Ecco il collegamento alla pagina dell'Enciclopedia Treccani dove si legge che dove genera RF a Roma, ma non a Firenze http://www.treccani.it/enciclopedia/rad ... 'Italiano)In condizioni fonologico-prosodiche fondamentalmente affini, romanesco (➔ Roma, italiano di) e toscano (➔ toscani, dialetti) si differenziano nei morfemi che inducono raddoppiamento sintattico: ad es., gli imperativi monosillabici fa’, va’, sta’ sono rafforzanti nel romanesco, ma non nel fiorentino; da non rafforza a Roma, mentre lo fa dove, che invece non induce raddoppiamento a Firenze.
Ancora sul raddoppiamento fonosintattico
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RF dopo "dove"
Avevo segnalato qui lo stesso articolo dell'Enciclopedia dell'Italiano giusto tre giorni fa.
Quindi cogemina. Mentre a Roma no: «'ndo vai?».Carnby ha scritto:[D]a me si dice «in do' ttu ssei».
Oggi com'oggi non si sente dire dieci parole, cinque delle quali non sieno o d'oltremonte o nuove, dando un calcio alle proprie e native. (Fanfani-Arlìa, 1877)
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Da noi cogeminano entrambe: /indu'vvai/ o /ndu'vvai/. Dove, invece, non provoca raddoppiamento.Zabob ha scritto:Quindi cogemina. Mentre a Roma no: «'ndo vai?».
Pur essendo un'apocope?Infarinato ha scritto:Certo che raddoppia!
Oggi com'oggi non si sente dire dieci parole, cinque delle quali non sieno o d'oltremonte o nuove, dando un calcio alle proprie e native. (Fanfani-Arlìa, 1877)
Logico. Nemmeno da me, sia per le stesse ragioni, sia perché non deriva affatto da de ubi. E anche se fosse non c'è nessuna apocope o elisione.Carnby ha scritto:Dove da me generalmente non provoca raddoppiamento, ma è una voce «esotica», da me si dice «in do' ttu ssei».
Saluto gli amici, mi sono dimesso. Non posso tollerare le contraffazioni.
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Non sarebbe la prima apocope a innescare il raddoppiamento fonosintattico: piè, [a] mo’ [di], fra (< frate), diè, fé (< fede o fece), pro’, pre’ e, forse piú opportunamente, le apocopi aplologiche città, virtú etc.Zabob ha scritto:Pur essendo un'apocope?Infarinato ha scritto:Certo che raddoppia!Zabob ha scritto: Quindi cogemina.
Ma soprattutto indò (apocope di indove) è un polisillabo tronco, per cui il raddoppiamento dopo di esso è automatico in fiorentino/toscano, rientrando fra le forme che senza eccezioni presentano «raddoppiamento fonosintattico regolare», appunto (classe 1a).
Gli unici polisillabi ossitoni non raddoppianti sono quelli derivanti da «apocope toscana», cioè dalla cancellazione di [i̯] (lege: «[i] asillabica») in contesto non prepausale, e.g.: vorre’ < vorrei.
Tornando «a bomba», tutti i manuali e i dizionari ortoepici seri danno dove raddoppiante a Firenze, dove che invece non raddoppia proprio a Roma (cfr. DiPI) e, in alcuni contesti, a Siena (cfr. Giannelli 2000:54) etc.
Mi chiedo se non sia talora lecito un rafforzamento in situazioni non previste dalle regole della fonosintassi: nella fattispecie, mi sembra che raddoppiare la consonante iniziale di una parola, in certi contesti, possa servire a dare enfasi e "colore" al discorso.
Ho pensato a ciò guardando un vecchio film: a un certo punto l'attrice (o, più probabilmente, una doppiatrice) esclama «siete ccapre, siete ppecore!». Trovo che venga quasi naturale usare un raddoppiamento in un caso come questo, gli epìteti ne guadagnano in espressività (in fondo, non è importante tanto quel che si dice ma come lo si dice).
Altri esempi che mi vengono in mente sono «pezzo di mm***a», «vieni (subito) qqui», «ti (o te lo) ggiuro»: non trovate che rafforzare una consonante contribuisca, secondo i casi, a rafforzare la veemenza dell'insulto, l'imperiosità dell'ordine o l'assertività del giuramento?
Ho pensato a ciò guardando un vecchio film: a un certo punto l'attrice (o, più probabilmente, una doppiatrice) esclama «siete ccapre, siete ppecore!». Trovo che venga quasi naturale usare un raddoppiamento in un caso come questo, gli epìteti ne guadagnano in espressività (in fondo, non è importante tanto quel che si dice ma come lo si dice).
Altri esempi che mi vengono in mente sono «pezzo di mm***a», «vieni (subito) qqui», «ti (o te lo) ggiuro»: non trovate che rafforzare una consonante contribuisca, secondo i casi, a rafforzare la veemenza dell'insulto, l'imperiosità dell'ordine o l'assertività del giuramento?
Oggi com'oggi non si sente dire dieci parole, cinque delle quali non sieno o d'oltremonte o nuove, dando un calcio alle proprie e native. (Fanfani-Arlìa, 1877)
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No capisco bene cosa c’entri con quanto s’è detto finora, ma siamo sempre in tema, quindi proseguiamo pure…Zabob ha scritto:Mi chiedo se non sia talora lecito un rafforzamento in situazioni non previste dalle regole della fonosintassi: nella fattispecie, mi sembra che raddoppiare la consonante iniziale di una parola, in certi contesti, possa servire a dare enfasi e "colore" al discorso.
