, Boezio).
Quindi ine-sistere qui non vuol dire “non esistere”, ma al contrario "esistere in qualcosa", cioè inerire, essere immanente in un altro ente (in Dio, nella mente, in un soggetto).
In questa tradizione (scolastica, rosminiana, ecc.) si tende a distinguere tra esistere come equivalente di “stare fuori, emergere, sussistere di fatto” e inesistere come equivalente di “stare dentro, esistere – immanentemente – in qualcos’altro”.
È un modo forte e positivo di essere, non un non-essere.
A questo punto, però, arriva l’aggettivo inesistente e si ribalta il segno. Infatti, da inesistere deriva naturalmente il participio/aggettivo inesistente (anzi, in latino addirittura è attestato prima il participio che il verbo), che in origine dovrebbe voler dire: “che in-esiste in qualcosa”, ossia "che ha esistenza in, che inerisce in…”.
Ma nell’uso comune succede tutt’altro: la maggior parte dei locutori e scrittori reinterpreta la parola supponendo che in-esistente voglia dire non esistente. Ossia, in tempi recenti l'aggettivo inesistente viene avvertito come sinonimo del sintagma “che non esiste”. Esattamente come incolore vuol dire senza colore, infinito significa non finito, ecc.
Il risultato sarà che, pur con la stessa forma grafica, abbiamo due catene semantiche diverse:
La prima è quella dotta e filosofica: in come prefisso locativo premesso al verbo esistere → inesistere → inesistente = “che è in un ente” (modo positivo di esistenza).
La seconda è quella comune/negativa: in come prefisso negativo + esistente → inesistente = “che non esiste”
Ne deriva una sorta di cortocircuito: “inesistente” può essere letto, sul piano etimologico cólto, quasi come il contrario di ciò che la gente vuol dire.
Ora, perché i puristi dell'Ottocento (Cesari, Fanfani, Arlia, Rigutini) e i veteropuristi del Novecento (Palazzi, Gabrielli ecc.) si sono accaniti su inesistente?
Soprattutt i primi, sapevano, in modo più o meno consapevole (magari per tradizione scolastica), che esiste il verbo filosofico inesistere = “avere esistenza in”. Ma anche qualcuno dei secondi, come Gabrielli, nota che inesistente «deriva propriamente dal linguaggio filosofico (come ppr. di inesistere), poi passato al gergo dei legali» e raccomanda insussistente.
Vedono che l’uso forense e poi comune ha preso quella forma e l’ha rovesciata di segno, usandola come puro sinonimo di espressioni come: "che non esiste", "privo di fondamento".
Dal loro punto di vista di puristi (spesso, nel caso di Cesari o Rigutini - meno nel caso di Palazzi o Gabrielli – , colti in latino e filosofia scolastica), questo è un orrore logico-etimologico: si preleva un participio da un verbo dotto che significa “esistere-in” e poi lo si usa per dire “non esistere affatto”. Ecco spiegata l'apparentemente assurda censura di inesistente e la preferenza per insussistente, che è morfologicamente “pulito”: sussistere = avere sussistenza, consistenza, fondamento. E quindi, coerentemente, insussistente = che non ha sussistenza, fondamento (ma non entra nel pasticcio di inesistere).
In altre parole: i puristi reagiscono – spesso senza più ricordare bene il motivo filosofico originario – contro un termine nato in ambito metafisico/teologico (inesistere) che l’uso ha ricodificato al contrario. E quindi lo bandiscono come improprio, raccomandando insussistente o perifrasi come "che non esiste".
La ragione profonda della censura puristica di inesistente sta nel fatto che l’aggettivo, etimologicamente legato al verbo dotto inesistere (in- + esistere, “essere in, inerire”), dovrebbe designare una modalità positiva e immanente dell’essere; l’uso comune, invece, lo ha reinterpretato come in- (privativo) + esistente, facendone il semplice equivalente di “non esistente”. I puristi, ancora influenzati dalla tradizione filosofico-scolastica, percepivano (magari confusamente) questa contraddizione e preferivano perciò l’aggettivo insussistente, morfologicamente trasparente e non ambiguo.
Il problema fondamentale risiede nella struttura del verbo inesistere e nei due diversi prefissi in-.
Infatti, abbiamo in realtà due prefissi in- diversi, anche se grafematicamente coincidenti:
In italiano (come già in latino) in- può essere:
locativo/intensivo: “essere in qualcosa” (cfr. il latino inesse = “essere in”); e nell'italiano filosofico che riproduceva il latino scolastico il verbo inesistere = significava “avere esistenza in un ente, in una realtà”.
Privativo/negativo: “non-”: in-certo = non certo; in-esistente = non esistente
Graficamente sono identici, ma etimologicamente sono due prefissi diversi.
Veniamo ora ad approfondire meglio Il significato filosofico di inesistere.
