La pronunciò Giorgio Bassani in un'intervista del 1980 a proposito di un suo viaggio in America e di una mostra sull'Italia organizzata in Canada da Italia Nostra, e il cui scopo (riassumo malamente) era appunto ricollegare la cultura degli italo-americani a quella d'Italia (laddove erano rimasti ai busti del duce) ma anche a quella statunitense, cosicché potesse aprirsi e allo stesso tempo rendersi conto della propria identità.Perché i popolani italiani uscissero dal loro ghetto, non c'è mai stato che un mezzo, imparare il latino per poi passare all'italiano nazional-popolare del Manzoni. Era impensabile non passare attraverso il latino. Oggi, qui in America, invece del latino c'è l'inglese.
Unificazione linguistica nazionale
Moderatore: Cruscanti
Unificazione linguistica nazionale
Mi potreste spiegare questa frase?
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- Iscritto in data: ven, 10 giu 2005 11:33
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La frase del Bassani, per altro, almeno penso io, abbastanza chiara, credo intendesse dire:
1) in Italia c'è da sempre una tendenza all'elitarismo, anche linguistico. Chi non condivideva la lingua dell'aristocrazia intellettuale e aveva la sfortuna di non far parte di altre forme di aristocrazia (economica e militare, ad esempio) era considerato plebeo, popolano provinciale ergo individuo da ghettizzare in un ruolo di subalternità sociale e culturale.
2) In una certa epoca, chi cercava una posizione di non subalternità socioculturale, e non possedeva i mezzi economici per imporsi comunque, o non faceva parte di determinati circoli di potere, tentava, avendo un minimo di mezzi (il che era comunque difficile) di formarsi culturalmente. Marchio di questa formazione era il latino. Chi "sapeva di latino" denunciava per lo meno il fatto di aver avuto accesso a una formazione "non meccanica". Poteva inserirsi socialmente, quantomeno come elegante soprammobile umanistico o intellettuale ornamentale di qualche microcorte o castelluccio; o se non altro diventare "ajo, pedagogo e precettore" di qualche rampollo. Insomma, scherzi a parte, la conoscenza del latino, che per altro fino al primo Settecento era anche lingua internazionale della cultura, permetteva un minimo di promozione sociale a un ristretto numero di cosiddetti popolani. La possibilità di scrivere "in lingua toscana" pulita era un altro segnale di cultura, comunque non preferenzialissimo rispetto al latino. Insomma, per chi non era conte o duca o ricco mercante, acquisire la padronanza del latino significava acquisire il controllo del mezzo linguistico delle aristocrazie intellettuali e uscire almeno per certi aspetti dal ghetto del marchio della subalternità socioculturale (lasciando stare che il duca o il marchesotto rozzone al momento opportuno vi mettevano a posto comunque, con un secco "state co' pari vostri, scribacchino").
3) Nel periodo che va più o meno dal 1720 al 1860 il declino del latino si accompagna all'affermarsi delle borghesie nazionali fra Illuminismo, Romanticismo, rivoluzioni e irredentismi varii. Ne consegue che le lingue nazionali vengono prendendo piede sul latino, la cui egemonia culturare in pratica tramonta in concomitanza con il tracollo del vecchio regime e dei suoi pseudo-universalismi da Medioevo fuori stagione e da tardo Umanesimo imbolsito. Al posto del latino, alcune lingue nazionali prendono il posto di parlate egemoniche, spesso in ambiti settoriali. L'Italiano è universalmente la lingua della musica almeno fino al primo cinquantennio dell'Ottocento (ma già intorno al primo trentennio del secolo tale primato era più nominale che fattuale o comunque posto in forse), il Francese è la lingua dei Savants, della nuova cultura, della facile prosa, dei pamphlets delle riviste e delle gazzette. Il tedesco, fra Romanticismo e Idealismo, fino al trionfo della grande filologia, viene lentamente acquistando posizioni nell'ambito di settori vitali delle cosiddette scienze dello spirito. In Italia l'ascesa della borghesia si accompagna a un'ideologia da tardo illuminismo lombardo moderato travestito da rabberciati panni romantici; Leopardi, classicista feroce e accanito, è l'unico vero romantico che noi abbiamo mai avuto, ma la sua lingua, lucida e celebrale nella prosa, edonistica in poesia (neopetrarchista), non viene presa in considerazione come modello. Nel frattempo, Manzoni costruisce il suo modello "maneggevole" di lingua letteraria riadattata al parlato dei colti di Firenze (e ci mette vent'anni a mondare, risciacquare, delombardizzare e toscanizzare -fanfanizzare).
3) Nell'Italia del secondo Ottocento, i Promessi Sposi vengono adottati come classico normativo nazionale. Il romanzo è il libro dell'amor patrio, del livellamento linguistico, del medium della neoaristocrazia intellettuale borghese imbevuta di luoghi comuni romantici storici realistici e chi più ne ha più ne metta. A quel punto, il plebeo inurbato e inserito a forza nel sistema circoscrizionario e scolastico della neoformata nazione, deve apprendere la lingua manzoniana. Non si tratta più di cercare di emanciparsi dalla paupertas contadina della società preindustriale (come ai tempi del latino), ma di adattarsi allo Stato moderno che a fatica si fa strada nella penisola con le sue strutture, il suo centralismo, la sua lingua "unitaria".
4) Nell'America del secondo industrialismo, dove gli immigrati vengono disinfettati a mo' di capi di bestiame, parlare inglese ed emanciparsi dal dialetto e dalla lingua degli immigrati (che non parlavano certo italiano)
era emanciparsi dall'emarginazione e dalla marginalità sociale.
