
Aspetto il cielo piangere
Moderatore: Cruscanti
Aspetto il cielo piangere
«Aspetto il cielo piangere»: è corretta questa frase? Si dovrebbe trattare di una oggettiva implicita, costruita sul modello latino dell'accusativo con l'infinito («Aspetto che il cielo pianga»), ma forse il verbo aspettare non rientra tra quelli in grado di "permettersi" tale reggenza... 

-
- Moderatore «Dialetti»
- Interventi: 726
- Iscritto in data: sab, 14 mag 2005 23:03
Non è da escludere che un simile costrutto fosse possibile in italiano antico (ma le mie brevi ricerche non hanno prodotto risultati); mi pare invece da escludere che si possano adoperare nella lingua modello d’oggi frasi del tipo *Aspetto il treno arrivare.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Il tipo ‘verbo + oggetto + infinito’ sembrerebbe applicarsi solo ai verbi causativi (fare, lasciare) e ai verbi percettivi (vedere, sentire, ecc.): Carlo ha fatto/lasciato andare via Mario; Mario ha visto Giovanni uscire o Mario ha visto uscire Giovanni (esempi tratti dalla GGIC). Il verbo aspettare non rientra né nella prima né nella seconda categoria.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
-
- Interventi: 1303
- Iscritto in data: sab, 06 set 2008 15:30
- Sandro1991
- Interventi: 251
- Iscritto in data: lun, 28 nov 2011 19:07
Pur non avendone la certezza, riterrei questo costrutto inesatto. Se qualcuno ne trova un’attestazione autorevole, sarebbe interessante.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Ho approfondito la ricerca con la stringa aspett* il v. *are (v. = vicino a), ho esaminato tutti i risultati (circa 250), e non v’è traccia neanche di un esempio. Ne concludo che il costrutto oggetto di questo filone col verbo aspettare è da ritenere estraneo all’italiano.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Come Sandro e PersOnLine percepisco la frase come poetica e non come estranea all'italiano.
mentre io aspetto le stelle cadere
Io che attendo la neve cadere dal cielo
mentre io aspetto le stelle cadere
Io che attendo la neve cadere dal cielo
A te ricorro; e prego ché mi porghi mano
A trarmi fuor del pelago, onde uscire,
S'io tentassi da me, sarebbe vano.
A trarmi fuor del pelago, onde uscire,
S'io tentassi da me, sarebbe vano.
Re: Aspetto il cielo piangere
Rispondo direttamente [ma si veda più sotto]: direi no – si tratta di un costrutto agrammaticale, e cioè non previsto dalla [lingua intesa come] «norma».bartolo ha scritto:«Aspetto il cielo piangere»: è corretta questa frase? Si dovrebbe trattare di una oggettiva implicita, costruita sul modello latino dell'accusativo con l'infinito («Aspetto che il cielo pianga»), ma forse il verbo aspettare non rientra tra quelli in grado di "permettersi" tale reggenza...?
Il modello latino, che sottostà ad alcune restrizioni, sottopone all’italiano una struttura a sua volta rispettosa di determinate regole – regole che non possono essere ricondotte all’uso di «aspettare» (sempreché non si voglia formulare un’espressione volutamente irregolare); quindi, nell’italiano moderno, è ben accetto l’accusativo [soltanto] dopo i verba dicendi (affermare, dire, dichiarare etc.).
È bene ricordare che ogni costruzione grammaticale corrisponde a una combinazione di parole, e tale combinazione è custodita da regole che non possono avvalersi esclusivamente del sentimento che ognuno di noi ha della propria lingua: la violazione delle regole che governano le costruzioni grammaticali a volte è resa apparentemente accettabile da una coincidenza analogica – ma rimando anche al concetto di creatività linguistica, che, se ben sorvegliata, arricchisce la lingua e il pensiero etc.
La combinazione sintattica proposta dal quesito tocca esclusivamente la detta «costruzione percettiva», che, in diacronia, altro non è se non una particolare forma di accusativo con l’infinito divenuta tanto stabile da meritarsi, di solito, una trattazione a sé.