I vocabolari più completi (Treccani in 5 volumi, Gradit, Devoto-Oli 2004, Battaglia-Barberi Squarotti) ci ricordano che inesistere nasce come verbo dotto, filosofico–teologico. Ad esempio il Treccani in cinque volumi:
«Avere esistenza in un ente: le cose finite inesistono in Dio come nel loro esemplare (Rosmini)».
E il Battaglia-Barberi Squarotti:
«ine§ìstere, intr. (per la coniug.: cfr. Esistere). Filos. Esistere in un altro ente o sostanza. Rosmini, XIV-11: Inesistere vuol dire essere compreso (intellettivamente). L’inesistenza intellettiva nasce in quanto che un essere è manifestativo di sé ad un altro: ma egli non è solo manifestativo, ma anche agente in un altro«.
Si legge anche, nella parte etimologica, un rimando al latino tardo inexsistèns -èntis (Mario Vittorino, Boezio).
Quindi ine-sistere qui non vuol dire “non esistere”, ma al contrario "esistere in qualcosa", cioè inerire, essere immanente in un altro ente (in Dio, nella mente, in un soggetto).
In questa tradizione (scolastica, rosminiana, ecc.) si tende a distinguere tra esistere come equivalente di “stare fuori, emergere, sussistere di fatto” e inesistere come equivalente di “stare dentro, esistere – immanentemente – in qualcos’altro”.
È un modo forte e positivo di essere, non un non-essere.
A questo punto, però, arriva l’aggettivo inesistente e si ribalta il segno. Infatti, da inesistere deriva naturalmente il participio/aggettivo inesistente (anzi, in latino addirittura è attestato prima il participio che il verbo), che in origine dovrebbe voler dire: “che in-esiste in qualcosa”, ossia "che ha esistenza in, che inerisce in…”.
Ma nell’uso comune succede tutt’altro: la maggior parte dei locutori e scrittori reinterpreta la parola supponendo che in-esistente voglia dire non esistente. Ossia, in tempi recenti l'aggettivo inesistente viene avvertito come sinonimo del sintagma “che non esiste”. Esattamente come incolore vuol dire senza colore, infinito significa non finito, ecc.
Il risultato sarà che, pur con la stessa forma grafica, abbiamo due catene semantiche diverse:
La prima è quella dotta e filosofica: in come prefisso locativo premesso al verbo esistere → inesistere → inesistente = “che è in un ente” (modo positivo di esistenza).
La seconda è quella comune/negativa: in come prefisso negativo + esistente → inesistente = “che non esiste”
Ne deriva una sorta di cortocircuito: “inesistente” può essere letto, sul piano etimologico cólto, quasi come il contrario di ciò che la gente vuol dire.
Ora, perché i puristi dell'Ottocento (Cesari, Fanfani, Arlia, Rigutini) e i veteropuristi del Novecento (Palazzi, Gabrielli ecc.) si sono accaniti su inesistente?
Soprattutt i primi, sapevano, in modo più o meno consapevole (magari per tradizione scolastica), che esiste il verbo filosofico inesistere = “avere esistenza in”. Ma anche qualcuno dei secondi, come Gabrielli, nota che inesistente «deriva propriamente dal linguaggio filosofico (come ppr. di inesistere), poi passato al gergo dei legali» e raccomanda insussistente.
Vedono che l’uso forense e poi comune ha preso quella forma e l’ha rovesciata di segno, usandola come puro sinonimo di espressioni come: "che non esiste", "privo di fondamento".
Dal loro punto di vista di puristi (spesso, nel caso di Cesari o Rigutini - meno nel caso di Palazzi o Gabrielli – , colti in latino e filosofia scolastica), questo è un orrore logico-etimologico: si preleva un participio da un verbo dotto che significa “esistere-in” e poi lo si usa per dire “non esistere affatto”. Ecco spiegata l'apparentemente assurda censura di inesistente e la preferenza per insussistente, che è morfologicamente “pulito”: sussistere = avere sussistenza, consistenza, fondamento. E quindi, coerentemente, insussistente = che non ha sussistenza, fondamento (ma non entra nel pasticcio di inesistere).
In altre parole: i puristi reagiscono – spesso senza più ricordare bene il motivo filosofico originario – contro un termine nato in ambito metafisico/teologico (inesistere) che l’uso ha ricodificato al contrario. E quindi lo bandiscono come improprio, raccomandando insussistente o perifrasi come "che non esiste".
La ragione profonda della censura puristica di inesistente sta nel fatto che l’aggettivo, etimologicamente legato al verbo dotto inesistere (in- + esistere, “essere in, inerire”), dovrebbe designare una modalità positiva e immanente dell’essere; l’uso comune, invece, lo ha reinterpretato come in- (privativo) + esistente, facendone il semplice equivalente di “non esistente”. I puristi, ancora influenzati dalla tradizione filosofico-scolastica, percepivano (magari confusamente) questa contraddizione e preferivano perciò l’aggettivo insussistente, morfologicamente trasparente e non ambiguo.
Teo Orlando
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