Millermann ha scritto: sab, 15 ago 2020 9:44
Grazie per l'apprezzamento. M'ero preso un po' di tempo –e me ne scuso

– per ricercare qualche nuova informazione, mentre rimuginavo sui suoi spunti, e vedo che nel frattempo ha aggiunto altri argomenti (in parte simili a quelli che avevo in mente, il che, in effetti, mi rassicura

).
A proposito della citazione dantesca nel
De vulgari eloquentia, riporto comunque il passo su
quatraro dalla voce
Apulia dell'
Enciclopedia Dantesca Treccani già da lei anticipato:
Pier Vincenzo Mengaldo ha scritto:
Ancora largamente presente nei dialetti meridionali, con particolare compattezza in due zone, campano-sannita e calabro-lucana, il tipo ‛ quatraro ' (o simili): ed è pensabile che la sua area antica fosse più estesa rispetto all'odierna, ristretta dalla concorrenza dell'innovazione napoletana ‛ guaglione ' (delle tre basi proposte per ‛ quatraro ' - QUARTARIUS, " quartogenito ", dapprima come nome proprio; QUADRARIUS, " della proporzione di un quadrum ", " minuzzolo "; QUADRARIUS, " ragazzo quadrato, robusto " - è forse più probabile la seconda, data la folta presenza di metafore dello stesso tipo per denotare " ragazzo ", " fanciullo " e simili: ‛ balìn ', ‛ bocia ', ‛ michino ', ‛ sordo de cacio ', ecc.).
Convengo, in questo caso, con la conclusione dell'autore, se davvero
quadrarius valeva ‹minuzzolo›, cosa che non mi è riuscito di verificare.
Altre ipotesi, distinte da
quad/quat... non mi convincono, per una serie di motivi che esporrò, cercando anche di rispondere (indirettamente) alle sue "domande".

Il problema è, però, che non sono un esperto, e m'interesso di dialetti giusto come passatempo; anzi, molte cose le ho apprese proprio leggendo i suoi interventi.

Mi limiterò, dunque, a proporre delle mie considerazioni «sparse», sperando che siano valide.
Ligure ha scritto: mer, 12 ago 2020 21:14
Dal momento che, tra le varie alternative possibili, risulta presente anche
cotr ...<
cautr ...<
caltr ... (?) ecc., è possibile che
quatr .../quadr ... possa essere, in realtà,
cautr .../ caudr ...<
caltr .../ caldr ... e non avere, cioè, affatto a che fare col
4?
Né col
q, almeno, "etimologicamente" parlando?
Dal momento che un termine quale
caldara - cioè "caldaia" - ha dato, nel corso dell'evoluzione linguistica, ciò che alcuni calabresi rappresentano graficamente come
quadara.
Si tratta cioè di
cuadara?
Per metatesi di
caudara?
Come nel caso di
quadiare nel senso di "riscaldare" ?
Iniziamo da qui. Sí, è vero: si ha
quadara o
cuadara per metatesi di
caudara (‹caldaia›, intesa naturalmente come
paiolo).
Il fatto è che un esito come
cuadara non è cosí comune, almeno dalle mie parti. Da me non c'è metatesi, e c'è invece una /v/ epentetica in mezzo. Si ha dunque
cavudàra, come
càvudu ‹caldo›,
cavudijà ‹riscaldare›,
cavuzúni ‹calzoni›, ecc.
Ovviamente, in questo caso,
*cavutràru non è possibile, e non avrebbe alcun significato!
Peraltro, anche dove coesistono
quadàra e
quatraru (e ci sono dei posti in cui ciò avviene), l'unica interpretazione plausibile potrebbe essere una storpiatura di
quad(a)ràru, cioè ‹calderaio›, che non mi sembra abbia nulla che fare con ‹ragazzo›.
Sono, sostanzialmente, d'accordo con quanto lei scrive e, ovviamente, nei miei contributi non posso andare molto oltre quanto già da me scritto in precedenza non essendo un esperto di dialettologia calabrese.
Per altro, quando facevo osservare la
possibilità di un esito antecedente in
au(<
al) - del tipo di
*ca(v)utràru - mi riferivo a un'ipotesi di etimo
non romanzo. L'Avolio, ad es., non esclude che si possa aver a che fare colla radice germanica
wahtari. Altrimenti, vale chiaramente quanto da lei riferito.
