António Figueira ha scritto:Uma entrevista
1 de Setembro de 2007 por António Figueira
Vasco Pulido Valente deu a meio de Agosto uma entrevista ao Diário Económico em que afirma, triste e zangado com a Pátria, como sempre, que Cavaco e Sócrates são “shallow” (uma palavra que, segundo diz, não tem equivalente em português), sem “um fundo cultural político, uma visão histórica do país, um pensamento organizado sobre a sociedade portuguesa”; já António Costa, de acordo com VPV, é menos “shallow” que os precedentes.
Três observações:
- VPV tem evidentemente razão: basta ouvir uma vez o PR ou o PM a falar em tecnocratês para perceber a sua incorrigível shallowness; o problema é que o mesmo VPV, que passa a vida e explicar-nos que a horrível plebeízação da nossa sociedade é uma decorrência inevitável da democracia e que quem a teme, a denúncia ou a combate é um ser perigoso, que vive noutro tempo, não se apercebe que se está queixar dos efeitos do seu próprio remédio: que queria ele que o pântano PS-PSD produzisse, reis-filósofos?
- VPV acha que António Costa é melhor que o chefe. Não sei de onde lhe vem essa convicção (nunca dei por que António Costa tivesse um “fundo cultural político” que fosse superior à sua simples apetência pelo poder), mas temo que ela diga mais sobre VPV do que sobre aqueles que ele analisa; é que António Costa, ao contrário de Sócrates e de Cavaco, é lisboeta, cursou direito e sabe-se de quem é filho e de onde vem. VPV parece ter medo de perder as suas referências.
- Enfim, diga-se que shallow tem tradução em português, e não é aquela que António José Teixeira sugere (superficial): shallow quer dizer improfundo (há uma diferença).
Il contrario di «profondo»
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Non sapevo che avessimo un problema, ma traduco le sciocchezze che hanno scritto:
António Figueira ha scritto:Un’intervista
1° settembre 2007 di António Figueira
Vasco Pulido Valente ha dato a metà agosto un'intervista al Diário Económico in cui afferma, triste e arrabbiato con la Patria, come sempre, che Cavaco e Sócrates sono “shallow” (una parola che, dice, non ha equivalente in portoghese), senza “un fondo culturale politico, una visione storica del paese, un pensiero organizzato sulla società portoghese”; António Costa, da un lato, d'accordo con VPV, è meno “shallow” dei precedenti.
Tre osservazioni:
- VPV ha evidentemente ragione: basta di sentire una volta il PR o il PM a parlare in tecnocratese per rendersi conto della sua incorreggibile shallowness; il problema è che lo stesso VPV, che passa la vita spiegandoci che l'orribile plebeizzazione della nostra società è una conseguenza inevitabile della democrazia e che chi la teme, la denuncia o la combatte è un essere pericoloso, che vive in un altro tempo, non si rende conto che si sta lagnando degli effetti della sua propria medicina: che voleva lui che il pantano PS-PSD producesse, re-filosofi?
- VPV crede che António Costa sia migliore del capo. Non so da dove gli venga questa convinzione (non mi è mai sembrato che António Costa avesse un “fondo culturale politico” che fosse superiore alla sua semplice appetenza per il potere), ma temo che essa dica di più su VPV che su quegli che egli analizza; il fatto è che António Costa, al contrario di Sócrates e di Cavaco, è di Lisbonna, ha studiato legge e si sa di chi è figlio e da dove viene. VPV sembra avere paura di perdere le sue referenze.
- Infine, si dica che shallow ha una traduzione in portoghese, e non è quella che António José Teixeira suggerisce (superficiale): shallow vuol dire improfondo (c'è una differenza).
Uomini di poca fede... che mi costringete a far gli straordinari...Marco1971 ha scritto: Credo che il giudizio di Bubu7 sia un po’ affrettato...