Sono verbi percettivi quelli che rinviano alla sfera sensoriale, come sentire, vedere (percezione visiva), ascoltare etc. Sotto il profilo sintattico e semantico, questi verbi introducono un «oggetto» che assume la particolarità di «controllare» il verbo dell’infinitiva:
Mario sente il professore parlare [il professore parla]
Altri esempi con verbi non di percezione, oltre a mostrare eventualmente la coreferenza tra soggetto della reggente e dell’infinitiva, indicano una struttura sintattica ad ogni modo diversa:
Il professore ha promesso di interrogare Mario [il professore interroga]
Il professore invita Mario a tacere [Mario non tace, ‘disturba’]
La presenza della preposizione trasmette un comportamento sintattico non sempre regolare (a seconda del verbo reggente, può cambiare la preposizione, può esservi diversamente un complementatore, raramente può non esservi nulla), appetto di una struttura, quella coi percettivi, cristallizzata senz’altro [si noti che, in questo caso, la trasformazione da implicita a esplicita dà luogo a quella che di solito si chiama «pseudorelativa»: «Mario sente il professore che parla» non è sintatticamente sovrapponibile a «Mario conosce un professore che insegna grammatica», ma nemmeno a «Mario sente che il professore parla»].
Attenendoci ancora alla classificazione semantica, «aspettare» andrebbe sotto la categoria dei verbi psicologici (secondo la dimensione della sfera mentale), per cui si dà il senso di «rivolgersi col pensiero»; o sotto quella degli stativi, per il senso di «attendere». La struttura sintattica richiede, in questo caso (con subordinata infinitiva), non una preposizione (ché «attendere» introduce un oggetto diretto), ma un complementatore [che può essere a o di – per la subordinata esplicita, sempre che]:
Aspetto di ottenere un qualche risultato [per il primo senso]
Aspetto a decidere [per il secondo senso]
Si danno anche le opzioni dell’infinito preceduto dall’articolo e dalla preposizione per – ma è evidente che non meritano di essere citate.
Per l’etimologia: un uso attestato è dell’italiano classico, nei danteschi A lui t’aspetta e a’ suoi benefici, e cioè «rivolgere lo sguardo e affidarsi a», e aspetto tempo che più ragion prenda, ma sostituito dal Barbi con la lezione più sicura «spero».
*Aspetto il cielo piangere potrebbe evocare una stravaganza anche poetica [assolutamente non letteraria], della poesia di oggi [tuttavia, il quesito che ha ingenerato questo intervento implica una volontà di conoscenza che è desiderio di precisa erudizione]; e potrebbe riproporre invece il ritmo di uno stanco stereotipo linguistico.
Per mentre aspetto le stelle cadere, anche qui, nonostante il contesto più nitido, forse si vìola un po’ troppo il corrispettivo e soggiacente «mentre aspettavo il cadere delle stelle» – seppure, a ben guardare, una pausa ‘metrica’ tra «stelle» e «cadere» renderebbe plausibile e lirico il «verso» – del resto l’idea secondo cui «la funzione poetica proietta il principio d’equivalenza dall’asse della selezione all’asse della combinazione» potrebbe essere [ed è spesso] intesa come un [pacifico] sovvertimento che privilegi le connessioni estetiche, non quelle logiche, per una migliore epifania della forma e del contenuto.
Grazie, ottimo Ladim. Mi faccia però capire bene: dalle sue parole mi pare di aver compreso che la "costruzione percettiva" abbia un'origine diversa da quella che all'italiano giunge dal latino (quella cioè che ci fa accettare la costruzione con l'accusativo e l'infinito solo dopo i verba dicendi). Da dove viene, allora? Non è ipotizzabile il medesimo sentimento originario che portò all'"invenzione" dell'oggettiva in latino (nata, ferunt, da una "dislocazione sintattica": in «iube hunc abire», quell'«hunc», dapprima sentito come oggetto di «iube» e indipendente dall'«abire» – percepito a sua volta come complemento di relazione – fu successivamente avvertito come soggetto di «abire»)? Mi permetta di fantasticare: «Aspetto il cielo piangere», cioè: "Aspetto il cielo, in relazione al suo piangere". 

Non «diversa», ma stessa. Vorrei però capire meglio che cosa intende lei con «dislocazione sintattica» (e forse allude a una ricomposizione?). L’origine più probabile del costrutto latino accusativo+infinito andrebbe ricondotta a una primaria destinazione predicativa dell’infinito, che aveva [e ha] un valore nominale (in questo caso, predicativo dell’oggetto etc.) etc.
Ma, come ho già detto più volte, avvicinare il latino all’italiano in questi casi richiede una delicatezza interpretativa, rischiosa e ad ogni modo suscettibile – altro era il latineggiare, poniamo, di un Poliziano o di un Leopardi, per cui la sovrapposizione era tutto sommato linguistica e non solo libresca. Lei vuole una ‘relazione’ tra l’infinito «piangere» e il sostantivo «cielo»? Benissimo – ecco la delicatezza; ma la grammatica italiana accusa un’irregolarità, una deviazione. La nostra lingua possiede nella 'struttura percettiva' una perspicua linearità determinata proprio dall’occorrenza di un oggetto che «controlla» l’infinito, quando il soggetto della reggente ‘predica’ qualcosa di sé attraverso la dimensione sensoriale. Estendere questa struttura ad altri verbi la cui organizzazione semantica e sintattica attende un’altra struttura potrebbe rappresentare un’esplorazione linguistica di natura occasionale, appunto suscettibile (se così fosse, non bisognerebbe chiedersi altro sulla sua legittimità – vige allora una strategia linguistica primordiale e immediata, assoluta, di qui noncurante).
