Ferdinand Bardamu ha scritto: mer, 17 giu 2020 23:22
Di piemontese so molto poco (per non dir nulla), ma se dovessi scommettere, direi che l’influsso è dovuto piú alla lingua letteraria, che al dialetto. Del resto, la forma
vanitade è ben attestata, e non è detto che in piemontese il concetto sia espresso con un continuatore del latino
VANITAS (solo a titolo d’esempio, nel veneto veronese ‹vantarsi, pavoneggiarsi› si dice
stimarse, e
stimaròt è attestato nel valeggiano col significato di ‹vanitoso›). L’ipotesi piú economica e semplice è che si tratti di un derivato del letterario
vanitade, dunque.
Ovviamente il piemontese non può non possedere la voce
vanità, ma si tratta di un evidente italianismo, come in molti altri dialetti italiani settentrionali. Tant'è che non solo non si raggiunse lo zero fonico, presente, ad es., in piem., in
pué = potare,
rua = ruota,
sei = sete o
vel = vitello, ma neppure si "pose mano" a sonorizzazione. Presente, ad es., in voci quale, ad es.,
seda = seta ecc. Anche in piem. /-t-/ permane conservato negl'italianismi.
Inoltre per sincerarsi - qualora permanessero dubbi - si può riflettere sull'aggettivo "vano". Praticamente mai pronunciato nel parlato genuino dei veri dialettofoni, nonostante i lessicografi piemontesi ne riportino la "piemontesizzazione" relativa.
Ma è soltanto un modo per "rimpinguare" i loro vocabolari e rivendicare al piemontese il pieno diritto - che nessuno contesta - di avvalersi di tutti gl'italianismi che si desiderano. La pronuncia mediante /-d-/ sarebbe sonata - agli orecchi di un vecchio ed effettivo dialettofono - come il tentativo d'imitare la pronuncia italiana di uno straniero. Una sorta di caricatura. Non vi avrebbe certamente ravvisato alcunché di piemontese.
Capisco che, ormai, questo tipo di sensibilità si sia completamente perduta, ma rimane da escludersi che il nobile Alfieri abbia pensato - nel caso di specie e all'epoca - a qualcosa che non fosse lingua.
P.S. Inoltre, concordo completamente coll'osservazione espressa da Ferdinand in merito allo sfasamento temporale intercorso tra due epoche evolutive ben distinte. Quella, storicamente più recente, della consapevolezza della dialettalità vera e propria e quella più antica alla quale ci si riferisce usando la voce "volgare/volgari", non essendo ancora la "toscanizzazione" così diffusa e accettata. I rispettivi lessici risultano, indubbiamente, diversi.
Per altro, il Rohlfs, come molti altri dialettologi, non va proprio "preso alla lettera". Occorre un po' più di un "grano salis". Quando, nella stessa pagina citata, al § 1145 egli cita le voci "bontà, brevità, fedeltà, libertà, nobiltà, purità, umanità, medesimità" e afferma che "la forma settentrionale (in posizione postvocalica) è -dà" riportando due soli esempi ticinesi quali
strachedà = stanchezza e
vegedà = vecchiezza - e nessuno dei due, sia ben chiaro, corrispondente a nessuna delle voci da lui riferite -, afferma, mediante una discutibile generalizzazione, una palese sciocchezza. Chi "al Nord" - e in quale dialetto - ha mai detto
brevidà,
puridà o
umanidà?
Sembra non essersi neppure reso conto - in questo passaggio - che, data la specifica tipologia delle voci e la struttura della lingua italiana analizzabile sulla base dei suoi diversi sistemi fonologici (si veda il Devoto) - paradigma che vale, mutatis mutandis, anche per i dialetti -, avrebbe dovuto almeno andare incontro al lettore e fargli almeno sorgere un dubbio in merito alla chiara e inevitabile distinzione che intercorre fra la tradizione diretta e la categoria degl'italianismi in cui molte voci astratte e del registro più elevato - del tipo di quelle da lui prese ad esempio - sono incluse.
P.P.S. Per potersi approcciare al testo del Rohlfs - soltanto fraseologicamente semplice - con adeguata tranquillità d'animo occorrerebbe tener
sempre presente ciò che l'Autore dà per scontato - nei suoi lettori - e ben raramente si preoccupa di far loro ricordare, cioè la fondamentale dicotomia intercorrente tra "volgare" e "dialetto" e la chiara distinzione riguardante i differenti sistemi fonologici della lingua italiana (e dei suoi dialetti).
Senza entrare qui nel merito degli antichi "volgari", a cui, ad es., nonostante il testo del Rohlfs possa risultare non adeguatamente esplicito in merito, andrebbe attribuita una voce del tipo di
vanitade, risulta, infatti, del tutto evidente che anche tutti i dialetti italiani sono costituiti da voci di derivazione diretta - se pure non necessariamente dal latino -, ma in ciascuno di essi è anche presente una quantità notevole di vocaboli acquisiti direttamente dalla lingua italiana, come, ad es.,
vanità nel caso del piemontese (e, in realtà, almeno un tempo, anche dal latino). E, se non tutti i dialettofoni giocano a golf, tutti vedono film e si avvalgono del gas, frequentano i bar e salgono sul tram consentendoci di poter ascoltare le "soluzioni" locali che ogni sistema linguistico dialettale ha individuato anche per questa categoria di vocaboli.
In conclusione, per quanto l'Alfieri possa risultare, soggettivamente, lontanissimo da noi e dalla nostra sensibilità linguistica attuale, è, per altro, "vicinissimo" se considerato in base a una valutazione oggettiva del percorso evolutivo della lingua. Non si può quindi assolutamente pensare che il piemontese della sua epoca possa essere considerato in alcun modo un "volgare" - che potrebbe avere implicato l'esito
vanitade -, in quanto si tratterebbe di "un anacronismo all'ennesima potenza", ma va banalmente ritenuto un "dialetto", in cui, come oggigiorno (e in moltissimi altri dialetti italiani), la voce in questione non rappresenta l'esito di derivazione diretta dalla lingua latina, ma semplicemente un prestito diretto dalla lingua italiana, il quale era ed è, tuttora,
vanità.