Solo di sfuggita noto che almeno qualcuna delle citazioni riportate da Marco mi sembra si riferisca a improfondare nel significato di 'sprofondare'.
Di antonimi profondo ne ha diversi (a seconda delle accezioni).
Traggo dal Dizionario dei sinonimi del Gabrielli (1967): alto, altissimo, elevato, sopraelevato, emergente, eminente, convesso, superficiale, esterno, leggero, facile.
E dal Dizionario moderno dei sinonimi e dei contrari del Rosselli (1997): basso, piccolo, superficiale, acuto, leggero, inconsistente, ottuso, fiacco, tiepido, poco, scarso.
Di collisioni quindi, checché ne dica Infarinato, il neologismo ne incontrerebbe parecchie.
Ma cerchiamo di capire come funziona questa storia delle collisioni facendoci aiutare dalla Grande grammatica italiana di consultazione (1995, I ed.).
Uno dei fenomeni che condiziona la creazione di neologismi è quello che va sotto il nome di «blocco».
Riporto testualmente (III vol., cap. X, par. 8.5, pp. 511-513):
Per concludere: vista la frotta dei sinonimi comuni che la parola incontrerebbe (anche una locuzione si può considerare un sinonimo) e visti i principi che, tendenzialmente, bloccano la formazione delle parole, non mi sembra che ci sia spazio nella lingua italiana per improfondo (nel significato di 'poco profondo').Con il nome di «blocco» si designa la tendenza delle Regole di Formazione di Parola ad evitare la formazione di sinonimi.
[...]
es. bisognosità è una parola che, se formata, non differirebbe da bisogno e pertanto non viene formata.
Affinché si abbia blocco, la parola «bloccatrice» e la parola «bloccata» devono avere lo stesso significato, cioè devono avere, oltre alla stessa categoria [nome, aggettivo...], anche le stesse proprietà sintattico-semantiche [astrattezza, concretezza...].
[...]
La capacità di una parola di funzionare da 'bloccatore' dipende anche dalla sua frequenza [parole molto frequenti bloccano più facilmente di parole rare: bisogno blocca bisognosità; acrimonia non blocca acrimoniosità]
[...]
Il blocco non si applica sempre [ma] esprime, [piuttosto], una tendenza generale ad evitare la moltiplicazione dei sinonimi.
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
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En passant: Bubu, non si senta mai costretto a intervenire immediatamente. Faccia con calma: l’aspettiamo!bubu7 ha scritto:…mi costringete a far gli straordinari...

Con «collisioni» intendevo «collisioni semantiche», quali, e.g., pesticida (= «insetticida») ~ peste, digitale (= «numerico») ~ digitale (= «del dito»)… che peraltro —sia detto di sfuggita— non hanno impedito a questi calchi di attecchire.bubu7 ha scritto:Di collisioni quindi, checché ne dica Infarinato, il neologismo ne incontrerebbe parecchie.
Qui, come già ricordato, di collisioni semantiche ci sarebbero soltanto quelle con le voci del verbo improfondare, che certo non rientra nel «vocabolario di base» e appartiene fra l’altro a un registro, il quale, proprio perché «alto», meglio le tollera.
Grazie della citazione, che però non mi pare rilevante.bubu7 ha scritto:Ma cerchiamo di capire come funziona questa storia delle collisioni facendoci aiutare dalla Grande grammatica italiana di consultazione (1995, I ed.).
Certo, non c’è nessun bisogno d’un neologismo quale improfondo e, certo, proprio per questo, difficilmente potrà attecchire nella lingua di tutt’i giorni (…anche se non ci metterei la mano sul fuoco, fosse mai che un politico o un qualche «personaggio di grido» si mettesse a lanciarlo). Ma, come testimoniano le [seppur poche] citazioni, non è di certo «improponibile»: è ben formato e, nel contesto e registro adeguati, assolutamente comprensibile.