Personalmente continuo a non essere convinto delle "spiegazioni" fondate su
rapporti frazionari. Non solo in base all'
intuito - che permane caratteristica prettamente individuale e non può essere condivisa in assenza di prove convicenti -, ma anche perché in relazione al "preteso" uso metaforico della
quarta parte dell'unità per indicare una "realtà minuscola" non si riescono a riscontrare analogie riferite all'infanzia nel dominio delle lingue romanze e degli altri dialetti italiani o dell'italiano colloquiale in cui - nell'accezione piuttosto "plebea" che familiare - un "quartino" è esclusivamente riferito al vino, ma non a liquori di pregio né a oggetti o - men che meno - a bambini o ragazzi. Né le antiche misure locali "per aridi" - pur essendo la quarta parte di unità di volume maggiore - hanno mai assunto quest'accezione metaforica:
http://www.treccani.it/vocabolario/quartino
http://www.treccani.it/vocabolario/quartaro
- né il nome attribuito alla monetina citata ha mai assunto, nei dialetti liguri, ad es., alcun valore
traslato, mentre risultava presente, nei lessici dell'agricoltura, la menzione del sottomultiplo di capacità (pur senz'alcuna implicazione di particolare
piccolezza) -.
Se la metafora non risulta più viva, non si ha più alcuna prova e s'è costretti a restringersi al dominio speculativo delle supposizioni, dove vale tutto e il contrario di tutto e dove non si può più svelare alcun "mistero"
*** .
E il quattrino, ricchissimo di sensi metaforici, non ha mai indicato - sebbene sia un "multiplo" e non un "sottomultiplo" - né un bambino né un ragazzo di età maggiore:
http://www.treccani.it/vocabolario/quattrino
Inoltre, come già scrissi, ritengo destituite di fondamento le interpretazioni fondate sul valore "letterale" del numero
4 - riferito agli anni, agli arti o ad altro - e su questo l'Avolio pare mostrare analoga diffidenza. Anche in questo caso l'universo linguistico romanzo non sembra fornire alcuna analogia.
Millermann ha scritto: sab, 15 ago 2020 9:44
Passando alla variante
cotraro, ho notato che è diffusa in tutta la Calabria meridionale (ossia oltre l'istmo di Catanzaro) mente non compare in nessun'area piú a settentrione.
Si tratta di una zona con vocalismo siciliano, in cui le vocali ‹e/o› sono sempre aperte. La pronuncia è, dunque, qualcosa come [kɔ'ʈɽaːrʊ] (con retroflessione di /tr/).
Io penso, perciò, che /kɔ/ di
cotraro non sia etimologico, e che derivi da una variazione di /kwa/, passando forse attraverso /kwɔ/ e quindi /kɔ/:
quatraro >*quotraro>cotraro
In una zona "pentavocalica" come la Calabria, trovo altrimenti impossibile la presenza di una /ɔ/ in sillaba atona. Se quel
cotr... fosse stato etimologico, la /o/ sarebbe diventata /u/:
cotraro>*cutraru
Si veda l'esempio del nome della città di Crotone (fino al 1928 Cotrone) che è
Cutroni in dialetto locale.
Invece, di
*cutraru non se ne trovano esempi (tranne uno, per la verità, che secondo me non è significativo).
Ho trovato, invece, altre varianti curiose:
Un dizionario della piana di Gioia Tauro ha scritto:
Cotradu , sm. dal lat. mediev. con spostamento di significato ( quatrale, misura di volume), oppure dal lat. ( quartus , quarto; quartarius , usato originariamente come nome proprio; quatrarius , di quattro anni), bambino, fanciullo, ragazzo.
Un dizionario molisano ha scritto:
Catrarə (fem. catrara, plur. catriarə)
Entrambi questi esempi mi fanno pensare che il numero quattro c'entri, in qualche modo. Nel primo caso, quella /d/ di
cotradu potrebbe essere l'esito di una /l/, e quindi confermare l'ipotesi
quatrale.
Tornando infine a
quatraro, per la verità ho anche pensato che quel gruppo /tr/, benché oggi pronunciato (come è logico da queste parti) retroflesso, contenesse in origine una vocale, probabilmente /e/.
Fosse, cioè,
*quateraru con evidente derivazione dal latino
quater (‹quattro volte›), e non
quadrum o
quartus.
