Prescindendo da una specifica parlata locale - su cui preferisco non esprimermi -, si può notare che, in generale, quando i lessici delle più svariate varietà linguistiche liguri propongono per
pecundria /pe'kuŋdrja/ il traducente italiano
ipocondria, ciò avviene a seguito di un'attitudine improntata a pigrizia e deriva dall'aver fatto funzionare gli orecchi piuttosto che risultare conseguenza di un'effettiva conoscenza specifica del significato tradizionale.
Per quanto nessuno, ovviamente, possa porre in discussione l'etimo, il significato tradizionale delle parlate liguri non corrisponde a quello del disturbo attualmente classificato quale
disturbo da ansia da malattia (che può anche essere in comorbidità col
disturbo da sintomi somatici qualora, effettivamente, qualcuno di questi possa risultare davvero presente).
Infatti, il significato tradizionale verte su turbe o
disturbi dell'umore - categoria che, per quanto assai ampia, non include l'ipocondria - e non implica il riferimento a manifestazioni specifiche di patofobia (caratteristica fondamentale del disturbo anche in assenza di sintomi di malattia concreti).
Ho consultato, ad es., un piccolo lessico ventimigliese, il quale riporta come primo significato
malinconia, ma riferisce come seconda accezione la voce ipocondria. Certamente ineliminabile come riferimento mentale dovuto alla lingua italiana e somiglianza fonetica, sebbene si rimanga perplessi relativamente al fatto che sia davvero questa l'accezione locale, mentre è, inoltre, lecito mantenere il dubbio sulla vera comprensione da parte del lessicografo della categoria nosografica dell'ipocondria.
Dalla Lombardia alla Campania lessici più
convincenti - almeno, apparentemente - segnalano le accezioni di turbe dell'umore come anche di malinconia o di nostalgia. Ma non ho riscontrato la specifica accezione d'ipocondria.
Sia come sia a giro, il significato genovese di
pecundria /pe'kuŋdrja/, voce, ormai, desueta, il cui etimo originario risale al greco
(τὰ) ὑποχόνδρια * - aggettivo neutro plurale sostantivato e non ancora sostantivo femminile -, non implicava minimamente un effettivo stato ipocondriaco, ma significava - genericamente - una situazione alterata dell'umore e - in una città
calvinista sotto l'aspetto dell'impegno personale sul lavoro quale Genova era -, fondamentalmente, svogliatezza/scarsa voglia di lavorare, di sapersi impegnare.
Ciò che la
pecundria /pe'kuŋdrja/ provocava negli altri era la
ped(e/i)mmia /pe'd(e/i)mmja/ - sempre d'etimo originario nobilmente greco (
ἐπιδημία) se pur con accento ritratto nel dialetto genovese -. Il significato non si riferiva minimamente ad aspetti relativi a una potenziale epidemia, ma, specificatamente, al fastidio, alla mancanza totale di empatia che la
pecundria /pe'kuŋdrja/ inevitabilmente attirava su chi - a ragione o a torto - l'esibiva a fronte dell'aspettativa dell'impegno lavorativo del soggetto.
Perché "epidemia"? Perché se la
pecundria /pe'kuŋdrja/ poteva anche essere ritenuta d'origine
endogena e dovuta alla situazione umorale intrinseca del soggetto, la
ped(e/i)mmia /pe'd(e/i)mmja/ era ritenuta esogena, provocata cioè dall'osservazione di un altro soggetto - svogliato o affatto privo di voglia di lavorare -.
Non indugio più di tanto sul termine
pudrâga /pu'dra:ga/ = gotta (non soltanto del piede), podagra (l'unica delle quattro voci diagnostiche genovesi riferite a non aver avuto bisogno di aferesi). L'etimo originario risulta greco -
ποδάγρα - e, letteralmente, significa piedica **, una metafora particolarmente adeguata in relazione alle manifestazioni di difficoltà di articolazione relative a quest'affezione. In questo caso, la pronuncia popolare (dialettale) s'è concessa una metatesi - per altro, di frequente riscontro in genovese quando risulti implicato il fonema /r-/ -.
La voce aferetica
pustemma /pu'stemma/ = ascesso - in modalità esattamente parallele a quanto s'è verificato nella lingua italiana - deriva, originariamente, dal greco
ἀπόστημα *** , di cui il lat.
abscēssu(m) risulta l'esatto calco linguistico.
Per quanto, attualmente, anche i locutori dialettali pronuncerebbero la voce
culêra /ku'le:ra/ = colera **** con la stessa posizione dell'accento della lingua italiana - /-l-/ e /-r-/ segnalano, indubitabilmente, un esito di derivazione non diretta (altrimenti, entrambi i fonemi si sarebbero ridotti allo zero fonico) -, la pronuncia tradizionale era terzultimale:
còllera /'kɔllera/. Ormai unicamente relegata a esecrazioni stereotipate che indicano scarso autocontrollo ed esacerbato risentimento. Come, ad es., in
Posci-tu pigiâto-u còllera! - che non richiede traduzione -.
E' esistita anche la relativa voce -
pluralia tantum - di derivazione diretta - proveniente, comunque, sempre da una forma antica dotata di accento in posizione terzultimale (
cölleŕe /'kɵlleŕe/) -, che era
cöllie /'kɵllje/.
