«Questo inglese non s’ha da dire», Venerdì di Repubblica
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«Questo inglese non s’ha da dire», Venerdì di Repubblica
Nel numero del Venerdí di Repubblica dello scorso 16 ottobre è comparso un servizio sul volume della Crusca La lingua italiana e le lingue romanze di fronte agli anglicismi, che riassume il convegno omonimo tenutosi a febbraio. Il pezzo contiene, come ci potevamo aspettare, opinioni in libertà e banalizzazioni, ma ha per lo meno il merito di far pubblicità a un’iniziativa meritevole.
Ora, siccome provo gusto a criticare, vi espongo le mie osservazioni. Nel sommario il titolista ci tiene a sottolineare che sí, lamentarsi degli anglicismi va bene, ma meglio non esporsi troppo, sennò ci si becca la taccia di fascisti. Sappiamo bene che il rischio che corriamo è questo, che, nell’opinione (superficiale) degl’italiani colti, chi difende l’italiano è quanto meno un criptofascista; ma permettetemi di rammaricarmi di questo paralogismo duro a morire. Per quanto uno si sgoli a precisare che non vuole imporre nulla a nessuno, ci sarà sempre qualcuno che adombra questo sospetto.
Nell’infografica in basso nella prima pagina, tra gli anglicismi «difficilmente sostituibili», si trova anche big. Davvero? E fra un po’ dovremmo metterci anche good?
Nel corpo del testo si legge: «[Ci sono degli anglicismi] che hanno messo radici profonde come trend (più efficace di tendenza, ammettiamolo)». Ehm, non capisco sulla base di che cosa dovremmo ammettere la maggiore efficacia di trend: non ricorda, signora Arletti, Palombella Rossa, «trend… trend negativo! Io non parlo cosí!»? E poi come si fa a dire che trend ha messo «radici profonde»? Forse si tratta di un pregiudizio (o bias?) dovuto a un uso personale?
Non poteva mancare il riferimento alla «ridicolaggine» dei traducenti proposti durante il periodo fascista. Ora, siamo tutti d’accordo nel condannare il dirigismo linguistico, soprattutto perché è inefficace. Capisco anche che, per ragioni di spazio, non si potesse articolare il discorso. Ma sulla labilità e relatività del concetto di ridicolo non credo ci siano dubbi.
A voi ulteriori considerazioni.
Ora, siccome provo gusto a criticare, vi espongo le mie osservazioni. Nel sommario il titolista ci tiene a sottolineare che sí, lamentarsi degli anglicismi va bene, ma meglio non esporsi troppo, sennò ci si becca la taccia di fascisti. Sappiamo bene che il rischio che corriamo è questo, che, nell’opinione (superficiale) degl’italiani colti, chi difende l’italiano è quanto meno un criptofascista; ma permettetemi di rammaricarmi di questo paralogismo duro a morire. Per quanto uno si sgoli a precisare che non vuole imporre nulla a nessuno, ci sarà sempre qualcuno che adombra questo sospetto.
Nell’infografica in basso nella prima pagina, tra gli anglicismi «difficilmente sostituibili», si trova anche big. Davvero? E fra un po’ dovremmo metterci anche good?
Nel corpo del testo si legge: «[Ci sono degli anglicismi] che hanno messo radici profonde come trend (più efficace di tendenza, ammettiamolo)». Ehm, non capisco sulla base di che cosa dovremmo ammettere la maggiore efficacia di trend: non ricorda, signora Arletti, Palombella Rossa, «trend… trend negativo! Io non parlo cosí!»? E poi come si fa a dire che trend ha messo «radici profonde»? Forse si tratta di un pregiudizio (o bias?) dovuto a un uso personale?
Non poteva mancare il riferimento alla «ridicolaggine» dei traducenti proposti durante il periodo fascista. Ora, siamo tutti d’accordo nel condannare il dirigismo linguistico, soprattutto perché è inefficace. Capisco anche che, per ragioni di spazio, non si potesse articolare il discorso. Ma sulla labilità e relatività del concetto di ridicolo non credo ci siano dubbi.
A voi ulteriori considerazioni.
- Ferdinand Bardamu
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A lasciarmi perplesso è proprio la politicizzazione di un argomento che dovrebbe essere trasversale. È vero che il fascismo combatté i forestierismi, ma lo fece per motivi del tutto differenti rispetto a quelli che spingono noi e i promotori di iniziative come #Dilloinitaliano. Buttandola in politica (e, di conseguenza, spesso anche in vacca), si polarizza il dibattito e s’impedisce una discussione serena.
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Nel suo intervento, Perché in Italia si è tanto propensi ai forestierismi?, Claudio Marazzini fa alcune [abbastanza interessanti] considerazioni a questo riguardo, purtoppo io ho acquistato la copia cartacea e copiare quello che scrive, non ho tempo adesso. Magari qualcuno che ha comprato la versione elettronica del volume troverà il modo di riportare - o dovrei piuttosto scrivere postare?
- i paragrafi pertinenti (una pagina o giù di lì in tutto).