Che ne pensa? Non mi pare che altri abbiano proposto quest'ipotesi, come mai? E a che cosa potrebbe riferirsi quel ‹quattro volte›? Forse a chi cammina a quattro zampe (cioè si «appoggia quattro volte»)?
Riporto, per completezza, che esiste anche un'ipotesi di origine
greca, che non mi convince per i motivi già spiegati, benché l'area d'uso (Calabria «greca») coincida. In questo caso dovrebbe essere avvenuta la variazione opposta (/ko/>/kwa/) nella diffusione verso la Calabria «latina» e l'
Apulia di Dante, e questo ancor prima del Trecento. Possibile?
Per quanto concerne l'ipotesi "numerologiche" mi sono - se pure a livello esclusivamente individuale - espresso più sopra. Reputo assolutamente inattendibile - e dovuta a una "patina" piuttosto sottile (e assolutamente non convincente) di cultura classica - un'etimologia fondata su
καθαρός. L'idea della "purezza" dei bambini risulta abbondantemente estranea all'universo dialettale.
Se proprio desiderassimo lasciarci andare a "voli pindarici" potremmo notare - sul foglio 45 dell'atlante AIS riportato nel suo messaggio - la voce del greco del Salento per "ragazza":
https://www3.pd.istc.cnr.it/navigais-web
(basta scrivere "ragazzo" nella casella denominata "Search map")
rappresentabile - in trascrizione fonologica - come /
ca'tεra/. Certamente possibile come base fonetica e fonologica. Ma:
1) occorrerebbe - affinché la tesi potesse essere dimostrata fondata - che la voce fosse stata presente anche nel greco di Calabria;
e che
2) esista - o sia esistita - qualche zona dell'areale sul quale si sta focalizzando la nostra attenzione in cui - almeno, originariamente - la voce valesse soltanto al femminile (in quanto la coppia lessicale si sarebbe potuta formare successivamente). Infatti, la voce deriva dall'accusativo
θυ(γ)ατέρα di
θυ(γ)άτηρ:
https://en.wiktionary.org/wiki/%CE%B8%C ... ient_Greek
Mentre, nei territori tradizionalmente "ellenofoni" del Meridione, il corrispondente di "ragazzo" era /
pε'di/, voce d'immediata comprensione anche per chi possieda soltanto una modesta infarinatura di "greco scolastico":
https://en.wiktionary.org/wiki/%CF%80%C ... #Etymology
A sua volta, la voce
θυ(γ)άτηρ - all'accusativo
θυ(γ)ατέρα>/
tia'tεra/>/
tja'tεra/>/
ca'tεra/ - proviene da un etimo ancora abbondantemente rappresentato nel mondo linguistico germanico. Basti pensare all'inglese
daughter, all'esito tedesco
Tochter ecc..
E ci si ricondurrebbe - assai banalmente - alla radice di "figlia" e all'accezione di "ragazza". Proprio come nel francese
fille o nel ligure
figgia. Che valgono
anche "ragazza".
Certo, a livello socio-linguistico, si può sempre obiettare - in riferimento a un possibile prestito linguistico - che il prestigio delle parlate greche - localmente dileggiate quali "rozze" e "inadeguate", come si può evincere da abbondante documentazione in merito - era meno che nullo, ma non è detto sia sempre stato così. Infatti, quasi ogni lessico calabrese contiene voci d'indubbia origine greca locale e l'influsso greco è riconoscibile nella toponomastica, ma - soprattutto - nello studio dei cognomi della regione.
Ovviamente il prestito linguistico potrebbe essere avvenuto anche nel territorio del Salento e, sostanzialmente, continuerebbero a valere le considerazioni esposte relativamente alla Calabria.
Anche il longobardo, se pure lingua dei "dominatori", non pare abbia goduto di particolare prestigio. Non poteva servire per comunicare con chi longobardo non fosse e i documenti scritti vennero, comunque, redatti in latino. Ma un gruzzoletto di voci di etimo germanico verosimilmente appartenenti a questa lingua fa tuttora parte del nostro patrimonio linguistico.
D'altonde, se gli etimi romanzi - per vari motivi - non risultano credibili, occorre - come ha fatto l'Avolio - non rifiutarsi di provare a investigare anche alternative "eterogenee", nonostante la chiara evidenza che sarebbe illusorio - a motivo dell'inesistente documentazione in merito - attendersi di poter giungere a un livello di ragionevole certezza.
