Del problema degli adattamenti
Moderatore: Cruscanti
Del problema degli adattamenti
Stavo facendo tutt'altro, quando all'improvviso m'è balenato in mente un pensiero che s'è subito tramutato in considerazione, indi in costatazione: "Si scrive Berlino ma rimane Wolfsburg. Si scrive Londra ma rimane Manchester". Da che cosa dipende il fatto che i nomi di alcune città straniere siano stati adattati e altri no? Da motivi di prestigio storico-culturali? Dal fatto che alcuni di essi si prestano piú facilmente all'adattamento che non gli altri? Quest'ultimi saranno mai adeguabili alle strutture della nostra lingua o sarà ardua impresa quella d'adattare nomi alla stregua di Mönchengladbach e simili?
- Ferdinand Bardamu
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Notorietà, prestigio culturale o politico (o entrambi), contatti commerciali, forse pure consuetudine che si mantiene (o decade). Oggi non si creano piú nuovi esonimi: si tende anzi a mantenere, per quanto possibile, la denominazione della città o del Paese nella lingua originale o nella traslitterazione inglese, se scritta con alfabeti diversi dal latino. Quanto alla consuetudine non piú seguíta — forse conseguenza d’un’importanza perduta e poi riacquistata di recente —, credo che quello di Bruxelles / Brusselle / Borsella sia un esempio abbastanza eloquente.
Vi ringrazio dei contributi. 
Quel che mi interesserebbe sapere, in verità, è se voi ritenete sia cosa buona e giusta quella di non adattare tutte le città esistenti. Io penso vi sia un limite a tutto. Adattare i nomi delle città straniere risulterebbe impossibile per ragioni meramente pratiche (ve ne sono troppe!); alcune di esse, poi, son forse inadattabili per natura (vedi Mönchengladbach). Qual è la vostra opinione in merito?

Quel che mi interesserebbe sapere, in verità, è se voi ritenete sia cosa buona e giusta quella di non adattare tutte le città esistenti. Io penso vi sia un limite a tutto. Adattare i nomi delle città straniere risulterebbe impossibile per ragioni meramente pratiche (ve ne sono troppe!); alcune di esse, poi, son forse inadattabili per natura (vedi Mönchengladbach). Qual è la vostra opinione in merito?
Perché no? Monaco sul Canale (Gladbach da gelegen/liegend Bach).Ivan92 ha scritto: alcune di esse, poi, son forse inadattabili per natura (vedi Mönchengladbach).

Sono nettamente contrario all'adattamento dei coronimi e toponimi (perché non si adattano anche gli antroponimi, allora?), per ragioni di riconoscibilità, per ragioni di rispetto e soprattutto perché... non ce n'è ragione!
E ne sono ancora più convinto da quando ho sentito qualcosa come "pauntiveccìo" per Ponte Vecchio.

E ne sono ancora più convinto da quando ho sentito qualcosa come "pauntiveccìo" per Ponte Vecchio.

- Ferdinand Bardamu
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Intende qualcosa come Carlo Marx, Volfango Mozart e Federico Nietzsche?Scilens ha scritto:… perché non si adattano anche gli antroponimi, allora?
Giulio Verne (di fatto si è italianizzato il nome e si pronuncia all'italiana anche il cognome), Giovanni Acuto, Giovanni Keplero (qui ci siamo fermati un po' a metà)...Ferdinand Bardamu ha scritto:Intende qualcosa come Carlo Marx, Volfango Mozart e Federico Nietzsche?
Ma in passato anche le altre lingue facevano lo stesso: Boccace, Petrarch, Nicolás Maquiavelo...
Ha ragione, il mio è stato un giudizio troppo avventato. Chiedo venia!Carnby ha scritto:Perché no? Monaco sul Canale (Gladbach da gelegen/liegend Bach).

