Ricito ancora i princípi del purismo strutturale ai quali s’attennero i nostri maggiori linguisti e filologi, Bruno Migliorini e Arrigo Castellani:
1. S’accettano solo forestierismi che vengono a colmare una reale lacuna semantica.
2. I forestierismi compatibili con le strutture fonetiche s’accettano tali e quali (tango).
3. Quelli che non si possono accettare senza cambiamenti, o s’adattano (filme), o si sostituiscono con voci già esistenti ([indice di] ascolto e non audience), o si sostituiscono con neoformazioni (autista e non chauffeur).
Consideriamo ora le seguenti parole, tutte di fattura ineccepibile, tanto che non se ne avverte l’origine straniera, e d’uso comunissimo: albicocca, bianco, cifra, dogana, etichetta, furgone, gabinetto, ingegnere, locomotiva, maresciallo, noia, orgoglio, pompelmo, quarzo, ricco, scherzare, tabacco, uragano, viaggio, zucchero. Immaginiamo per qualche minuto che queste familiarissime parole non fossero state adattate, come succede oggi; che lingua parleremmo oggi? (E che lingua parleremo domani, se si va avanti in questa maniera?) Diremmo, rispettivamente (le trascrizioni mancano di alcuni diacritici): al-barquq, blank, sifr, duwan, etiqueta/étiquette, fourgon, cabinet, engignier, locomotive (/loko'mOtiv/), marhskalk, enoja, orgolh, pompelmoes/pampalimasu, Quarz, rihhi, skerzon, tabbaq, huracán, viatge, sukkar. E se oggi adoperassimo tali voci nella loro «sacrosanta veste alloglotta» (Castellani) parleremmo, appunto, una lingua creolizzata, senza identità propria, e che non sarebbe piú una lingua di cultura.
Bisogna capire che queste parole straniere assimilate sono un arricchimento per la lingua. Tradurre tutto sarebbe chiudersi al mondo, e questo gli spagnoli l’hanno capito da gran tempo. Diceva Leopardi che «la nostra lingua non fa piú progressi»: come non sentire oggi tutta la portata di quest’affermazione? Il progresso dell’italiano consisterebbe appunto nell’appropriarsi le invenzioni moderne «senza venir meno alle necessità strutturali della lingua nazionale» (Migliorini). Sempre Leopardi scriveva:
Che la gente percepisca le cose in modo errato, ripugnando all’adattamento vuoi per scarsa sensibilità vuoi perché tutto quello a cui non siamo abituati suona strano la prima volta, non è un motivo valido, anzi, è una bischerata bell’e buona e il modo migliore per lavarsi le mani dei problemi. La gente reagisce cosí perché, novanta volte su cento, non sa. E allora va resa edòtta sulle questioni di lingua. (Ho recentemente scritto a un’Accademica della Crusca suggerendo, tra l’altro, la possibilità di concepire un programma televisivo brevissimo ma quotidiano in cui si spiegassero le cose ai cittadini.)...perocché noi veggiamo sotto gli occhi , che sebben forestiere di origine, elle [= voci e maniere] stanno in quelle scritture come native del nostro suolo, ed hanno un abito tale che non si distinguono dalle italiane native di fatto, e vi riescono come proprie della lingua, e cosí sono italiane di potenza, come l’altre lo sono di fatto, onde il renderle italiane di fatto non dipende che da chi voglia o sappia usarle; e per esperienza veggiamo che quegli scrittori, trasportandole nell’italiano, le hanno benissimo potute rendere, e le hanno effettivamente rese, italiane di fatto, come lo erano in potenza, e come lo sono l’altre italiane natie. Or questo medesimo è quello che nello studio delle lingue altrui dee fare in noi, in luogo dell’esperienza, l’ingegno e il giudizio nostro; cioè mostrarci, non per prova, come fanno gli scrittori nostri classici, ma per discernimento e forza di penetrazione, e finezza e giustezza di sentimento, benché sprovveduto di prova pratica, che tali e tali vocaboli e modi sono italianissimi per potenza, onde a noi sta il renderli tali di fatto, sieno o non sieno ancora stati resi tali dall’uso, o da parlatore, o da scrittore veruno...
Né ritengo valido l’argomento di chi considera vetusto o addirittura obsoleto un fenomeno naturalissimo e antichissimo come l’adattamento: non è di moda, certo, ma le mode vanno e vengono, e si possono cambiare.
Concludo s’una nota personale. Quest’anno (come negli anni scorsi), al mare, m’è capitato di parlare del problema degli anglicismi. Non ci crederete, ma esponendo le cose con calma, con chiarezza, con simpatia, la gente è del tutto disposta ad accogliere termini italiani («È vero», «Hai ragione» mi sento ripetere da anni). Il terreno va solo annaffiato: la terra è buona e fertile; basta solo agire con i giusti mezzi nella direzione giusta.