Sull’esempio latino, gli umanisti del Quattrocento avevano stilizzato un uso abbondante dell’infinito, non solo coi verba dicendi (non posso essere più preciso, ché dovrei schidionare attingendo ai corpora [che non ho]: posso azzardare i voluntatis, tutti i sentiendi [che raccolgono i putandi e i nostri percettivi – e di qui potrebbe derivare una specializzazione sintattica dettata proprio dalla particolarità dei percettivi, che ammettono un coinvolgimento peculiare, quindi una disposizione pragmatica così e così etc.]). L’italiano letterario e quello di stile sostenuto hanno operato una selezione, confermando la centralità di alcune categorie verbali – appunto i dicendi; ma, a ben guardare, anche coi putandi si può paludare abbastanza bene («ritengo il mio libro essere il migliore») etc. –, in ultimo restringendo la rosa degl’infiniti.
Mi rendo conto, mentre scrivo, che si potrebbe proporre un assetto ordinato intorno alle infinitive; ma sarebbe, mi pare, un lavoro che andrebbe ben oltre i confini di questa improvvisata e piacevole noterella.
Quindi, caro Bartolo, se mi chiede un parere ‘informato’, le dico che il costrutto traballa; se mi chiede un parere estetico, le dovrei confessare una certa resistenza; sul «fantasticare», la inviterei invece a non esitare, ché la lingua vive anche [o soprattutto] di questo [quindi, se l’esito del Suo detto Le dà piacere, lo lasci esattamente così].
Ma, come ho già detto più volte, avvicinare il latino all’italiano in questi casi richiede una delicatezza interpretativa, rischiosa e ad ogni modo suscettibile – altro era il latineggiare, poniamo, di un Poliziano o di un Leopardi, per cui la sovrapposizione era tutto sommato linguistica e non solo libresca. Lei vuole una ‘relazione’ tra l’infinito «piangere» e il sostantivo «cielo»? Benissimo – ecco la delicatezza; ma la grammatica italiana accusa un’irregolarità, una deviazione. La nostra lingua possiede nella 'struttura percettiva' una perspicua linearità determinata proprio dall’occorrenza di un oggetto che «controlla» l’infinito, quando il soggetto della reggente ‘predica’ qualcosa di sé attraverso la dimensione sensoriale. Estendere questa struttura ad altri verbi la cui organizzazione semantica e sintattica attende un’altra struttura potrebbe rappresentare un’esplorazione linguistica di natura occasionale, appunto suscettibile (se così fosse, non bisognerebbe chiedersi altro sulla sua legittimità – vige allora una strategia linguistica primordiale e immediata, assoluta, di qui noncurante).
Sull’esempio latino, gli umanisti del Quattrocento avevano stilizzato un uso abbondante dell’infinito, non solo coi verba dicendi (non posso essere più preciso, ché dovrei schidionare attingendo ai corpora [che non ho]: posso azzardare i voluntatis, tutti i sentiendi [che raccolgono i putandi e i nostri percettivi – e di qui potrebbe derivare una specializzazione sintattica dettata proprio dalla particolarità dei percettivi, che ammettono un coinvolgimento peculiare, quindi una disposizione pragmatica così e così etc.]). L’italiano letterario e quello di stile sostenuto hanno operato una selezione, confermando la centralità di alcune categorie verbali – appunto i dicendi; ma, a ben guardare, anche coi putandi si può paludare abbastanza bene («ritengo il mio libro essere il migliore») etc. –, in ultimo restringendo la rosa degl’infiniti.
Mi rendo conto, mentre scrivo, che si potrebbe proporre un assetto ordinato intorno alle infinitive; ma sarebbe, mi pare, un lavoro che andrebbe ben oltre i confini di questa improvvisata e piacevole noterella.
Quindi, caro Bartolo, se mi chiede un parere ‘informato’, le dico che il costrutto traballa; se mi chiede un parere estetico, le dovrei confessare una certa resistenza; sul «fantasticare», la inviterei invece a non esitare, ché la lingua vive anche [o soprattutto] di questo [quindi, se l’esito del Suo detto Le dà piacere, lo lasci esattamente così].
Chi c’è in linea
Utenti presenti in questa sezione: Amazon [Bot], Bing [Bot] e 6 ospiti