«Valere» come ‹valere la pena di (fare)›
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«Valere» come ‹valere la pena di (fare)›
Una battuta di un celebre filme, Paura e delirio a Las Vegas (titolo mal tradotto, ma tant'è…), recita cosí in originale: «If a thing's worth doing, it's worth doing right». In italiano s'è adattata in questo modo: «Se una cosa vale farla, vale farla bene».
Ora, mi chiedo se il significato di valere in questo contesto (‹vale la pena di…›) sia lecito e corroborato dalla nostra tradizione letteraria. Una cursoria ricerca nell'archivio in linea della BibIt mi ha dato i seguenti risultati (grassetti miei):
Del vino de' chanali sono contento diate, per l'amore di Dio, a ongnuno; fate stare all'uscio, e díene a tutti: che meglio vale fare chosí che si ghuastasse. (Francesco Datini, Lettere alla moglie Margherita).
… però se disarmato me ha esso signor trovato, agli cui colpi non vale fare alcuna difesa, io, non possendo risistere, meritamente son vinto… (Masuccio Salernitano, Il Novellino)
Come si vede, siamo nei primi secoli della lingua (XIV-XV sec.); peraltro, l'accezione di cui sto ragionando sembra essere possibile soltanto per l'esempio di Datini, mentre nella, frase del Novellino, il significato è piuttosto ‹essere efficace› (cfr. Treccani in linea s.v. «Valere» 1b). Parrebbe quindi che siamo di fronte a un'invenzione del dialoghista italiano. Che ne dite?
Ora, mi chiedo se il significato di valere in questo contesto (‹vale la pena di…›) sia lecito e corroborato dalla nostra tradizione letteraria. Una cursoria ricerca nell'archivio in linea della BibIt mi ha dato i seguenti risultati (grassetti miei):
Del vino de' chanali sono contento diate, per l'amore di Dio, a ongnuno; fate stare all'uscio, e díene a tutti: che meglio vale fare chosí che si ghuastasse. (Francesco Datini, Lettere alla moglie Margherita).
… però se disarmato me ha esso signor trovato, agli cui colpi non vale fare alcuna difesa, io, non possendo risistere, meritamente son vinto… (Masuccio Salernitano, Il Novellino)
Come si vede, siamo nei primi secoli della lingua (XIV-XV sec.); peraltro, l'accezione di cui sto ragionando sembra essere possibile soltanto per l'esempio di Datini, mentre nella, frase del Novellino, il significato è piuttosto ‹essere efficace› (cfr. Treccani in linea s.v. «Valere» 1b). Parrebbe quindi che siamo di fronte a un'invenzione del dialoghista italiano. Che ne dite?
Per me, il traduttore in questione ha solo un’infarinatura d’inglese: avrà letto in un dizionario it’s worth £100 ~ vale 100 sterline e non sarà andato oltre.
Io avrei tradotto piuttosto cosí: Se vale la pena fare qualche cosa, va fatta bene.
Attendo altri pareri.
Io avrei tradotto piuttosto cosí: Se vale la pena fare qualche cosa, va fatta bene.
Attendo altri pareri.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Credo che i traduttori dei film siano vincolati dalla lunghezza della frase originale, altrimenti i doppiatori avrebbero problemi a far "stare dentro" le battute. Riporto da Wikipedia:
Una traduzione non fedele ma sicuramente migliore di «Se una cosa vale farla, vale farla bene» poteva essere «Se devi fare una cosa, falla bene»; oppure, in ottonari per chi ama i giochi di parole: «Se una cosa tanto vale, Tanto vale farla bene».
Per fare una verifica, se Ferdinand è in possesso del DVD, controllerei i sottotitoli: può darsi che siano tradotti meglio.Dato che è raro che la traduzione più fedele abbia anche la stessa lunghezza della frase originale – ossia che abbia cioè pressappoco lo stesso numero di sillabe – il traduttore-dialoghista è costretto a modificarne la costruzione finché non raggiunge una sincronizzazione soddisfacente. Un bravo professionista riesce a raggiungere un risultato ottimale senza sacrificare la fedeltà alla versione originale.
Una traduzione non fedele ma sicuramente migliore di «Se una cosa vale farla, vale farla bene» poteva essere «Se devi fare una cosa, falla bene»; oppure, in ottonari per chi ama i giochi di parole: «Se una cosa tanto vale, Tanto vale farla bene».