Infatti, come ho scritto, ciò che non mi appaga affatto è quello che - personalmente - reputo un tentativo d'inferire un
σῆμα - di cui le relative metafore (e/o l'effettiva derivazione) risultano, ormai, ignote alla comunità dei parlanti e contrastanti e contraddittorie nell'interpretazioni di chi sceglie d'occuparsene per far "quadrare" il tutto - a partire dall'analisi più scontata - ma non perciò più attendibile - di ciò che è "soltanto" una struttura fonetica. Non necessariamente "parlante" in modalità diretta come, invece, avverrebbe se uno qualsiasi di noi pronunciasse - secondo le convenzioni accettate e con inequivocabile intenzione - "quattro" o "un quarto".
D'altronde, se le metafore ipotizzate a giustificare l'
espressione articolatoria - il suono - sono state, da gran tempo, espunte dalla memoria collettiva e non esiste affatto effettiva certezza sul periodo, il valore, l'uso dei sottomultipli metrici (anche di tipo monetario) invocati - ma rimasti malcerti - per fornire un etimo, le relative considerazioni - sia pure formulate da studiosi di gran vaglia e debitamente depurate dalle evidenti "leggende metropolitane" come giustamente segnala l'Avolio - non possono aspirare a una validità superiore a quella delle
illazioni che chiunque possieda cultura risulta in grado di esporre.
Nel momento in cui risulta tranciato il sottile filo che connetteva la
struttura di suono a un significato - anche figurato - s'interrompe la possibilità di accedere alla
simbolizzazione originaria ed è giocoforza accontentarsi di quello che è attualmente per noi il significato "convenzionale" - non più, ormai, "intrinseco" - della voce.
Si può ampliare - anche di molto, volendo - la gamma delle possibili
ipotesi o
illazioni, ma non si può più assolutamente aumentare la validità specifica di questo tipo di processo.
P.S.: non ho molta esperienza diretta dei dialetti calabresi, ma - in altri dialetti italiani - un
o aperto può essere derivato da
au etimologico anche in posizione diversa dalla sillaba su cui "cade" l'accento primario della parola. Tale fonema, per altro, determina la manifestazione - sulla sillaba in cui viene a trovarsi - di un accento secondario, ma non conosco come si comporti - in questi casi specifici - il calabrese.
P.P.S.: la proposta sommessamente formulata dall'Avolio dell'etimo
wahtari - almeno per tentare di "problematizzare" il
risultato proposto dall'
ondata prevalente (e, purtroppo, estremamente "focalizzata"), che cavalca l'ipotesi
numerologica - non risulta affatto così "pellegrina". Purtroppo - sia detto più in senso storico che "moralistico" - l'impiego di termini quali "servitorello" (in questo caso, forse, "guardiano" di animali o "pastorello") vel sim. non può essere ritenuta tanto improbabile. Ma sulla lingua, sull'epoca e sull'effettivo areale linguistico dei longobardi si sa troppo poco:
https://en.wiktionary.org/wiki/wahtari#Etymology
La radice è la stessa che dette
(a)wake in inglese e "vigile" - dal latino - in italiano. Infatti, se il "pastorello" si fosse assopito, la sua funzione di badare agli animali al pascolo ed evitare possibili pericoli sarebbe venuta meno, mettendo a rischio il piccolo patrimonio familiare.
E troppo poco siamo destinati a sapere sul greco di Calabria. Non più effettivamente parlato neppure dagli abitanti più anziani dei villaggi più remoti. "Diffuso" ormai esclusivamente dagl'intellettuali e dagli storici di territori solo un tempo effettivamente
ellenofoni e che tramandano quanto anche noi potremmo apprendere e tramandare se leggessimo e imparassimo quanto è stato scritto, non essendo più neppure loro - al pari di noi stessi - eredi diretti di questa tradizione linguistica di matrice antica, che s'è, ormai, interrotta per sempre. Riscontrando parole dal lessico greco - antico o moderno - se non si sia conservato il termine locale specifico, dal momento che:
1) è venuta, ormai, meno - da tempo - la trasmissione familiare diretta del linguaggio;
2) non esiste più neppure in Calabria alcuna forma di "controllo sociale" - essendo "ben altri" gl'interessi prevalenti delle comunità - su quanto gl'intellettuali dei villaggi appartenenti a queste antiche comunità linguistiche eventualmente diffondono o riferiscono agli studiosi coinvolti.
