bubu7 ha scritto:La mutazione di genere non è contemplata in modo specifico nel Discorso, ma, dal senso complessivo dell'opera, non si vede perché il Machiavelli (o chi altri abbia scritto il Dialogo) debba essere contrario a un tale adattamento.
Salvo nuovi ritrovamenti bibliografici, non sapremo mai con certezza quale fosse l’opinione del Machiavelli riguardo al genere dei forestierismi, anche se è probabile che il Segretario non si sarebbe fatto scrupoli di «convertire» anche quello qualora gli convenisse.
Da un punto di vista prettamente [filo]logico, non posso non riconoscermi nella
posizione di Marco, anche se non negherò il peso dell’interferenza semantica della lingua d’arrivo (per gli anglofili,
target language).
Non mi scandalizzerò quindi per un
affaire maschile [in italiano]… ma allora, davvero, perché non direttamente
affare?
Tuttavia, mi permetto di fare un’osservazione a margine di quanto affermato da Bubu.
bubu7 ha scritto:Non è vero poi che nell'opera Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, attribuita al Machiavelli, si parli di assimilazione fonetica, nel luogo da cui è stato tratto il motto, né si parla in modo particolare di assimilazione fonetica, in tutto il resto dell'opera: la fonetica è messa sullo stesso piano degli altri tipi di adattamento.
È vero: il Machiavelli qui parla [
verosimilmente] di adattamento
tout court (per i francofobi, «puro e semplice»)… anche perché
ai suoi tempi gli adattamenti erano
adattamenti «integrali» (bei tempi quelli!

).
Tuttavia, vorrei far rilevare —ma ve ne sarete già accorti da voi— come,
in italiano, tra adattamento [«integrale»] e adattamento «fonetico» non ci sia [praticamente] differenza.
Sul piano della successione logica, infatti, l’adattamento [«integrale»] può essere decomposto in tre fasi: (1) adattamento fonologico, (2) adattamento fonotattico, (3) adattamento morfologico (la terminologia qui usata non è quella tradizionale: in particolare, considero qui l’adattamento come
processo, non come il risultato dello stesso; per una classificazione dei vari tipi di adattamento si veda, ad esempio,
questo saggio).
Adattamento fonologico. Per il meccanismo dell’«interferenza fonologica», i fonemi della lingua di partenza verranno resi nella lingua d’arrivo (nel nostro caso, l’italiano) con foni il piú possibile vicini a quelli originari, ma generalmente diversi. Questo accade non solo quando i foni di partenza sono completamente assenti nella lingua d’arrivo, ma anche quando siano presenti come
tassofoni differentemente distribuiti. Questo tipo d’adattamento è sempre presente (anche nell’italiano di oggi) pena il ridicolo o comunque la rottura dell’armonia dell’enunciazione. Un forestierismo crudo che non presenti [nemmeno] adattamento fonologico non è un forestierismo, ma, per dirla col Castellani, una «citazione», ovvero una parola straniera citata in un contesto italiano. [
Ai fini dell’adattamento, al bagaglio dei fonemi della lingua d’arrivo possono aggiungersi alcuni «xenofonemi» (o «fonostilemi») mutuati dal sostrato dialettale e/o dalle lingue piú note al parlante medio della lingua d’arrivo. Per l’italiano di oggi, il Canepari riconosce i seguenti xenofonemi: /y ø ã õ ʒ x θ ð/ (variamente realizzati).]
Adattamento fonotattico. Consiste nell’adattare il forestierismo alla fonotassi italiana: è il passo immediatamente successivo all’adattamento fonologico, in quanto non concerne piú [
soltanto] i singoli fonemi (coi loro tassofoni), ma la loro relativa distribuzione, vietando le combinazioni non ammesse dalla fonotassi genuina della lingua. In questo processo, gli eventuali xenofonemi vanno ovviamente a farsi benedire. Nel loro insieme, adattamento fonologico e fonotattico costituiscono quello che Marco ha chiamato (e che io per comodità continuerò a chiamare)
adattamento «fonetico».
Adattamento morfologico. È l’ultimo [eventuale] passo, in cui s’adatta il forestierismo alla morfologia della lingua d’arrivo, generalmente modificando/aggiungendo l’opportuna desinenza. In italiano, ciò avviene [tuttora!] obbligatoriamente per i verbi:
e.g., [
to]
chat >
chattare.
Per un forestierismo che sia passato attraverso tutt’e tre le fasi di cui sopra [ho parlato e] parlo di
adattamento «integrale», in analogia e opposizione a «prestito integrale», o semplicemente di
adattamento. Ovviamente, un forestierismo [«integralmente»] adattato sarà piú sensatamente/propriamente scritto impiegando i grafemi «canonici» della lingua d’arrivo, per cui un forestierismo [«integralmente»] adattato è spesso anche
«graficamente» adattato.
Ora è chiaro, che in ispecial modo per l’italiano, tutto ruota attorno all’adattamento fonotattico e al «sistema fonologico» della lingua d’arrivo, o meglio:
al sistema fonologico che si riconosce essere proprio della lingua d’arrivo.
Il mio giudizio riguardo al «terzo sistema fonologico» ipotizzato dal Devoto è noto: per me, si tratta di un «sistema fonologico
terzo», non foss’altro per la
relativa scarsità e «marginalità» dei vocaboli per i quali andrebbe invocato —scarsità
attuale, ovviamente: la tendenza —ne discutiamo quasi quotidianamente— è (ahinoi?) tutt’altra. «
Gas,
sport,
jazz, anche se sono parole d’uso quotidiano, restano tuttora, secondo me, parole meteche, non italiane» (Migliorini 1990), dei «corpi estranei» (Castellani 1987).
In ogni caso, ai tempi di Machiavelli, del «terzo sistema fonologico» non c’era neanche l’ombra. Ecco, dunque, perché, in quel contesto, l’adattamento fonetico è sostanzialmente anche adattamento morfologico, e quindi adattamento integrale: in italiano (= toscano, come in ogni dialetto centromeridionale e [perlopiú] anche in ligure e in veneto), bisogna[va],
laddove necessario, aggiungere una vocale d’appoggio.
Teoricamente, ci si potrebbe anche fermare qui e considerare invariabile il sostantivo/aggettivo risultante, ma, a parte il fatto che anche questo significherebbe «assegnare una morfologia», ai tempi del Machiavelli ciò era estremamente improbabile.
Quindi, se non è escluso che il Nostro avrebbe visto di buon occhio anche un cambiamento di genere del forestierismo, è assolutamente legittimo affermare che le «conversioni» cui allude sono essenzialmente «fonetiche»:
i.e., Marco-Bubu 1-1.