Oggi com'oggi non si sente dire dieci parole, cinque delle quali non sieno o d'oltremonte o nuove, dando un calcio alle proprie e native. (Fanfani-Arlìa, 1877)
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La pellicola in questione ha parecchie parti con voce fuori campo, ma la battuta di cui discutiamo non è fra queste. Sospetto dunque che questa sciatteria sia colpa della sincronizzazione tra labiale e traduzione (il personaggio tra l'altro pronuncia quelle parole stringendo fra i denti un bocchino per sigarette).
Purtroppo non ho il DVD; è facile però supporre che i sottotitoli siano meglio dei dialoghi italiani.
Purtroppo non ho il DVD; è facile però supporre che i sottotitoli siano meglio dei dialoghi italiani.
A proposito di relazioni difficili: valere/worth. Lo slogan pubblicitario di una nota marca di cosmetici, secondo Wikipedia uno dei piú famosi del mondo, tradotto in piú di quaranta lingue, suona: «Perché io valgo/voi valete.» (Pare che chi l’ha escogitato, se questo interessa, volesse metterci una sfumatura di femminismo.) Anche se la ditta è francese, esso deriva da un originale inglese «Because I’m worth it», poi esteso alla seconda persona del plurale. Fra queste quaranta e piú traduzioni, quella italiana non mi sembra la piú felice; quel valere assoluto suona presuntuoso, o sembra volerci istigare alla presunzione, nella versione allargata. Meglio sarebbe stato: ‘me lo merito, ve lo meritate’. La voce francese di Wikipedia dedicata a questa memorabile creazione dei copywriter s’intitola «Parce que je le vaux bien», diverso da un tronfio ‘io valgo’. Analoga considerazione si potrebbe fare sulle versioni tedesca, spagnola etc. Quelle parolette, quelle forme pronominali monosillabe, it, le, es, lo, limitano la rivendicazione del proprio o dell’altrui valore a esso, all’uso di una tintura per capelli. Anche qui ci sarà stato qualcuno che ha consultato frettolosamente la voce ‘worth’ di un vocabolario inglese (v. sopra, l’intervento di Marco1971)?
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Credo si tratti d’un’incomprensione dei redattori pubblicitari. L’uso transitivo di valere nel significato di ‹meritare qualcosa, essere degno di qualcosa› è antico («aveva la gentil donna […] un solo figliuolo […], il quale e essa e ’l padre sommamente amavano, sí perché figliuolo era e sí ancora perché per vertù e per meriti il valeva», Boccaccio), e non può essere ricuperato in questo contesto. Dubito fortemente che ci sia un’influenza dell’inglese, dato che l’azienda in questione è francese e il motto, in origine, è in francese.
D’altra parte, si tratterebbe d’un travisamento esplicito dell’originale francese, sicché si potrebbe anche pensare che l’abbiano fatto apposta, sulla base di qualche ricerca di mercato. Cosí — derogando per una volta alla regola dell’insipienza — potremmo spiegare anche la versione brasiliana del motto, «porque você vale muito!» cioè «perché tu vali molto!».
D’altra parte, si tratterebbe d’un travisamento esplicito dell’originale francese, sicché si potrebbe anche pensare che l’abbiano fatto apposta, sulla base di qualche ricerca di mercato. Cosí — derogando per una volta alla regola dell’insipienza — potremmo spiegare anche la versione brasiliana del motto, «porque você vale muito!» cioè «perché tu vali molto!».
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Intende il significato antico? Può darsi, ma in ogni caso avremmo un’incoerenza: perché usare in questo contesto quel che è a tutti gli effetti un arcaismo?
Mi sembra piuttosto che l’adattatore abbia voluto usare valere quasi in funzione di modale. Il risultato non mi sembra molto convincente, perché spontaneamente nessuno direbbe «se una cosa vale farla…» ma «se vale la pena fare una cosa…», come ha detto su Marco.
Mi sembra piuttosto che l’adattatore abbia voluto usare valere quasi in funzione di modale. Il risultato non mi sembra molto convincente, perché spontaneamente nessuno direbbe «se una cosa vale farla…» ma «se vale la pena fare una cosa…», come ha detto su Marco.