In conclusione si può osservare che nessi semantici, cioè concettuali, col significato di "schiavetto" - "moralisticamente" detestabile in un'epoca di straripante "buonismo", ma storicamente molto realistico - e con quello
eterno relativo alla condizione di "figlia/-o" possono risultare ben più saldi di raffronti di tipo esclusivamente
fonetico come quelli relativi al numero
4, che rischia di allinearsi alla scontata banalità delle paretimologie popolari e che non si vede davvero che cosa possa avere a che fare colla fanciullezza e l'adolescenza (se non nell'ambito di un pensiero di tipo quasi "magico"

), o al suo inverso - rappresentato, in senso algebrico, da
1/4, di cui rimane totalmente da provare l'effettivo uso quale sinonimo di "piccolezza" dell'individuo umano, nonostante il termine dialettale sia stato impiegato e si usi tuttora anche in riferimento a individui chiaramente maturi, che hanno, ormai, completato la loro evoluzione psico-fisica.
Nella totale assenza di raffronti riscontrabili nella linguistica italiana e nel più ampio dominio delle lingue attuali derivate dal latino.
*** Faccio solo un esempio. Chi cita il "balin" delle parlate liguri non definisce chiaramente il termine né l'uso. Innanzitutto, nel senso esclusivo di "bambino piccolo" - e non in quello di "ragazzo" -, si tratta di voce che può essere usata esclusivamente al "vocativo". Non può essere usata in un discorso "indiretto". Letteralmente vale "pallino" e, in quest'accezione, può essere considerata voce del lessico locale. La metafora (di tipo palesemente popolaresco) è relativa al gioco delle bocce - non al capo rasato degl'infanti perché non fu sempre così -. Si pone in risalto la differenza tra l'insieme degli adulti - le bocce - e la differente
dimensione (in tutti i sensi) del bambino nei loro confronti. Infatti, l'appellativo non ha documentazione antica, cioè precedente alla diffusione - relativamente moderna - del gioco delle bocce.
Relativamente all'appellativo
Balilla - denotato da diverso suffisso e direttamente noto ai nostri nonni e ai nostri bisnonni e a noi solo in base alla cultura storica - vale quanto già riferito in merito a "balin". Nel caso specifico s'ebbe un soprannome, ma, in dialetto,
Balilla - se non come soprannome - poteva essere impiegato soltanto al "vocativo". Da
balla = "palla":
https://en.wiktionary.org/wiki/palla#Etymology_4
Così ogni "piccolo soldato" dell'era mussoliniana - nell'inconsapevolezza quasi generale - venne denominato, in modalità ben poco "militaresca" mediante l'antico vezzeggiativo usato dalle mamme popolane genovesi (ma esclusivamente al vocativo), "pallina".
E mai, dall'epoca di Sparta in poi, vi fu una formazione a carattere "premilitare" contraddistinta da un termine così poco marziale!
In lingua italiana ci si dovette accontentare del plurale "i balilla" (certo, in realtà, derivato dal soprannome del personaggio) formato con un - per altro, regolarissimo - singolare femminile in
-a del dialetto, proprio come si ha "pallina" - ma "palline" ! - nella lingua nazionale. A chi non solo parlava, ma - soprattutto - "capiva" il genovese s(u)onava piuttosto strano l'equivalente di "i pallina" ...
Il suffisso
-illa, in genovese, rappresenta un antico "ispanismo".
Nel periodo del fascismo si scelse la grafia conforme all'effettiva pronuncia genovese, ma il socioletto aristocratico - pur pronunciando identicamente - presentava la grafia etimologica
Ballilla, da
balla. Infatti, le geminate - se pure etimologiche - non immediatamente postaccentuali non vengono effettivamente pronunciate.
Non mi riesce difficile ammettere che la presente nota risulta "collaterale" rispetto alla centralità dell'argomento trattato. Tuttavia, essa è stata determinata dalla citazione relativa al termine "balin" - che, come "balilla", omai desueto, può essere impiegato esclusivamente al "vocativo" e non rappresenta assolutamente un "traducente" di "ragazza/-o" -. Infatti, il contenuto della citazione riferita rende saliente un certo tipo di "semplicismo confusivo", che è ben raramente possibile evitare di riscontrare nelle descrizioni di chi si occupa di etimologia e di dialettologia.