Scilens ha scritto:Dunque la logica da seguire non è detto che metta al primo posto la correttezza linguistica.
Questo è vero in generale, ma, personalmente, dubito che si possa chiamare in causa qualche forma di strategia commerciale. Rimanendo sul vago, direi che le piccole e medie imprese possono (potevano) contare su un bacino d’utenza locale, qualche volta provinciale, altre volte addirittura rionale. Il passaparola può piú di un passaggio in televisione.
C’è poi da aggiungere che spesso queste ditte sono piú concentrate nella loro attività che nel modo in cui pubblicizzarla. Se consideriamo, poi, che molte furono fondate quando la Rete era ancora di là da venire e la pubblicità potevano farla tutt’al piú sui media locali (peraltro secondo uno schema elementare: nome, attività, indirizzo, numero di telefono), capiamo come un meditato studio promozionale sia, se non improbabile, molto difficile.
Credo che l’«intento d’uso», come correttamente lo chiama Lei, sia da ricercarsi altrove. E qui, a questo punto della discussione, ammetto di non avere piú la certezza del mio primo intervento. Attribuire la forma «cognome + nome d’attività» a un influsso inglese è forse fuori luogo: segnalerebbe una malizia eccessiva per la nostra conoscenza dell’inglese.
Ma c’è di piú. Con tutti i manifesti limiti d’una generalizzazione, si possono individuare, in ordine sparso e senza la pretesa d’essere esaustivi, alcuni moventi. Ci potrebbe essere la tendenza a echeggiare l’uso burocratico: il piccolo imprenditore dà alla sua «creatura» il suo nome, seguendo l’ordine degli elementi (cognome, nome) che lui stesso usa per firmarsi. Oppure si vuole mettere in evidenza l’oggetto dell’attività, collocando il cognome in seconda posizione. Oppure ancora, il titolare, per narcisismo o perché il suo nome, in un modo o nell’altro, è noto, mette il suo cognome in bella mostra.
Sia come sia, direi che su una cosa possiamo essere pienamente d’accordo: che la correttezza grammaticale non sia tenuta in gran conto.