Sí, qui ci troviamo difronte forse piú a dei [kʰ, pʰ] che a dei veri [kː, pː], ma, certo, ortologicamente/pragmaticamente «ci stanno».Zabob ha scritto:Ho pensato a ciò guardando un vecchio film: a un certo punto l'attrice (o, più probabilmente, una doppiatrice) esclama «siete ccapre, siete ppecore!».
Qui, invece, non siamo punto d’accordo. Codesti sono raddoppiamenti tipici d’un italiano che potremmo definire genericamente centromeridionale (Toscana esclusa), segnatamente della pronuncia «regionale» romana (il primo, che è estraneo all’italiano toscano anche lessicalmente, è una «pregeminazione» espressiva ormai lessicalizzata; il secondo una pregeminazione etimologicamente giustificata [all’interno del diasistema centromeridionale non toscano]; il terzo, invece, è un esempio di «autogeminazione» centromeridionale del [ʤ] intervocalico, che colpisce anche il [b], laddove il toscano avrebbe un [ʒ] scempio).Zabob ha scritto:Altri esempi che mi vengono in mente sono «pezzo di mm***a», «vieni (subito) qqui», «ti (o te lo) ggiuro»: non trovate che rafforzare una consonante contribuisca, secondo i casi, a rafforzare la veemenza dell'insulto, l'imperiosità dell'ordine o l'assertività del giuramento?
Ci abbiamo ormai fatto un po’ «il callo» a questi «raddoppiamenti impropri», visto che molti attori e doppiatori sono romani, ma è bene sottolineare che essi non fanno parte dell’italiano neutro, né tradizionale né «moderno» (cfr. MªPI & DiPI).
In effetti, nulla, ma non volevo aprire un filone apposta per una semplice osservazione su quello che mi sembrava un fatto "enfatico".Infarinato ha scritto:No capisco bene cosa c’entri con quanto s’è detto finora...
Quindi, se sento un italiano del Nord (e càpita) dire «ti ggiuro», devo sospettare che sia influenzato da cinema e (forse soprattutto) TV? Magari gli chiederò di pronunciare «dammi la busta» o «quanta gente!»: se rinforza, ne avrò la conferma.Infarinato ha scritto:Ci abbiamo ormai fatto un po’ «il callo» a questi «raddoppiamenti impropri», visto che molti attori e doppiatori sono romani, ma è bene sottolineare che essi non fanno parte dell’italiano neutro, né tradizionale né «moderno» (cfr. MªPI & DiPI).
Oggi com'oggi non si sente dire dieci parole, cinque delle quali non sieno o d'oltremonte o nuove, dando un calcio alle proprie e native. (Fanfani-Arlìa, 1877)
Ma la mi' mamma dice «'ndo sei?» senza raddoppiamento, quindi credo che sia la forma originaria della zona dove sto io.Scilens ha scritto: Nemmeno da me, sia per le stesse ragioni, sia perché non deriva affatto da de ubi. E anche se fosse non c'è nessuna apocope o elisione.
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In caso contrario, è probabile che quel "ggiuro" fosse semplicemente una pronuncia enfatica. Mi pare poco probabile che uno del Nord abbia assimilato quest'autogeminazione (a me non sembra di sentirne, per lo meno in Romagna).Zabob ha scritto:Quindi, se sento un italiano del Nord (e càpita) dire «ti ggiuro», devo sospettare che sia influenzato da cinema e (forse soprattutto) TV? Magari gli chiederò di pronunciare «dammi la busta» o «quanta gente!»: se rinforza, ne avrò la conferma.
O forse una via di mezzo: l'ha copiata da attori e doppiatori mediani-meridionali (quindi non dice "ti ddico"), ma la usa solo in tono enfatico.
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Zabob ha scritto:In effetti, nulla, ma non volevo aprire un filone apposta per una semplice osservazione su quello che mi sembrava un fatto "enfatico".
Marco1971 ha scritto:Mi sembra il caso di riproporre qui ciò che trascrissi (aiutato da Infarinato) nel forum della Crusca (filone Cadenze assurde) poco piú d’un anno fa. L’articolo, di Giuliano Bonfante e Giovanni Torti, apparve negli Studi Linguistici Italiani (20, 1994, pp. 119-122), col titolo Il problema della corretta pronuncia nel doppiaggio cinematogràfico italiano.Ed è un peccato anche dal punto di vista della recitazione, che à tutto da guadagnare da una maggiore presenza nella frase di consonanti forti (a parte la norma della lingua nazionale che impone di rafforzare la consonante iniziale della parola che segue a dove, alcune volte il rafforzamento permette di raggiúngere una piú forte intensità drammàtica, e conseguentemente un livello artistico piú alto: per esempio in battute concitate come «Dove sei», «Dimmi dove sei», che dèvono essere pronunciate «Dove ssei », «Dimmi dove ssei »).
Il DOP accetta anche la pronuncia senza raddoppiamento, ma quella con RF è sempre preferibile. Stesso discorso per sopra.Carnby ha scritto:Dove da me generalmente non provoca raddoppiamento, ma è una voce «esotica», da me si dice «in do' ttu ssei».
Però da me la pronuncia «tradizionale» di do' (dove) e sopra è senza RF.fiorentino90 ha scritto:Il DOP accetta anche la pronuncia senza raddoppiamento, ma quella con RF è sempre preferibile. Stesso discorso per sopra.
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