Passuìn ha scritto:molesta e fuori sede ritengo sia l'intransigenza.
A quale intransigenza si riferisce? Non mi pare che qualcuno impedisca ai veneti di parlarsi in veneto.
Se invece intende dire che è inaccettabile intransigenza non far insegnare il veneto a scuola, non sono molto convinto...
Ma non conferisce abbastanza dignita' ad una delle nostre secolari lingue ,dal passato peraltro illustre , anche economicamente, il fatto di essere stata e (ed il bello è proprio lì) continuare imperterrita e vivace (più caparbia che vivace) ad essere strumento di comunicazione ? D'altronde, credo proprio che la si vorrebbe insegnata scolasticamente soltanto nel contesto che l'ha vista per mille anni come lingua di tutti i veneti, dal povero al ricco, di padre in figlio. Cancelliamo tutto?
Lo hanno fatto in Francia. Ci si sono impegnati per secoli. Bel risultato.
Omologamus e saremo amici. Oggi trovare un languedocien che sia conscio di esserlo e che parli correntemente il linguaggio dei propri avi ( ma proprio avi...) è arduo.
Passuìn ha scritto:molesta e fuori sede ritengo sia l'intransigenza.
A quale intransigenza si riferisce? Non mi pare che qualcuno impedisca ai veneti di parlarsi in veneto.
Se invece intende dire che è inaccettabile intransigenza non far insegnare il veneto a scuola, non sono molto convinto...
Aderisco totalmente alle affermazioni di Federico.
Come ho spiegato prima le differenze fra le parlate locali esistono anche a livello provinciale, comunale addirittura, al punto che potremmo elevare a rango di lingua ciascuna di esse. Così come a un ibleo par "straniero" chi si esprime in etneo o in palermitano, allo stesso modo un veneto di Rovigo non riconoscerà come totalmente proprio la parlata di Cortina d'Ampezzo, ad esempio.
Imponendo una nuova lingua franca ornandola degli idilliaci tratti nazionali e del titolo di linguaggio avito, non si fa giuoco diverso dallo scellerato crimine che viene imputato all'Italiano dai paladini della cultura regionale.
Si veda la situazione in Corsica, o ancor più in Irlanda! I giovani di queste isole studiano la lingua dei propri antenati (il dialetto còrso e il dialetto irlandese) e, senza rifarsi a sistemi linguistici maggiori (l'Italiano e il Gaelico unificato), si è ottenuto che gli ufficiliazzati linguaggi si ricoprissero solamente di veste senatoria, fossero cioè accordati dal Governo, ma in pratica non vengono usati comunemente dalla popolazione: sono scaduti terribilmente nella funzione simbolica, in memoria di un passato ormai inesorabilmente perduto.
Si rifletta su queste due vicende parallele.
Nella Venesia o nelle Venesie, da Tarento a Tregeste, da un pò sopra Mantova passando per il Garda fino a tutto il Bellunese e alle porte di Udine e dell'amata e mai dimenticata Istro-Dalmazia (Veneta) se capemo tuti.
Io non sono per fare nella mia patria veneta, quello ch'è stato fatto nella penisola italica con la lingua italiana e più di recente anche altrove, come ricordato or ora da Decimo.
Nella scuola venesiana si dovrebbe apprendere il veneto o venesian (relativo a tutta la terra veneta che si dovrà chiamare nuovamente Venesia o Venetia e non più Veneto) in tutte le sue varianti e ognuno poi sarà libero di parlare e di scrivere come vorrà, secondo la variante della sua valle o borgata o villaggio o monte o laguna oppure mescolandole a suo piacimento, liberamente.
Così nei testi scolastici, così negli atti legislativi, amministrativi e giudiziari.
Così nelle chiese, nelle università e nei media.
E anche i preti si dovranno adeguare, non parliamo poi degli insegnanti che saranno i primi a friggere so a gradea.
Il centro, come Dio, sarà in ogni luogo e ogni cittadino veneto sarà sovrano come un Re.