- Ferdinand Bardamu
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L’intervento del professor Marazzini si può ascoltare su YouTube.
Grazie, caro Ferdinand, del collegamento. Non intendo commentare tutto; comincio con due considerazioni piú o meno fuori tema : 1) l’esposizione non mi è parsa d’una chiarezza cristallina e questo è anche in parte dovuto a 2) un eloquio e una pronuncia non proprio esemplari. Ma questo, naturalmente, è soggettivo.
Per quanto riguarda il contenuto, quel che mi ha ridato un raggio di speranza è quello che viene detto verso la fine: cioè che il linguista, senza imporre, potrebbe comunque consigliare. E siccome è citato di sfuggita il linguista danese Otto Jespersen, ne approfitto, a beneficio dei nuovi utenti soprattutto, per riproporre una volta ancora la citazione non letta nell’intervento del professor Marazzini, leggibile qui. E con questo ho concluso.
Per quanto riguarda il contenuto, quel che mi ha ridato un raggio di speranza è quello che viene detto verso la fine: cioè che il linguista, senza imporre, potrebbe comunque consigliare. E siccome è citato di sfuggita il linguista danese Otto Jespersen, ne approfitto, a beneficio dei nuovi utenti soprattutto, per riproporre una volta ancora la citazione non letta nell’intervento del professor Marazzini, leggibile qui. E con questo ho concluso.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Re: «Questo inglese non s’ha da dire», Venerdì di Repubblica
È la cara, vecchia reductio ad Hitlerum (Ferdinand Bardamu ha scritto:Nel sommario il titolista ci tiene a sottolineare che sí, lamentarsi degli anglicismi va bene, ma meglio non esporsi troppo, sennò ci si becca la taccia di fascisti. Sappiamo bene che il rischio che corriamo è questo, che, nell’opinione (superficiale) degl’italiani colti, chi difende l’italiano è quanto meno un criptofascista; ma permettetemi di rammaricarmi di questo paralogismo duro a morire.

*Ovviamente volevo fare dell'ironia: non esistono altri forum come il nostro!
«Ed elli avea del cool fatto trombetta». Anonimo del Trecento su Miles Davis
«E non piegherò certo il mio italiano a mere (e francamente discutibili) convenienze sociali». Infarinato
«Prima l'italiano!»
«E non piegherò certo il mio italiano a mere (e francamente discutibili) convenienze sociali». Infarinato
«Prima l'italiano!»
- Ferdinand Bardamu
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Il professore, proprio in esordio del suo intervento, dice che il traducente che l’Accademia d’Italia sostenne per sostituire cocktail, arlecchino, è citato spesso come esempio della (supposta) ridicolaggine delle proposte di surroga dei forestierismi. Eppure, ricorda Marazzini, la parola venne suggerita da Bacchelli e prima ancora da Migliorini.
Mi ha molto colpito il giudizio del professore sull’italiano d’oggi. Ve lo trascrivo:
Gl’italiani, dice Marazzini, sono poco propensi a prendersi cura della propria lingua perché con essa hanno poca confidenza, perché manca un consenso nazionalpopolare, perché manca il senso della dignità della propria nazione, mancanza incolmabile ormai per il continuo aleggiare dello spettro del fascismo. A tutto ciò si aggiunge poi la tendenza dei politici a manipolare il linguaggio, nell’illusione che cambiando le parole si possano cambiare le cose. L’italiano, conclude il professore, non è una lingua davvero amata dai suoi parlanti.
Ha confortato anche me la chiusa del discorso, nella quale Marazzini cita Contini riguardo alla possibilità di «saltare il fosso» e cominciare a dar consigli linguistici. Poi, però, leggo su Facebook commenti superficiali, banali, semplicistici, ingenuamente filoneisti come quelli a quest’intervento della Crusca e torno a rabbuiarmi.
Mi ha molto colpito il giudizio del professore sull’italiano d’oggi. Ve lo trascrivo:
- L’italiano resta, a mio giudizio, una lingua d’occasione, una lingua impopolare, una lingua culturale elitaria, con spiccata propensione alla produzione artistica.
Gl’italiani, dice Marazzini, sono poco propensi a prendersi cura della propria lingua perché con essa hanno poca confidenza, perché manca un consenso nazionalpopolare, perché manca il senso della dignità della propria nazione, mancanza incolmabile ormai per il continuo aleggiare dello spettro del fascismo. A tutto ciò si aggiunge poi la tendenza dei politici a manipolare il linguaggio, nell’illusione che cambiando le parole si possano cambiare le cose. L’italiano, conclude il professore, non è una lingua davvero amata dai suoi parlanti.
Ha confortato anche me la chiusa del discorso, nella quale Marazzini cita Contini riguardo alla possibilità di «saltare il fosso» e cominciare a dar consigli linguistici. Poi, però, leggo su Facebook commenti superficiali, banali, semplicistici, ingenuamente filoneisti come quelli a quest’intervento della Crusca e torno a rabbuiarmi.

