Dubbio: non vorrei che...
Moderatore: Cruscanti
Dubbio: non vorrei che...
Salve!
Ho ascoltato la seguente frase:
Non vorrei che quei terreni compromessi dallo sversamento dei rifiuti potrebbero perdere nel tempo il loro reale valore di mercato.
Volevo chiedere se la frase sia grammaticalmente corretta oppure no in relazione al quel "potrebbero" e perché.
E ancora volevo sapere se sia possibile usare altre costruzione magari utilizzando il congiuntivo, specificando al contempo le differenti sfumature tra le eventuali possibilità.
Grazie.
Ho ascoltato la seguente frase:
Non vorrei che quei terreni compromessi dallo sversamento dei rifiuti potrebbero perdere nel tempo il loro reale valore di mercato.
Volevo chiedere se la frase sia grammaticalmente corretta oppure no in relazione al quel "potrebbero" e perché.
E ancora volevo sapere se sia possibile usare altre costruzione magari utilizzando il congiuntivo, specificando al contempo le differenti sfumature tra le eventuali possibilità.
Grazie.
Salve Ortex! 
La frase da lei menzionata è errata, ché, se nella reggente il verbo è al condizionale (in questo caso presente), nella frase secondaria il verbo deve essere al congiuntivo (in questo caso imperfetto). Perciò, si avrà la seguente frase:
Non vorrei che quei terreni compromessi dallo sversamento dei rifiuti potessero perdere nel tempo il loro reale valore di mercato.
In alternativa, potremmo anche usare il congiuntivo presente, cioè:
Non vorrei che quei terreni compromessi dallo sversamento dei rifiuti possano perdere nel tempo il loro reale valore di mercato.
La scelta tra i due tempi dipende da un diverso grado di certezza o di possibilità. Useremmo un congiuntivo presente nel caso in cui il fatto dovesse esser percepito come più probabile. Ricorreremmo a un congiuntivo imperfetto qualora il fatto dovesse apparire più improbabile.

La frase da lei menzionata è errata, ché, se nella reggente il verbo è al condizionale (in questo caso presente), nella frase secondaria il verbo deve essere al congiuntivo (in questo caso imperfetto). Perciò, si avrà la seguente frase:
Non vorrei che quei terreni compromessi dallo sversamento dei rifiuti potessero perdere nel tempo il loro reale valore di mercato.
In alternativa, potremmo anche usare il congiuntivo presente, cioè:
Non vorrei che quei terreni compromessi dallo sversamento dei rifiuti possano perdere nel tempo il loro reale valore di mercato.
La scelta tra i due tempi dipende da un diverso grado di certezza o di possibilità. Useremmo un congiuntivo presente nel caso in cui il fatto dovesse esser percepito come più probabile. Ricorreremmo a un congiuntivo imperfetto qualora il fatto dovesse apparire più improbabile.
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- Interventi: 1303
- Iscritto in data: sab, 06 set 2008 15:30
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- Iscritto in data: sab, 06 set 2008 15:30
Sono un profano anch'io. La mia è solo un'impressione, una questione di gusto – se preferisce –, di prudenza: non usare forme [soprattutto ortografiche] inconsuete, se il contesto non lo richiede e non se ne ha una piena padronanza. Nel caso in questione il ché mi pare un ipercorrettismo, dato che il che svolge benissimo la sua funzione.
La ringrazio del suo contributo! 
Lei sostiene che non si debbano usare forme inconsuete se il contesto non lo richiede. Ma che cosa intende precisamente?
Per esempio, nel filone (aperto dal sottoscritto) riguardante l'uso del ché, il nostro caro Ferdinand ci diceva: "il ché esprime in genere una causa nota". Ora, il fatto che la classe politica non sia un modello da seguire è palese e lapalissiano. Non v'è nulla di nuovo in questa affermazione. Per cui, stando a quel che si è detto, non mi sembra così inconsueto l'uso del ché. Vero è che il nostro Ferdinand teneva a precisare: "proprio della lingua scritta". Ma quale sarebbe questa lingua scritta? Quella dei soli scrittori? Il ché sarebbe allora appannaggio esclusivo di quelle persone che si guadagnano da vivere colla scrittura? Perché, se così fosse, saremmo costretti, noi che scrittori non siamo, a usare il solo che. Invero, a me sembra che il concetto di lingua scritta possa prestarsi a molteplici interpretazioni. La lingua di Dante, Petrarca e Boccaccio non può non esser scritta, ovviamente. Ma, per quel che mi riguarda, anche la lingua usata in quel di Cruscate è un esempio lampante di lingua scritta, poiché noi si scrive in un linguaggio formale e sostenuto.

Lei sostiene che non si debbano usare forme inconsuete se il contesto non lo richiede. Ma che cosa intende precisamente?
Per esempio, nel filone (aperto dal sottoscritto) riguardante l'uso del ché, il nostro caro Ferdinand ci diceva: "il ché esprime in genere una causa nota". Ora, il fatto che la classe politica non sia un modello da seguire è palese e lapalissiano. Non v'è nulla di nuovo in questa affermazione. Per cui, stando a quel che si è detto, non mi sembra così inconsueto l'uso del ché. Vero è che il nostro Ferdinand teneva a precisare: "proprio della lingua scritta". Ma quale sarebbe questa lingua scritta? Quella dei soli scrittori? Il ché sarebbe allora appannaggio esclusivo di quelle persone che si guadagnano da vivere colla scrittura? Perché, se così fosse, saremmo costretti, noi che scrittori non siamo, a usare il solo che. Invero, a me sembra che il concetto di lingua scritta possa prestarsi a molteplici interpretazioni. La lingua di Dante, Petrarca e Boccaccio non può non esser scritta, ovviamente. Ma, per quel che mi riguarda, anche la lingua usata in quel di Cruscate è un esempio lampante di lingua scritta, poiché noi si scrive in un linguaggio formale e sostenuto.
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- Iscritto in data: sab, 06 set 2008 15:30
Ciò è assolutamente vero. A ogni modo, penso vi sia una differenza - seppur non così precipua - tra una frase come Allora stia pure tranquillo, ché i nostri politici non sono certo l'esempio da seguire e mangia, che si sta raffreddando. Mentre nel secondo caso il ché sarebbe inconsueto, giacché la proposizione è l'esempio palmare d'un discorso colloquiale tra - per esempio - madre e figlio, nel primo caso, per converso, ci troviamo dinnanzi a una frase che, sebbene non abbia nulla a che fare con uno stile letterario e/o poetico, denota una certa formalità, ravvisabile - quest'ultima - nel registro di lingua usato, che è lungi dall'esser familiare.PersOnLine ha scritto:Perché il ché, più che della lingua scritta, è dello stile letterario
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