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Valere può essere usato come transitivo o coi significati comuni di ‹procurare, fruttare qualcosa a qualcuno› e ‹equivalere, corrispondere›, ma non è questo il caso, oppure nel senso di ‹esser degno di qualcosa, meritare qualcosa›. Quest’ultimo è un uso senza dubbio arcaico, tant’è che, se volessimo tradurre il motto francese di cui sopra («parce que je le vaux bien»), non lo potremmo adottare: *perché io lo valgo è agrammaticale, in assenza di un contesto che lo giustifichi.
Quanto alla frase del primo intervento, se non escludo che possa essere giustificabile in qualche modo, continuo a preferire una piú fluida formulazione come se vale la pena di fare.
Quanto alla frase del primo intervento, se non escludo che possa essere giustificabile in qualche modo, continuo a preferire una piú fluida formulazione come se vale la pena di fare.
Ferdinand Bardamu scrive:
«Parce qu’à l’origine, il y a Because I’m worth it».
Lo stesso sembra potersi ricavare dalla bibliografia elencata in Wikipedia, «Parce que je le vaux bien». Chi avrà ragione? In ogni caso la versione brasiliana, col suo muito, supera la nostra!
Hélène Guillaume scrive su Madame Figaro in linea dell’11 nov. 2011 (reperibile):il motto, in origine, è in francese
«Parce qu’à l’origine, il y a Because I’m worth it».
Lo stesso sembra potersi ricavare dalla bibliografia elencata in Wikipedia, «Parce que je le vaux bien». Chi avrà ragione? In ogni caso la versione brasiliana, col suo muito, supera la nostra!
- Ferdinand Bardamu
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In questo articolo di M, le magazine du Monde si dice che l’ideatrice del motto fu «Ilon Specht, una giovane redattrice dell’agenzia di pubblicità nuovaiorchese McCann Erickson». Probabilmente ha ragione Lei, ma questo cambia poco: l’influenza inglese sull’italiano è tutta da dimostrare.
Se la versione italiana fosse il frutto d’un errore, perché non supporre piuttosto che il redattore italiano abbia travisato l’originale francese, giacché «because I’m worth it» traduce letteralmente «parce que je le vaux bien» (ammesso che in origine ci sia il francese)? Tuttavia, per quel che ne sappiamo, i traduttori italiano e brasiliano potrebbero aver agito — anzi, direi hanno agito — su precise disposizioni dell’azienda. Non credo proprio che i dirigenti di una multinazionale siano cosí sprovveduti da non capire la differenza tra un accomodante «perché io lo merito» e un vanesio «perché io valgo». O no?
Se la versione italiana fosse il frutto d’un errore, perché non supporre piuttosto che il redattore italiano abbia travisato l’originale francese, giacché «because I’m worth it» traduce letteralmente «parce que je le vaux bien» (ammesso che in origine ci sia il francese)? Tuttavia, per quel che ne sappiamo, i traduttori italiano e brasiliano potrebbero aver agito — anzi, direi hanno agito — su precise disposizioni dell’azienda. Non credo proprio che i dirigenti di una multinazionale siano cosí sprovveduti da non capire la differenza tra un accomodante «perché io lo merito» e un vanesio «perché io valgo». O no?
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In genere quando hai a che fare con messaggi pubblicitari, in prima battuta scarti la traduzione letterale, semplicemente perché quasi sempre non è quella che funziona.
Nella sua prima versione, un motto è ideato da un madre lingua, il quale "gioca" con la lingua. Ovvero, sempre più negli ultimi anni si cerca la frase in cui o un doppio senso, o una suggestione legata al suono di una parola - e questo legame può essere anche irrazionale - mettono in moto un processo evocativo interiore. Il tutto per "colpire", rimanere nella mente e far distinguere "proprio quel" prodotto.
L'obiettivo è quello, e il bravo pubblicitario deve saper tirare la lingua all'estremo - nei limiti della decenza altrimenti crea il giusto rigetto - affinché diventi "altro", si stampi nella mente come "novità" alla pari del prodotto che pubblicizza.
In questo campo, addirittura la sgrammaticatura - a saperla fare bene - funziona. Nel senso che rimane in mente e fa ricordare il prodotto. Sono pochi quelli che non comperano perché la pubblicità non insegna la lingua corretta; la maggioranza ci casca.
Si va così da forme anglo-italiane ("Snackiamoci una Fiesta", che mi faceva venire la pelle d'oca, però ricalcava il modo di parlare dei giovani, a cui si rivolgeva) sino a puri non sensi ("Chi vespa mangia le mele"... e che vuol dire? però ce lo ricordiamo ancora, e con esso la marca e l'immagine dell'oggetto, il che significa che "funzionava").