Essa, però, indicava unicamente l'arrossamento del viso, dovuto non soltanto a collera, ma anche a imbarazzo o timidezza - quando questi sentimenti ancora esistevano -.
Il pus dell'ascesso viene/veniva detto
matêja /ma'te:ja/ (materia). Mentre la follia era la
matejja /ma'tejja/. Ovviamente da
mattu /'mattu/.
A onta dell'affermazione del Canepari secondo la quale /j/ non sarebbe fonema nel dialetto genovese. Mentre esso rivela anche possibilità oppositive relativamente alla lunghezza/durata. Come, ad es., nella coppia minima [proposta, in cui l'unico tratto distintivo risulta, appunto, costituito dalla lunghezza del fonema genovese /j/. Contrastato da /jj/.
Quandoque bonus dormitat Homerus.
*
(Tὰ) ὑποχόνδρια, quasi fosse gl'ipocondri, faceva riferimento all'ambito viscerale, reputato sede anatomica di questa tipologia di affezione dell'umore. L'aggettivo sostantivato veniva riferito alla zona sottostante alle cartilagini: (Tὰ) ὑπό + χόνδρια ("ciò che - le cose che ... - sta sotto alle cartilagini"). La preposizione greca ὑπό vale "sotto" e la forma aggettivale plurale χόνδρια deriva da χόνδρος = cartilagine, anche se il significato più usuale del vocabolo risulta quello di chicco, grano di cereale.L'accentazione latina tiene conto della brevità della vocale ĭ - su cui, quindi, non può cadere l'accento - che trascrive la iota - ι - del greco.
**
tanto per citare una voce italiana che abbia nell'etimo la radice latina pĕd-, analoga a quella greca ποδ- di ποδάγρα. Esse differiscono tra loro unicamente per l'apofonia del timbro vocalico. In genovese piede è pê /'pe:/ - evidentemente, /-d-/ (a motivo della lenizione) si ridusse allo zero fonico -. La vocale lunga risulta plurideterminata. Certamente si ebbe allungamento romanzo delle sillabe aperte (come in fiorentino e, quindi, in italiano). Ma si ebbe pure - a differenza del fiorentino - allungamento dovuto al fatto che i due timbri vocalici - ridotto allo zero fonico l'esito di /-d-/ - vennero a trovarsi in contatto diretto e, per coalescenza, si produsse un'unica vocale, lunga.
Per chi sia sagace indagatore potrebbe sorgere il dubbio se si sia verificato anche in genovese - come si può riscontrare in fiorentino - lo pseudidittongamento attribuibile a ĕ etimologico.
Il quale, per altro, sarebbe - in genovese - ulteriore motivo di allungamento vocalico. Ciò non risulta deducibile a partire dall'esito genovese attuale. In quanto le altre determinazioni esposte varrebbero già a giustificare la quantità lunga.
In realtà c'è stato e ce lo conferma agevolmente la forma pié /'pje/ dell'Appennino genovese (ad es., Rovegno). Ma perché la forma della montagna appare irregolarmente breve a differenza di quella urbana? Semplicemente perché - in forza dell'analogia - il monosillabo originariamente ottenuto, piê /'pje:/, venne abbreviato - in aree non urbane - soltanto al fine che potesse condividere la quantità breve, caratteristica anche nei dialetti di tipo genovese, dei monosillabi etimologici, originari.
Chi nutrisse curiosità può ascoltare gli esiti - chiaramente differenziali - di Genova e di Rovegno. Proposti da informatori (ormai, è stato chiarito a sufficienza) non genuini, che tentano, per altro, di dare il meglio delle proprie - limitate - capacità. L'informatore non urbano è più giovane d'età e ancora più malcerto del compagno d'avventura cittadino. Molti fonemi vocalici da lui pronunciati possono essere recepiti come lunghi. Ma non si tratta, in realtà, della durata quantitativa contrastiva storico-tradizionale. Tutto l'eloquio del soggetto risulta più impacciato e più lento a motivo dell'incertezza relativa a una varietà linguistica nella quale non è mai stato davvero abituato a esprimersi con scioltezza e spontaneità adeguate.
Comunque:
https://www2.hu-berlin.de/vivaldi/?id=m3215&lang=it
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La voce greca ἀπό + στῆμα significa, letteralmente, allontanamento - rispetto alla precedente conformazione dei tessuti sani - e rappresenta il nome verbale corrispondente al verbo ἀφίστημι, da ἀπό + ἵστημι. Per quanto la forma del verbo latino geneticamente corrispondente a ἵστημι sia sto (da stare) - anzi, sisto (da sistĕre) -, il campo semantico non coincide completamente e, in questo caso, per rendere ἵστημι venne prescelto il verbo cēdo, da cui cessu(m). Chiaramente l'abs latino traduce la preposizione greca ἀπό. A differenza di quanto si verifica nel caso dell'accentazione greca, la sede dell'accento latino si trova sulla penultima sillaba in quanto η risulta di quantità lunga.
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L'etimo, greco, è χολέρα, esito proveniente dal sostantivo χολή = bile. Data la brevità di ε, la prosodia latina richiede l'accento in posizione terzultimale.