No è certo perfezione linguistica, quella che si sente nella voce dei professionisti radiotelevisivi dei media "nazionali" che personalmente percepisco con la stessa angoscia di quando ascolto certe campane da morto cattoliche, cupe, tetre, terribili, che ti riportano al cospetto di un Dio disumano e senza pietà.
E Venesia città, tornerà a rifulgere d'oro e di rubino nel verdemare, continuerà ad essere il nostro splendido sole, più bella che mai. Cinta, questa sì, cinta da i nostri monti de roxapria e non da interminabili teorie de morti masà, morti par teror pì ke par amor.
E il petrolchimico di Marghera lo daremo volentieri a chi, da mane a sera, si lamenta che nella sua terra non arriva 'a mana del laoro.
Della funzione simbolica, di una lingua uguale per tutti, che ci riporti ognora, ognuno, a un'unità "mistica" a un "uno" che non può esistere se non nella diversità, facciamo volentieri a meno. Poiché l'unica unità possibile è quella trascendente, divina, universale che non si raggiunge con veruna lingua in quanto aldilà di tutte le lingue. Unità trascendente ch'è "intuibile" piuttosto senza la parola, nei silenzi dei deserti, degli eremi montani e nei monasteri di clausura e forse per qualche beato-illuminato anche nel fragore assordante del mondo.
Così é per il totem dell'unità linguistica che nel passato, si racconta religiosamente, fosse costituita dal latino e non tanto come seconda o terza lingua parallela ma come lingua madre di tutti.
Nel passato della millenaria Repubblica Veneta non v'è mai stato il bisogno di un'unica lingua che soffocasse tutte le altre, ma soltanto la necessità di una lingua franca (affiancata a tutte le altre) e non tanto per la Venesia quanto per il Mediterraneo, l'Europa, la penisola italica (funzione svolta anche dal greco, dal venetico, dal latino, dal francese, dal veneto, dall'italiano, dall'inglese, dall'arabo).
Ke bela ke la xe la me lengoa veneta, na lengoa parlà co' piaser anca dal bon Dio!
Alberto Pento
Non c'è che dire, caixine, il suo è un inno a Babele.
L'utopia di un ritorno alla mitica età dell'oro merita tutto il mio rispetto, e prendo seriamente in considerazione il suo punto di vista, poetico e lungimirante (nonostante sia per i miei gusti troppo intriso di divinità).
In confidenza, le suggerirei, data la sua profondità culturale, di scrivere davvero un'ode ad un'aurea Babele (figura di Venezia), ove sconvolgere il significato originale dell'evento biblico: considerando cioè la tradizionale confusione di lingue non come una punizione inferta da Dio, ma come suo prezioso dono.
E forse per la prima volta, e per ciò la ringrazio, mi sentirò in dovere di chinare reverenzialmente il capo innanzi allo splendore di un amore tanto ardente per una patria che non è la mia Italia, ma facendone parte ad essa si oppone. E forse per la prima volta ascolterò con ammirazione e sorridendo il soave suono di una poesia che pur non rispecchia il mio cuore... e forse per la prima volta amareggiato resterò pensoso, a bestemmiare quel dio che non mi fece nascere Veneto.
La prego di non trascurare la mia esortazione... Sarei davvero felice di poter compartecipare del frutto letterario della sua battaglia.
Vede caixine, lei ha ragione: è bello che i veneti parlino veneto fra di loro, e in ogni caso a prescindere dalle mie considerazioni nessuno glielo può impedire.
Ma non era questo che mettevo in discussione: il punto è se si possa insegnare il veneto a scuola: servirebbe a qualcosa, forse? Evidentemente no, se anche senza studiarlo a scuola è ancora tanto parlato: col che voglio dire che se c'è un contesto tale per cui il dialetto può essere una vera lingua viva, allora non c'è bisogno di studiarlo a scuola per parlarlo (non s'è fatto per secoli e millenni!), mentre se tale contesto non c'è si rischiano solo degli spiacevoli effetti collaterali come quelli cui ha fatto cenno Decimo.*
A mio parere la scuola dovrebbe prima di tutto assicurarsi che gli italiani sappiano parlare italiano, visto che siamo una nazione di (semi)analfabeti; poi ciascuno potrà studiare ciò che vorrà (e questo vale in tutte le materie: quelle ufficiali non escludono tutte le altre, bensí ne sono il presupposto in quanto formano l'individuo aprendolo a tutte le possibilità di sviluppo della propria humanitas).
