vi propongo l'intervista a Luca Serianni, che al programma Fahrenheit su Radio Tre, presentando il suo nuovo libro, parla della scuola italiana, dell'importanza dei classici e d'altre questioni di lingua.
Grazie, Ferdinand, è sempre un piacere ascoltare Serianni (ma l’intervistatore l’interrompe troppo, a mio avviso).
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Ho riascoltato l’intervista, e vorrei soffermarmi su quello che dice Serianni negli ultimi minuti: nella narrativa – se ho capito bene il suo pensiero – non esiste piú una vera e propria lingua letteraria (cioè «elevata» rispetto al parlare e scrivere comune, legata alla tradizione), che invece si perpetuerebbe piuttosto in certa saggistica e in certo giornalismo. Mi sento di condividere questa visione, seppure con alquanta mestizia. Non so cosa ne pensino i nostri membri.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Ciò che è motivo di tristezza, in lei caro Marco (e in me), avrebbe potuto essere una conquista, e, nelle opere dei maggiori autori del Novecento, è stato proprio così. In quel caso lo stile semplice era ed è una risorsa, un modo linguistico che rincorre l’uso (pur allontanandosene, inevitabilmente) per scopi intelligenti ed estetici, letterari. Ma oggi le cose stanno diversamente. L’uso 'medio' della lingua solo raramente è ricercato e voluto, nella narrativa; è più spesso lo sfoggio di un monolinguismo che non è più stile, non più risorsa, ma un limite (si scrive come si parla, e se la spontaneità è sempre da preferire, non è detto che il suo prodotto sia solo un bene). Si disattendono i registri, così, e il gioco intellettuale di una penna intelligente rischia di smarrirsi nell’ignoranza delle 'regole' – e anche il lettore non capisce più [tutto] quello che legge (o potrebbe leggere). Mi pare sia il male maggiore dell’intrattenimento moderno, quello d’incoraggiare a un minimo di sforzo, mai di più.
Ho fatto purtroppo l'errore di mettere il collegamento dal sito della RAI, il cui archivio mantiene solo le trasmissioni degli ultimi dieci o quindici giorni, se non sbaglio. Credo che la puntata sia irrimediabilmente perduta.
Non so se sia possibile, ma in futuro dovremmo cercare di scaricare questi preziosi documenti.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Non mi pare che sia l'intervista della RAI, che aveva condiviso Ferdinand: a ogni modo, lascio il collegamento d'un'intervista a Serianni sempre circa questo libro (L'ora d'italiano), che forse qualcuno di voi ha già visto.
Grazie Andrea, davvero molto interessante!
Ho particolarmente apprezzato la parte in cui descrive il riassunto come la "regina delle prove". Condivido in pieno la teoria per la quale non si arrivi a dominare l'arte di scrivere solo attraverso il tema, ma anche cimentandosi in quella serie di esercizi che spesso vengono considerati dai professori, poco utili o addiruttra "per bambini".
Voi che ne pensate?
P.s. verso metà intervista non ho potuto fare a meno di notare che il prof. Serianni ha usato il verbo testare. Lungi da me sarebbe trovargli da dire in merito, mi chiedo solo cosa ne pensiate anche voi, alla luce di quanto si è scritto in questo foro.
Ritenete che il verbo testare sia accettabile nel linguaggio parlato in un registro medio? O può semplicemente essergli sfuggito?
Parlo per me, ma, per quanto derivato d’un inglesismo, non mi sento di condannare senz’appello l’uso di questo verbo. C’è un bel gruppo di traducenti validissimi e pienamente italiani (vedi la nostra lista: collaudare, provare, verificare, esaminare, controllare, sperimentare), i quali rendono superfluo testare. Quest’ultimo, però, è fonotatticamente ineccepibile ed è breve, perciò in contesti informali non censurerei chi lo impiega.
Testare è «fonotatticamente ineccepibile», come dice giustamente Ferdinand, anche perché addirittura disponiamo di un omografo e omofono, cioè testare nel senso di «fare testamento».