5) Nell'era della globalizzazione, l'inglese è la lingua franca del mercato e delle reti telematiche. Padroneggiarlo, significa non essere fuori dal sistema di interazione con il complesso informatico-tecnocratico. Anglizzare significa essere forti, non provinciali, inseriti in un circuito di conoscenze e di potere e di controllo preferenziali.
Questa, dal più al meno, esplicitata, la sintesi del Bassani.
1) in Italia c'è da sempre una tendenza all'elitarismo, anche linguistico. Chi non condivideva la lingua dell'aristocrazia intellettuale e aveva la sfortuna di non far parte di altre forme di aristocrazia (economica e militare, ad esempio) era considerato plebeo, popolano provinciale ergo individuo da ghettizzare in un ruolo di subalternità sociale e culturale.
2) In una certa epoca, chi cercava una posizione di non subalternità socioculturale, e non possedeva i mezzi economici per imporsi comunque, o non faceva parte di determinati circoli di potere, tentava, avendo un minimo di mezzi (il che era comunque difficile) di formarsi culturalmente. Marchio di questa formazione era il latino. Chi "sapeva di latino" denunciava per lo meno il fatto di aver avuto accesso a una formazione "non meccanica". Poteva inserirsi socialmente, quantomeno come elegante soprammobile umanistico o intellettuale ornamentale di qualche microcorte o castelluccio; o se non altro diventare "ajo, pedagogo e precettore" di qualche rampollo. Insomma, scherzi a parte, la conoscenza del latino, che per altro fino al primo Settecento era anche lingua internazionale della cultura, permetteva un minimo di promozione sociale a un ristretto numero di cosiddetti popolani. La possibilità di scrivere "in lingua toscana" pulita era un altro segnale di cultura, comunque non preferenzialissimo rispetto al latino. Insomma, per chi non era conte o duca o ricco mercante, acquisire la padronanza del latino significava acquisire il controllo del mezzo linguistico delle aristocrazie intellettuali e uscire almeno per certi aspetti dal ghetto del marchio della subalternità socioculturale (lasciando stare che il duca o il marchesotto rozzone al momento opportuno vi mettevano a posto comunque, con un secco "state co' pari vostri, scribacchino").
3) Nel periodo che va più o meno dal 1720 al 1860 il declino del latino si accompagna all'affermarsi delle borghesie nazionali fra Illuminismo, Romanticismo, rivoluzioni e irredentismi varii. Ne consegue che le lingue nazionali vengono prendendo piede sul latino, la cui egemonia culturare in pratica tramonta in concomitanza con il tracollo del vecchio regime e dei suoi pseudo-universalismi da Medioevo fuori stagione e da tardo Umanesimo imbolsito. Al posto del latino, alcune lingue nazionali prendono il posto di parlate egemoniche, spesso in ambiti settoriali. L'Italiano è universalmente la lingua della musica almeno fino al primo cinquantennio dell'Ottocento (ma già intorno al primo trentennio del secolo tale primato era più nominale che fattuale o comunque posto in forse), il Francese è la lingua dei Savants, della nuova cultura, della facile prosa, dei pamphlets delle riviste e delle gazzette. Il tedesco, fra Romanticismo e Idealismo, fino al trionfo della grande filologia, viene lentamente acquistando posizioni nell'ambito di settori vitali delle cosiddette scienze dello spirito. In Italia l'ascesa della borghesia si accompagna a un'ideologia da tardo illuminismo lombardo moderato travestito da rabberciati panni romantici; Leopardi, classicista feroce e accanito, è l'unico vero romantico che noi abbiamo mai avuto, ma la sua lingua, lucida e celebrale nella prosa, edonistica in poesia (neopetrarchista), non viene presa in considerazione come modello. Nel frattempo, Manzoni costruisce il suo modello "maneggevole" di lingua letteraria riadattata al parlato dei colti di Firenze (e ci mette vent'anni a mondare, risciacquare, delombardizzare e toscanizzare -fanfanizzare).
3) Nell'Italia del secondo Ottocento, i Promessi Sposi vengono adottati come classico normativo nazionale. Il romanzo è il libro dell'amor patrio, del livellamento linguistico, del medium della neoaristocrazia intellettuale borghese imbevuta di luoghi comuni romantici storici realistici e chi più ne ha più ne metta. A quel punto, il plebeo inurbato e inserito a forza nel sistema circoscrizionario e scolastico della neoformata nazione, deve apprendere la lingua manzoniana. Non si tratta più di cercare di emanciparsi dalla paupertas contadina della società preindustriale (come ai tempi del latino), ma di adattarsi allo Stato moderno che a fatica si fa strada nella penisola con le sue strutture, il suo centralismo, la sua lingua "unitaria".
4) Nell'America del secondo industrialismo, dove gli immigrati vengono disinfettati a mo' di capi di bestiame, parlare inglese ed emanciparsi dal dialetto e dalla lingua degli immigrati (che non parlavano certo italiano)
era emanciparsi dall'emarginazione e dalla marginalità sociale.
5) Nell'era della globalizzazione, l'inglese è la lingua franca del mercato e delle reti telematiche. Padroneggiarlo, significa non essere fuori dal sistema di interazione con il complesso informatico-tecnocratico. Anglizzare significa essere forti, non provinciali, inseriti in un circuito di conoscenze e di potere e di controllo preferenziali.
Questa, dal più al meno, esplicitata, la sintesi del Bassani.
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