_________________ *Gian Luigi Beccaria dice qualcosa di simile sull'informatica: i giovani sono immersi nell'informatica e hanno una quantità di stimoli tale dal mondo che non c'è bisogno di insegnarla a scuola, dove la studierebbero con molto meno profitto che fuori, mentre c'è bisogno di recuperare tante altre carenze dei giovani d'oggi (linguistiche, logiche, di comprensione ecc.).
Ringrazio Decimo per la rispettosa, intelligente attenzione e la fraterna sensibilità e per le sue incoraggianti parole e Federico per la sua buona grazia nel riconoscere il buon diritto naturale di ogni popolo a parlare la sua lingua nella sua patria ed anche l'opzione della sua humanitas.
Sull’opportunità di insegnare la lingua veneta nella scuola pubblica nella o della Venesia.
(cosí come in tutte le terre del mondo)
È opportuno perché è una neccessità e un dovere.
1
Perché è la lingua naturale e storica che contiene, come il genoma umano, l’eredità etnico-culturale delle genti venete e di tutte le genti della terra nella loro terra madre.
2
Perché è una ricchezza, un patrimonio umano, culturale e linguistico, il cui valore è di gran lunga superiore a qualsiasi bene artistico e architettonico, da conservare a testimonianza viva del passato e perché favorisce il rispetto di sè e degli altri e la conservazione della biodiversità e dell’ambiente in generale ed é miniera e fonte inesauribile a cui attingere.
3
Perché favorisce l’ugualianza della dignità degli uomini e l’evoluzione della democrazia ed elimina primitivi e deleteri elementi di discriminazione e perché è indice universale di libertà.
4
Perché favorisce la pace e riduce i conflitti sociali, etnici, nazionali e tra gli stati.
Perché la lingua non può piú essere strumento, nella competizione umana e politica, atto a consentire la sopraffazione e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e per perpetuare un ordine parassitario di rendite classiste o di casta che impoverisce il bene generale anziché arricchirlo.
Cosí si stimolano gli uomini a darsi da fare per trovare nuove forme piú utili ed evolute alla loro naturale inclinazione-pulsione alla competizione con la conseguenza di una ricaduta benefica per tutti com’è la concorrenza nel libero mercato.
5
Perché rende piú armoniose le comunità umane al loro interno e piú accordate le genti di questa (ogni) terra con la sua orografia, il suo ambiente, la sua aria, il suo clima, tutti elementi naturali che hanno contribuito a determinare i caratteri non solo fisici degli indigeni e della loro lingua.
6
Perché si favorisce l’integrazione degli immigrati o foresti che cosí possono meglio sintonizzarsi con gli autoctoni e la nuova terra che li ospita momentaneamente o li accoglie indefinitamente o indefinitivamente.
7
Perché è un tonico benefico per la psiche, il sistema nervoso e tutto l’apparato endocrino, l’anima, di ogni individuo e delle sue comunità.
8 Perché migliora l’apprendimento di tutte le altre lingue umane, lingua italiana compresa e l’apprendimento in generale.
9
Perché è un valore umano universalmente riconosciuto e tutelato nei paesi piú civili ed evoluti.
10
Perché se questa è la volonta di ogni popolo e dei cittadini di quella terra, cosí deve essere, in ogni democrazia che sia degna di tale nome.
Ke bela ke la xe la me lengoa veneta, na lengoa parlà co' piaser anca dal bon Dio!
Alberto Pento
Inglese sì, italiano no, viva i dialetti. In altre parole, riduciamo culturalmente l'Italia a India (più di duecento fra lingue e dialetti locali; l'hindi e l'inglese come lingue ufficiali). Con una differenza, però: l'India ha tale fisionomia linguistica, perché è stata a lungo colonia inglese; poi, con Gandhi, ha raggiunto lo svaraji, l'autogoverno. L'Italia, invece, si farà ricolonizzare, per sua propria iniziativa, e non per invasione armata e penetrazione economica semi-violenta, dopo un secolo e mezzo (brevi sia il secolo, sia il mezzo) di pseudo-indipendenza.