Scilens ha ben esplicitato quel che penso anch'io (per quel che concerne gli antroponimi, soprattutto). Son dell'opinione che i nomi debbano sempre essere adattati ammesso che essi ci accompagnino e ci stiano accanto nella vita di tutti giorni. L'adattamento d'antroponimi o toponimi possiede piú i connotati d'un mero esperimento ludico, d'un esercizio linguistico adatto a pochi iniziati. Non sembra risponda a reali esigenze di comunicazione.
- Ferdinand Bardamu
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I francesi non si peritano di adattare tuttora, almeno parzialmente, i cognomi stranieri alla loro grafia: Vladimir Poutine (in questo caso, l’adattamento è necessario a evitare spiacevoli omofonie), Boris Eltsine, Piotr Tchaïkovski.
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Gli adattamenti dal cirillico, secondo me, non fanno testo. Diciamo che loro traslitterano Tchaikovski per rendere degli specifici suoni che nel nostro alfabeto mancano.
Al di là di tutte le regole linguistiche, secondo me la questione è concettuale.
Un nome proprio è un nome proprio, e basta.
Ovvero "appartiene" a chi è designato con esso. A chi lo ha come significante unico e univoco.
Avere un "nome proprio" che in realtà muta con i km che si percorrono è come una perdita di identità. Ben lo sapevano le antiche culture per le quali il nome che rappresentava l'individuo rimaneva segreto, noto solo a lui e al suo spirito-guida. Perché il nome E' la persona o il luogo.
Questo a livello di "sentire inconscio", a livello di archetipi.
E' lo stesso meccanismo per cui i dotti medievali e della prima età moderna amavano latinizzare il nome: perché facevano parte di un'unica comunità culturale (mi verrebbe il termine greco, molto più specifico, ma uso il traducente che è altrettanto chiaro: considerate che equivalga al termine tecnico), estesa attraverso tutta l'Europa, e contrapposta in un certo senso al "mondo esterno", non cristiano prima, e non "classico" successivamente. E quindi sceglievano di chiamarsi nella lingua che tutti loro comprendevano e che li accomunava rispetto agli altri. Il nome proprio, unico, di chi appartiene a un mondo latino-parlante, non poteva che essere latino.
Il dato più razionale è che, quando un nome comune passa a indicare un individuo o un luogo specifico - divenendo per esso nome proprio - il suo significato cambia radicalmente.
Ovvero, non indica più l'oggetto generico e molteplice, ma uno e un solo individuo/luogo.
Se dico Shakespeare, intendo esattamente il signor Shakespeare, qualunque sia la sua effettiva attività, e non un generico "scuotitore di lancia" che posso trovare sul mercato; perché in quella comunicazione non mi interessa parlare di uno scuotitore di lancia, bensì dell'unico grande scrittore individuato fra gli altri da quel nome proprio.
Il traduttore deve interpretare l'informazione, rivestendola di una forma che il ricevento possa riconoscere e capire, ma sempre rispettando l'intenzione dell'emittente.
Ora, se come traduttore da un testo inglese passo al ricevente l'informazione "Francesco Pancetta" o "Francesco Prosciutto" (e qui già occorre mettersi d'accordo sul traducente più preciso, consultanto gli esperti di etnogastronomia, e, soprattutto, scegliere poi uno dei due, e uno solo, sempre), questi riconosce e capisce esattamente il concetto che gli viene comunicato, un qualche salume di maiale.
Che non corrisponde assolutamente, o che non gli fa venire in mente, il personaggio oggetto della comunicazione. Nè tantomeno viene rispettata l'intenzione del comunicatore, che non aveva assolutamente in testa un salume (analogamente a quando dico a un inglese "Giuseppe Verdi", non sto assolutamente pensando ad alcunché di "green", e il signor Giuseppe compositore me lo immagino rosato con i capelli bianchi... quell'immagine voglio che "passi" al ricevente, non altro, né tantomeno quella di una specie di ranocchio).
