Gli avverbi in "-oni"
Moderatore: Cruscanti
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- Iscritto in data: mar, 19 set 2006 15:25
Gli avverbi in "-oni"
Molti forumisti non concorderanno con me su quanto sto per scrivere, anche perché sono smentito dai vocabolari e da illustri Autori (primo fra tutti il Manzoni). Ma tant’è. A mio avviso gli avverbi in -oni (cavalcioni, ginocchioni, etc.) – come tutti gli avverbi – non debbono essere preceduti dalla preposizione “a”: Giulio camminava carponi per non farsi vedere. Diciamo, per caso, a lentamente? Perché, dunque, a carponi, a ginocchioni, a tentoni e via dicendo?
«Nostra lingua, un giorno tanto in pregio, è ridotta ormai un bastardume» (Carlo Gozzi)
«Musa, tu che sei grande e potente, dall'alto della tua magniloquenza non ci indurre in marronate ma liberaci dalle parole errate»
«Musa, tu che sei grande e potente, dall'alto della tua magniloquenza non ci indurre in marronate ma liberaci dalle parole errate»
Tra gli avverbi in -oni, alcuni s’adoprano senza preposizione, altri con o senza. Mi limito a due casi.
A cavalcioni è la forma prevalente (30 occorrenze nella LIZ) contro 3 senza la ‘a’. L’esempio piú antico è di Sacchetti:
Per carponi/carpone, invece, non si trovano esempi colla preposizione (o almeno io non ne ho trovati). Non so da che cosa dipenda questo diverso trattamento, ma non si può certo considerare errato un uso presente in tutta la tradizione letteraria dal Trecento a oggi, poiché la correttezza della lingua non sempre si rifà a criteri di pretta logica grammaticale.
A cavalcioni è la forma prevalente (30 occorrenze nella LIZ) contro 3 senza la ‘a’. L’esempio piú antico è di Sacchetti:
Anche nel Boccaccio troviamo la preposizione, nella forma a cavalcione (nella lingua antica sembrano piú diffuse le forme in -one)....messer Dolcibene avendo fatto trarre le strabule al prete, lo fece salire su la botte a cavalcioni, e li sacri testicoli fece mettere per lo pertugio del cocchiume. (:D)
Per carponi/carpone, invece, non si trovano esempi colla preposizione (o almeno io non ne ho trovati). Non so da che cosa dipenda questo diverso trattamento, ma non si può certo considerare errato un uso presente in tutta la tradizione letteraria dal Trecento a oggi, poiché la correttezza della lingua non sempre si rifà a criteri di pretta logica grammaticale.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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