Una volta inveratosi lo scenario auspicato, avremo: 1) la riduzione dell'italiano a lingua defunta della letteratura passata (e in quanto lingua defunta, vi sarà chi ne confermerà prima o poi, a norma di legge, la dipartita effettiva in sede di pubblica istruzione, nella scuola che si aggiorna e ottimizza le risorse); 2) la riduzione del dialetto a lingua tipica per saghe del formaggio, della polenta, della crispeddra e della lugànega -per palati fini ed elitari, ma sostanzialmente impotenti a controllare l'effettiva livellazione globalistica, poiché in realtà conniventi con essa sul piano dei rapporti materiali del modo di produzione; 3) l'inglese con coloritura veneta, milanese, romana, napoletana (ma solo nelle vocali, e solo in pizzeria con gli amici, perché chi ci infila lemmi non angli in presenza di capouffici non lavora e non mangia).
Vorrei far notare che: 1) l'italiano e il veneto sono più affini linguisticamente dell'inglese e del veneto, dunque un'italiano venetizzato, con osmosi lessicale, grammaticale e fonetica, nella peggiore delle ipotesi, è meno morte, per il veneto, che il sopravvento dell'inglese, che in quanto lingua estranea sentita come elitaria, tenderebbe a far sparire del tutto ogni lingua di substrato (veneto compreso); 2) pertanto la creolizzazione (bidirezionale) fra italiano e dialetti, sarebbe meno distruttiva sul piano linguistico culturale; 3) l'insegnamento del dialetto nella scuola si inserisce meglio in un contesto di attività progettuale regionale in rapporto con gli enti locali (POR), che nell'attività curricolare dell'insegnamento ordinario, e va meditato, mediante l'apporto di esperti esterni: da un lato linguisti -esperti di geolinguistica, sociolinguistica e storici della lingua- e dall'altro poeti e prosatori in dialetto (e aggiungo che di certo sarebbe molto più efficace, nella sua ricaduta didattica, l'insegnamento del dialetto, rispetto ai tanti progetti vacui e futili -in parole povere, idioti -di cui pullula la scuola italiana).
Detto ciò, si ribadisce ancora una volta che la lontananza linguistica del veneto dall'italiano è meno marcata di quella che c'è, ad esempio, nel Regno Unito, fra l'inglese e il gaelico, ed è totalmente diversa da quella che c'è in Spagna fra castigliano e basco. Il gaelico e l'inglese sono parenti di secondo grado (sono lingue indoeuropee, ma una di famiglia celtica, l'altra germanica); il basco e lo spagnolo non sono minimamente imparentati (il basco è una lingua non indoeuropea, isolata, ergativa, risalente a un gruppo linguistico paneuropeo di origine tardo-paleolitica). Il veneto e il toscano condividono, al di là delle loro pronunciate differenze, alcuni tratti strutturali essenziali (ad esempio, il plurale derivato dal nominativo latino e non dall'accusativo, l'articolo derivato da ille e non da ipse, come in sardo) che le accomunano fra di loro all'interno dell'area italo-romanza, e le distinguono dai dialetti rumeni (che hanno l'agglutinazione fra nome e articolo declinato per caso e genere) e dai dialetti ladini, sardi, ibero-romanzi e gallo-romanzi. Veneto e italiano hanno una parentela diretta.
Prese di posizione estreme di un certo tipo sono perciò ingiustificate.
Incarcato ha scritto:vorrei invitare a smetterla di parlare a nome di tutti i veneti, con frasi del tipo:
10
Perché se questa è la volonta di ogni popolo e dei cittadini di quella terra, cosí deve essere, in ogni democrazia che sia degna di tale nome.