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È interessante [ri]leggere la voce Cocktail in Barbaro dominio di Paolo Monelli, che come si sa, cercava di adattare quanto più possibile e si oppose addirittura a regista quando introdotto da Migliorini perché non lo trovava ben formato (diceva che era un vocabolo ibrido, e meglio sarebbe stato reggitore).Ferdinand Bardamu ha scritto:Il professore, proprio in esordio del suo intervento, dice che il traducente che l’Accademia d’Italia sostenne per sostituire cocktail, arlecchino, è citato spesso come esempio della (supposta) ridicolaggine delle proposte di surroga dei forestierismi. Eppure, ricorda Marazzini, la parola venne suggerita da Bacchelli e prima ancora da Migliorini.
Ebbene, Monelli dice che era meglio che cocktail rimanesse cocktail, perché tale mistura era indiscutibilmente una creazione degli americani. (Scrive anche che chi voleva usare arlecchino per cocktail probabilmente non aveva mai non solo non bevuto, ma visto un cocktail.) Dice Monelli fra l'altro "...come ci dorrebbe vedere gli americani cercare un termine anglo-americano per spaghetti, così continuiamo pure a dire cocktail; e se è vero, come taluni opinano, che codeste siano misture barbare e dannose alla salute dell'anima e del corpo, ebbene, il nemico teniamolo vestito da nemico, non camuffiamolo da amabile bergamasco."
Che è un altro modo, più divertente, di parlare della monoreferenzialità e altre cose noiose discusse a iosa in questa piazza.

Nel complesso l'articolo è gustoso, e consiglio anche la lettura del libro. (Si tenga presente che la maggior parte delle voci discusse sono francesi, perché a quel tempo l'influsso del francese era più forte dell'inglese, parliamo degli anni Trenta.)
Ultima modifica di Freelancer in data gio, 29 ott 2015 3:41, modificato 1 volta in totale.
Tra parentesi e in punta di piedi, il cocktail sarà pure una creazione americana, ma, come diceva Migliorini, quando una cosa diventa di uso comune ovunque, è bene che trovi un nome nella lingua d'arrivo. E tra cocktail e spaghetti/paella/sushi c'è una bella differenza concettuale, a mio avviso: non si tratta di una specialità ma di diversi tipi di miscela.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Chissà se a livello dialettale esiste già da qualche parte un termine per una mescolanza di sostanze alcoliche o non alcoliche.Marco1971 ha scritto:Tra parentesi e in punta di piedi, il cocktail sarà pure una creazione americana, ma, come diceva Migliorini, quando una cosa diventa di uso comune ovunque, è bene che trovi un nome nella lingua d'arrivo.
Non sono del tutto convinto dell'efficacia di un provvedimento del genere a livello costituzionale, che tra l'altro rischierebbe di essere discriminatorio nei confronti dei cittadini italiani di lingua materna differente dall'italiano (tedesco, francoprovenzale ecc.). Più «corretto» giuridicamente potrebbe essere stabilire che le leggi e i provvedimenti debbano essere scritti in italiano (e pubblicare una grammatica e un vocabolario ufficiale a uso giuridico), fermo restando che nell'uso corrente ognuno è libero di usare le parole che vuole.PersOnLine ha scritto:Apprendo che la decisione del PoliMi è al vaglio della Corte Suprema, speriamo si rendano conto dell'importanza che avrà la loro decisione, perché è l'occasione per sancire l'ufficialità della lingua nazionale anche sul piano costituzionale.
- Freelancer
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Dice Monelli nello stesso articolo: zozza (termine popolare toscano), che precede di gran lunga cocktail.Carnby ha scritto:Chissà se a livello dialettale esiste già da qualche parte un termine per una mescolanza di sostanze alcoliche o non alcoliche.Marco1971 ha scritto:Tra parentesi e in punta di piedi, il cocktail sarà pure una creazione americana, ma, come diceva Migliorini, quando una cosa diventa di uso comune ovunque, è bene che trovi un nome nella lingua d'arrivo.
Il problema è che zozza ha una connotazione negativa... 

Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Chi c’è in linea
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