Secondo me, invece, è fondamentale: il termine trova una lista di competitori, di alta frequenza, che ne impedisce l'attecchimento.Infarinato ha scritto: Grazie della citazione, che però non mi pare rilevante.
Non ho mai detto che il termine non è ben formato o che il prefisso non sia produttivo. Ma questi fattori, da soli, non sono sufficienti a rendere la proposta accettabile.
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Eh no, caro Bubu, Lei ha detto «improponibile» e continua a dire «proposta inaccettabile». La proposta è accettabile semplicemente perché risulta accettabile ed è persino stata usata da piú d’un parlante nativo: la «probabilità di attecchimento» [su larga scala] è altra cosa.bubu7 ha scritto:Non ho mai detto che il termine non è ben formato o che il prefisso non sia produttivo. Ma questi fattori, da soli, non sono sufficienti a rendere la proposta accettabile.
E comunque anche il fatto che
non è un criterio dalla validità assoluta ai fini del «blocco». Il blocco stesso —per citare la GGIC— è una tendenza.bubu7 ha scritto:il termine trov[i] una lista di competitori, di alta frequenza
Sono naturalmente d’accordo con Infarinato su tutti i punti.
Il luogo attira gli uccelli perché qui ogni anno nella stagione delle piogge si formano laghi improfondi, pieni di pesci.
...per sfoggiare l’abisso e la fermezza del poco-pensiero, di sciorinare l’improfonda analisi politica di un risultato elettorale...
Vediamo ora come s’inseriscono gli aggettivi gentilmente elencati da Bubu7:
...si formano laghi alti, altissimi, elevati, sopraelevati, emergenti, eminenti, convessi, superficiali, esterni, leggeri, facili, bassi, piccoli, superficiali, acuti, leggeri, inconsistenti, ottusi, fiacchi, tiepidi, pochi, scarsi.
Prescindendo dal fatto che molti di questi aggettivi non sono associabili alla parola laghi, quelli possibili non esprimono affatto il concetto di poca profondità.
Vi lascio fare l’esercizio con improfonda analisi e vedrete che di acconcio c’è solo superficiale, leggero, facile, inconsistente, che non esprimono esattamente lo stesso concetto: ogni scelta lessicale implica una determinata connotazione e un dato modo di guardare alle cose.
No, nei miei due esempi (quelli d’improfondità non possono essere confusi con un verbo) improfondo è aggettivo :bubu7 ha scritto:Solo di sfuggita noto che almeno qualcuna delle citazioni riportate da Marco mi sembra si riferisca a improfondare nel significato di 'sprofondare'.
Il luogo attira gli uccelli perché qui ogni anno nella stagione delle piogge si formano laghi improfondi, pieni di pesci.
...per sfoggiare l’abisso e la fermezza del poco-pensiero, di sciorinare l’improfonda analisi politica di un risultato elettorale...
Vediamo ora come s’inseriscono gli aggettivi gentilmente elencati da Bubu7:
...si formano laghi alti, altissimi, elevati, sopraelevati, emergenti, eminenti, convessi, superficiali, esterni, leggeri, facili, bassi, piccoli, superficiali, acuti, leggeri, inconsistenti, ottusi, fiacchi, tiepidi, pochi, scarsi.
Prescindendo dal fatto che molti di questi aggettivi non sono associabili alla parola laghi, quelli possibili non esprimono affatto il concetto di poca profondità.
Vi lascio fare l’esercizio con improfonda analisi e vedrete che di acconcio c’è solo superficiale, leggero, facile, inconsistente, che non esprimono esattamente lo stesso concetto: ogni scelta lessicale implica una determinata connotazione e un dato modo di guardare alle cose.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Per approfondire, riporto quanto taciuto nella citazione della GGIC da parte di Bubu7 (preciso che la mia edizione è quella del 1995 [vol. III, pp. 514-515]).