E infatti tutti i veneti che conosco (e sono parecchi, anche perché Milano ne è piena) non si fanno proprio nessun problema a parlare italiano, anche se fra di loro parlano in dialetto: anzi mia madre mi ha raccontato che quando si trasferí a Milano da bambina (oltre quarant'anni fa, credo) ebbe grandissime difficoltà non conoscendo l'italiano, che a me sembra essere percepito generalmente non come una specie di lingua straniera imposta forzosamente ma piuttosto come un elemento unificante e proprio, nel senso che come dice amicus si può facilmente gestire e anche modificare e arricchire con influenze dialettali, senza rinunciare alla propria «identità».
Quando si emigra, quando si esce dalla propria patria o terra madre e si va in altre terre, presso altre genti, é naturale avere delle difficoltà linguistiche che si risolvono con il tempo.
I veneti non sono emigrati soltanto a Milano o a Torino ma anche in Svizzera, in Germania, in Belgio, in Canada, in Australia, in Brasile...e in queste terre oltre la penisola italica, la lingua italiana non serviva a nulla.
Oggi in Europa e nel mondo mi pare che la lingua franca sia l'inglese, così come nel mondo scientifico internazionale.
Ben vengano le lingue : nella penisola l'italiano, in Europa l'inglese o un'altra, nel mondo l'inglese o altro!
Ma nella Venesia sia la lingua veneta (nelle sue varianti) quella che caratterizza questa terra e le sue genti, poi in ordine tutte le altre.
selboi
Ke bela ke la xe la me lengoa veneta, na lengoa parlà co' piaser anca dal bon Dio!
Alberto Pento
Mi ero ripromesso di non cedere alla provocazione e stare zitto, ma proprio non ci riesco. E allora le ripropongo, caro caixine, il dilemma che avevo già proposto al suo collega e compatriota Pento.
Castel D'Ario è un ridente paese che si trova a una decina di chilometri a nord di Mantova (la mia città). A Castel d'Ario si parla un dialetto (pardon, una lingua) che ai mantovani suona veneta, e che lo è anche tecnicamente almeno dal punto di vista fonetico (assenza delle vocali miste, terminazioni in vocale ecc).
Ora, le chiedo: Castel D'Ario, pur essendo in provincia di Mantova, deve essere considerata o no parte della Venesia? E la stessa Mantova, che è stata per qualche tempo parte del Lombardo-Veneto? (Ma per molti più secoli Mantova è stata un ducato indipendente, e dunque temo rifiuterà l'annessione forzosa alla Serenissima). A Mantova non si parla veneto, anche se il veneto si capisce: linguisticamente il mantovano è un misto tra lombardo, veneto e emiliano. Dove la mettiamo, allora, la città gonzaghesca? A imparare quale dialetto, pardon lingua? Quale bisogna insegnare nelle scuole mantovane? Il mantovano di città o quello - diverso - che si parla dieci chilometri più a nord? O quello ancora diverso che si parla dieci chilometri più a sud? Si insegna quello di città? Ma allora come fare con gli insegnanti? Se abitano 2 chilometri fuori, dovranno seguire un corso di pronuncia per essere sicuri di insegnare il mantovano più puro? Se un insegnante di Mantova città viene trasferito a Goito, dove si parla un dialetto che a noi cittadini suona orrendamente campagnolo, dovrà abbassarsi ad adottare quella parlata e insegnare le regole di quella?
Inoltre: una mia cara amica, essendo nata a Castel d'Ario e ora abitante a Mantova, è da considerarsi "emigrata"? Pur essendo casteldariese purosangue, non ha il minimo accento veneto nella parlata, e se parla dialetto parla dialetto mantovano - perché l'ha imparato dai colleghi di lavoro, pur avendo i genitori ancora abitanti al paese e venetofoni.
Insomma, dove mettiamo il confine della Sacra Patria Veneta? Castel d'Ario è dentro o fuori? Dove lo mettiamo il muro del Leone di San Marco? Tra parentesi, Castel d'Ario si gloria di essere patria del risotto alla pilota, specialità ovunque nota come mantovana. Diventerà specialità veneta, dopo la costruzione del muro?