"Cente" e "ciente"
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"Cente" e "ciente"
Ritengo utile segnalare questa regoletta empirica per stabilire quando le parole che terminano in cente prendono la i dopo la c (ciente). Abbiamo, infatti, beneficente e sufficiente.
Non si inserisce la i se la parola scissa da cente può formarne un'altra di senso compiuto. Beneficente, senza la i, perché togliendo cente a "bene" si può formare benefico che ha un senso compiuto.
Non si inserisce la i se la parola scissa da cente può formarne un'altra di senso compiuto. Beneficente, senza la i, perché togliendo cente a "bene" si può formare benefico che ha un senso compiuto.
«Nostra lingua, un giorno tanto in pregio, è ridotta ormai un bastardume» (Carlo Gozzi)
«Musa, tu che sei grande e potente, dall'alto della tua magniloquenza non ci indurre in marronate ma liberaci dalle parole errate»
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Recente, senza la "i", perché togliendo cente a "re" si possono formare parole come recentemente, retrocedere, resistente; docente, senza la "i", perché con do si possono formare parole come documento, dovere, dovizia.Bue ha scritto:Quindi recente si scrive senza "i" perché esiste "reco" (verbo recare)? O perché esiste "re"? E docente si dovrebbe scrivere *dociente perché non esiste "doco"? Oppure senza i perché esiste "do"?
«Nostra lingua, un giorno tanto in pregio, è ridotta ormai un bastardume» (Carlo Gozzi)
«Musa, tu che sei grande e potente, dall'alto della tua magniloquenza non ci indurre in marronate ma liberaci dalle parole errate»
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Fausto Raso ha scritto:Recente, senza la "i", perché togliendo cente a "re" si possono formare parole come recentemente, retrocedere, resistente; docente, senza la "i", perché con do si possono formare parole come documento, dovere, dovizia.Bue ha scritto:Quindi recente si scrive senza "i" perché esiste "reco" (verbo recare)? O perché esiste "re"? E docente si dovrebbe scrivere *dociente perché non esiste "doco"? Oppure senza i perché esiste "do"?
Anche togliendo "ciente" a efficiente si ottiene "effi", con cui si può formare effimero, efficace, effigie ecc.
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È una regola empirica (come i famosi rimedi della nonna), gentile bue, non "scientifica". Regola, però, che nella maggior parte dei casi può essere di aiuto (faccia qualche prova statistica e veda quante volte ci "azzecca"). 

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Fausto Raso ha scritto:È una regola empirica (come i famosi rimedi della nonna), gentile bue, non "scientifica". Regola, però, che nella maggior parte dei casi può essere di aiuto (faccia qualche prova statistica e veda quante volte ci "azzecca").
Beh, in quanto fisico sperimentale conosco bene il significato e l'importanza di ciò che è empirico, ma "empirico" non è sinonimo di "impreciso". A me personalmente sembra più facile e più sicuro rifarmi all'etimologia, che è poi l'unico motivo per cui la "i" è rimasta nella grafia: se deriva da un composto del verbo "facio", la i in generale si mantiene. Certo, la mia regola falla nel caso di beneficenza, perché deriva da "beneficus" e non da "beneficium", ma è l'unica (finta) eccezione che mi è nota.
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A proposito di “cente” e “ciente”, Caramello e Sarasso cosí scrivono in “Sentire, Capire, Esprimere”, grammatica italiana per la scuola media:
Questa “regola” presuppone, però, una minima conoscenza del latino. Forse è meglio affidarsi a quella empirica?Dal participio di fare unito ad alcuni prefissi derivano alcuni aggettivi, che vi danno dei grattacapi, perché non sapete se terminano in -cente o -ciente. Ebbene, è semplicissimo: se la radice di fare è rimasta intatta, si scrive -facente: soddisfacente; se invece si è trasformata, sostituendo la a con una i, si scrive -ficiente: insufficiente, deficiente, efficiente.
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«Musa, tu che sei grande e potente, dall'alto della tua magniloquenza non ci indurre in marronate ma liberaci dalle parole errate»
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Concordo con Bue (per una volta
), meglio consultare un buon dizionario in caso di dubbio che affidarsi a «regole», sia pure empiriche, che patiscono innumeri eccezioni.
Io sarei per l’eliminazione della i in parole come pasticciere, che è un’inutile complicazione (e poi scriviamo pasticceria).

Io sarei per l’eliminazione della i in parole come pasticciere, che è un’inutile complicazione (e poi scriviamo pasticceria).
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Lei sa, meglio di me, che pasticciere (anche se scriviamo pasticceria, senza la i) segue la "legge" del dittongo mobile.Marco1971 ha scritto: Io sarei per l’eliminazione della i in parole come pasticciere, che è un’inutile complicazione (e poi scriviamo pasticceria).
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No, caro Fausto, non si tratta del dittongo mobile: questa i è puramente grafica e non rappresenta alcun suono. Diverso il caso di sonare/suono, in cui la u è pronunciata.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Mettiamola cosí, allora: Pasticciere deve conservare la i perché fa parte integrante del suffisso -iere (dal latino -arius attraverso il francese -ier) che indica una professione, un mestiere, un'attività: banchiere, panettiere, romanziere, usciere, cameriere... pasticciere.Marco1971 ha scritto:No, caro Fausto, non si tratta del dittongo mobile: questa i è puramente grafica e non rappresenta alcun suono. Diverso il caso di sonare/suono, in cui la u è pronunciata.
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Codesta argomentazione mi convince di piú.
Tuttavia, le grafie pasticcere e uscere sono registrate; la prima si trova in B. Scappi (Cinquecento), la seconda presso Sacchetti (Trecento).
Per economia e coerenza tra pronuncia e grafia, io mi dichiaro a favore dell’espunzione di questa i (che manterrei però nelle forme verbali del congiuntivo dei verbi in -gnare, perché qui ha valore distintivo).

Per economia e coerenza tra pronuncia e grafia, io mi dichiaro a favore dell’espunzione di questa i (che manterrei però nelle forme verbali del congiuntivo dei verbi in -gnare, perché qui ha valore distintivo).
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Concordo in parteMarco1971 ha scritto: Per economia e coerenza tra pronuncia e grafia, io mi dichiaro a favore dell’espunzione di questa i (che manterrei però nelle forme verbali del congiuntivo dei verbi in
-gnare, perché qui ha valore distintivo).

in -gnare anche di quelli in
-gnere e -gnire: spegniamo, grugniamo.
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Rimando a questa scheda dell’Accademia della Crusca (già citata) e aggiungo che perfino il DOP ammette grafie come sognamo (p. XLV):
-gniamo [...] anche -gnamo [...] sogniamo o sognamo, spegniamo o spegnamo.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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