Questo è quello che è richiesto a un pubblicitario.
Quindi, mi sembra inutile scervellarsi sul fatto che conosca o non conosca l'inglese... mentre il giornalista traduce a spanne perché probabilmente non sa l'inglese, il pubblicitario ricrea una frase simile, per valore emotivo e aspetto grafico (numero di parole e loro lunghezza, la riga che la contiene non può avere proporzioni diverse nelle varie lingue, rispetto all'immagine di fondo), che però funzioni nell'ambito culturale in cui opera, ovvero ottenga effetto col tipo di cliente a cui sirivolge. Che varia da luogo a luogo.
Sarebbe piuttosto interessante indagare perché all'italiano fa più effetto sentirsi dire "Tu vali" mentre al francese è più gradito "Tu lo meriti".
D'altra parte, la meritocrazia l'abbiamo abbattuta a picconate nei decenni scorsi; "meritare" implica un impegno, è selettivo, gioca sul senso di obbedienza alle aspettative di qualcun'altro. Insomma, è un'immagine ambigua.
Mente "tu vali" è un assoluto. Si centra sull'individuo e lo pone al centro. Non è l'osso al cane che ha riportato la ciabatta, bensì è l'inchinarsi e riconoscere una superiorità a cui tutto è dovuto a priori.
Sono due messaggi radicalmente diversi, e non mi meraviglia che in Italia, attualmente, possa essere ritenuto più efficace il secondo.
Con buona pace della lingua, che mai come in questo caso è al servizio del mercato...
Nella sua prima versione, un motto è ideato da un madre lingua, il quale "gioca" con la lingua. Ovvero, sempre più negli ultimi anni si cerca la frase in cui o un doppio senso, o una suggestione legata al suono di una parola - e questo legame può essere anche irrazionale - mettono in moto un processo evocativo interiore. Il tutto per "colpire", rimanere nella mente e far distinguere "proprio quel" prodotto.
L'obiettivo è quello, e il bravo pubblicitario deve saper tirare la lingua all'estremo - nei limiti della decenza altrimenti crea il giusto rigetto - affinché diventi "altro", si stampi nella mente come "novità" alla pari del prodotto che pubblicizza.
In questo campo, addirittura la sgrammaticatura - a saperla fare bene - funziona. Nel senso che rimane in mente e fa ricordare il prodotto. Sono pochi quelli che non comperano perché la pubblicità non insegna la lingua corretta; la maggioranza ci casca.
Si va così da forme anglo-italiane ("Snackiamoci una Fiesta", che mi faceva venire la pelle d'oca, però ricalcava il modo di parlare dei giovani, a cui si rivolgeva) sino a puri non sensi ("Chi vespa mangia le mele"... e che vuol dire? però ce lo ricordiamo ancora, e con esso la marca e l'immagine dell'oggetto, il che significa che "funzionava").
Questo è quello che è richiesto a un pubblicitario.
Quindi, mi sembra inutile scervellarsi sul fatto che conosca o non conosca l'inglese... mentre il giornalista traduce a spanne perché probabilmente non sa l'inglese, il pubblicitario ricrea una frase simile, per valore emotivo e aspetto grafico (numero di parole e loro lunghezza, la riga che la contiene non può avere proporzioni diverse nelle varie lingue, rispetto all'immagine di fondo), che però funzioni nell'ambito culturale in cui opera, ovvero ottenga effetto col tipo di cliente a cui sirivolge. Che varia da luogo a luogo.
Sarebbe piuttosto interessante indagare perché all'italiano fa più effetto sentirsi dire "Tu vali" mentre al francese è più gradito "Tu lo meriti".
D'altra parte, la meritocrazia l'abbiamo abbattuta a picconate nei decenni scorsi; "meritare" implica un impegno, è selettivo, gioca sul senso di obbedienza alle aspettative di qualcun'altro. Insomma, è un'immagine ambigua.
Mente "tu vali" è un assoluto. Si centra sull'individuo e lo pone al centro. Non è l'osso al cane che ha riportato la ciabatta, bensì è l'inchinarsi e riconoscere una superiorità a cui tutto è dovuto a priori.
Sono due messaggi radicalmente diversi, e non mi meraviglia che in Italia, attualmente, possa essere ritenuto più efficace il secondo.
Con buona pace della lingua, che mai come in questo caso è al servizio del mercato...
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