Il blocco non si applica sempre. Come si è detto sopra, si tratta piú di una tendenza generale che di una vera e propria restrizione delle regole di formazione di parola. Una parola come spaziosità, ad. es., dovrebbe essere bloccata, dato che il ‘bloccatore’ spazio è una parola frequente e dato che sia spazio che spaziosità sono nomi [+ astratto]:
(131) spazio –> spazioso –> spaziosità
In questo caso, si potrebbe dire che spaziosità non viene bloccato, perché non è completamente sinonimo col suo potenziale ‘bloccatore’, ma, come si vede, le distinzioni necessarie iniziano a farsi molto sottili.
Oltre alle modalità del blocco discusse sopra, il blocco può essere causato dalla presenza di «suffissi rivali». In questo caso, l’esistenza di (132a) blocca (132b):
(132a) contamina + zione
(132b) *contamina + mento
Non diversamente da quanto visto sopra, anche qui ci si trova di fronte a moltissime eccezioni, come si può intuire dai casi seguenti:
(133a) andamento / andatura
(133b) popolamento / popolazione
Il blocco esprime, dunque, una tendenza generale ad evitare la moltiplicazione dei sinonimi.
Se ne deduce che la regola del blocco non è punto una regola, come ben sottolineava sopra Infarinato. E mi spingerei oltre: è un’invenzione da grammatici con frale ancoraggio nella realtà linguistica. Prendiamo quest’affermazione (p. 514):
...bisognosità è una parola che, se formata, non differirebbe da bisogno e pertanto non viene formata.
A parte l’evidenza che Google Libri ci rivela (100 ricorrenze), non è necessario avere una laurea in linguistica per avvedersi che bisognosità e bisogno, se possono condividere alcune accezioni, differiscono invece sul piano della specificità e espressività semantica.
Se parlo del bisogno di una persona, posso riferirmi a vari bisogni (sentimentali, sessuali, economici, sportivi, nutritivi, ecc.); se invece parlo della bisognosità di una persona indico uno stato piú intenso – insisto sull’idea di carenza di qualcosa –, l’essere, appunto, bisognoso, diluito nel solo bisogno. Il conio non è dunque un semplice doppione, ma assume una funzione vicaria, tesa a rendere piú pregnante la comunicazione. (L’esempio di contaminamento qui sopra è addirittura fuori luogo: come potrebbe essere «bloccata » una parola che esisteva in italiano antico [è nel Battaglia]? Anche prendendo in esame la norma attuale, non è affatto escluso che un arcaismo torni in auge, come si vede, per questa stessa parola, in rete.)
Non ergiamoci dunque a vaticinatori dell’accettabilità delle parole invocando norme sovente contraddette dalla realtà, e lasciamo alla lingua, senza impastoiarla per grami motivi, la sua ínsita, imperitura demiurgicità.
Il blocco non si applica sempre. Come si è detto sopra, si tratta piú di una tendenza generale che di una vera e propria restrizione delle regole di formazione di parola. Una parola come spaziosità, ad. es., dovrebbe essere bloccata, dato che il ‘bloccatore’ spazio è una parola frequente e dato che sia spazio che spaziosità sono nomi [+ astratto]:
(131) spazio –> spazioso –> spaziosità
In questo caso, si potrebbe dire che spaziosità non viene bloccato, perché non è completamente sinonimo col suo potenziale ‘bloccatore’, ma, come si vede, le distinzioni necessarie iniziano a farsi molto sottili.
Oltre alle modalità del blocco discusse sopra, il blocco può essere causato dalla presenza di «suffissi rivali». In questo caso, l’esistenza di (132a) blocca (132b):
(132a) contamina + zione
(132b) *contamina + mento
Non diversamente da quanto visto sopra, anche qui ci si trova di fronte a moltissime eccezioni, come si può intuire dai casi seguenti:
(133a) andamento / andatura
(133b) popolamento / popolazione
Il blocco esprime, dunque, una tendenza generale ad evitare la moltiplicazione dei sinonimi.