In questi casi, quindi, la comunicazione stessa diviene infelice, non va a buon fine.
Se mantengo invece la forma originaria, ormai dimostratamente indipendente dal primitivo significato, la chiarezza della comunicazione è molto maggiore, senza ombra di dubbi.
Piuttosto, occorrerà concordare le traslitterazioni dagli altri alfabeti.
Al di là di tutte le regole linguistiche, secondo me la questione è concettuale.
Un nome proprio è un nome proprio, e basta.
Ovvero "appartiene" a chi è designato con esso. A chi lo ha come significante unico e univoco.
Avere un "nome proprio" che in realtà muta con i km che si percorrono è come una perdita di identità. Ben lo sapevano le antiche culture per le quali il nome che rappresentava l'individuo rimaneva segreto, noto solo a lui e al suo spirito-guida. Perché il nome E' la persona o il luogo.
Questo a livello di "sentire inconscio", a livello di archetipi.
E' lo stesso meccanismo per cui i dotti medievali e della prima età moderna amavano latinizzare il nome: perché facevano parte di un'unica comunità culturale (mi verrebbe il termine greco, molto più specifico, ma uso il traducente che è altrettanto chiaro: considerate che equivalga al termine tecnico), estesa attraverso tutta l'Europa, e contrapposta in un certo senso al "mondo esterno", non cristiano prima, e non "classico" successivamente. E quindi sceglievano di chiamarsi nella lingua che tutti loro comprendevano e che li accomunava rispetto agli altri. Il nome proprio, unico, di chi appartiene a un mondo latino-parlante, non poteva che essere latino.
Il dato più razionale è che, quando un nome comune passa a indicare un individuo o un luogo specifico - divenendo per esso nome proprio - il suo significato cambia radicalmente.
Ovvero, non indica più l'oggetto generico e molteplice, ma uno e un solo individuo/luogo.
Se dico Shakespeare, intendo esattamente il signor Shakespeare, qualunque sia la sua effettiva attività, e non un generico "scuotitore di lancia" che posso trovare sul mercato; perché in quella comunicazione non mi interessa parlare di uno scuotitore di lancia, bensì dell'unico grande scrittore individuato fra gli altri da quel nome proprio.
Il traduttore deve interpretare l'informazione, rivestendola di una forma che il ricevento possa riconoscere e capire, ma sempre rispettando l'intenzione dell'emittente.
Ora, se come traduttore da un testo inglese passo al ricevente l'informazione "Francesco Pancetta" o "Francesco Prosciutto" (e qui già occorre mettersi d'accordo sul traducente più preciso, consultanto gli esperti di etnogastronomia, e, soprattutto, scegliere poi uno dei due, e uno solo, sempre), questi riconosce e capisce esattamente il concetto che gli viene comunicato, un qualche salume di maiale.
Che non corrisponde assolutamente, o che non gli fa venire in mente, il personaggio oggetto della comunicazione. Nè tantomeno viene rispettata l'intenzione del comunicatore, che non aveva assolutamente in testa un salume (analogamente a quando dico a un inglese "Giuseppe Verdi", non sto assolutamente pensando ad alcunché di "green", e il signor Giuseppe compositore me lo immagino rosato con i capelli bianchi... quell'immagine voglio che "passi" al ricevente, non altro, né tantomeno quella di una specie di ranocchio).
In questi casi, quindi, la comunicazione stessa diviene infelice, non va a buon fine.
Se mantengo invece la forma originaria, ormai dimostratamente indipendente dal primitivo significato, la chiarezza della comunicazione è molto maggiore, senza ombra di dubbi.
Piuttosto, occorrerà concordare le traslitterazioni dagli altri alfabeti.
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- Iscritto in data: ven, 13 apr 2012 9:09
Non credo che arrivino. La complicazione degli affari semplici esula dalle urgenze linguistiche e credo che siano ben pochi coloro che si augurano di sentir chiamare Mastretto Maastricht.domna charola ha scritto:Ora attendo le bastonate...

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