Se ne deduce che la regola del blocco non è punto una regola, come ben sottolineava sopra Infarinato. E mi spingerei oltre: è un’invenzione da grammatici con frale ancoraggio nella realtà linguistica. Prendiamo quest’affermazione (p. 514):
...bisognosità è una parola che, se formata, non differirebbe da bisogno e pertanto non viene formata.
A parte l’evidenza che Google Libri ci rivela (100 ricorrenze), non è necessario avere una laurea in linguistica per avvedersi che bisognosità e bisogno, se possono condividere alcune accezioni, differiscono invece sul piano della specificità e espressività semantica.
Se parlo del bisogno di una persona, posso riferirmi a vari bisogni (sentimentali, sessuali, economici, sportivi, nutritivi, ecc.); se invece parlo della bisognosità di una persona indico uno stato piú intenso – insisto sull’idea di carenza di qualcosa –, l’essere, appunto, bisognoso, diluito nel solo bisogno. Il conio non è dunque un semplice doppione, ma assume una funzione vicaria, tesa a rendere piú pregnante la comunicazione. (L’esempio di contaminamento qui sopra è addirittura fuori luogo: come potrebbe essere «bloccata » una parola che esisteva in italiano antico [è nel Battaglia]? Anche prendendo in esame la norma attuale, non è affatto escluso che un arcaismo torni in auge, come si vede, per questa stessa parola, in rete.)
Non ergiamoci dunque a vaticinatori dell’accettabilità delle parole invocando norme sovente contraddette dalla realtà, e lasciamo alla lingua, senza impastoiarla per grami motivi, la sua ínsita, imperitura demiurgicità.
Ultima modifica di Marco1971 in data mer, 26 ago 2009 2:45, modificato 1 volta in totale.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Fra l'altro, contaminamento mi pare fosse discretamente attestato anche nell'800, e lo si trova pure nel Gabrielli. Non si può dire, quindi, che sia stato bloccato da contaminazione, al massimo si può dire che è stato scalzato da quest'ultimo, seguendo una generale tendenza che vede prevalere -zione su -mento; cosa indicata anche da Serianni (XV 35).
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Non c'è dubbio che il blocco, ossia dei limiti alla formazione delle parole, esista; occorre però tenere presente che ha modalità di attuazione diverse, come ad esempio manetta 'piccola leva' che blocca un possibile omonimo alterato di mano; oppure il blocco relativo alle basi polisemiche: l'aggettivo pieno ha un derivato nominale solo se è usato in senso traslato: il presidente ha i pieni poteri -> la pienezza dei poteri del presidente; ma il bicchiere è pieno -> *la pienezza del bicchiere; popolare ha il corrispondente prefissato come aggettivo qualificativo, ma non come aggettivo di relazione: un attore popolare - un attore impopolare, ma l'ira popolare - *l'ira impopolare. (Da Lessico e semantica di M. Dardano in Introduzione all'italiano contemporaneo. Le strutture.)
Possiamo dunque chiederci se esista una particolare modalità di attuazione 'parziale' che renda, non improponibile, ma certo nuovo e sorprendente improfondo. Mi sembra che un indizio ce lo dia il Klajn in Influssi inglesi nella lingua italiana, là dove scrive, discutendo degli influssi morfologici e sintattici, a proposito del prefisso in-, che agli inizi della sua storia l'italiano aveva ben poche negazioni con in-, generalmente ereditate dal latino (infelice ecc.); perciò era spesso necessario negare l'intera proposizione, adoperare i prefissi s- e dis- (privativi più che negativi) oppure avverbi come mal, poco ecc. (sott. mia).
Trattandosi di un processo troppo multiforme e incerto per esprimere una nozione elementare qual è la negazione (e qui bisognerebbe ricollegarsi a quanto scrive Fochi in Lingua in rivoluzione sui paroloni, ma lo rimandiamo a un'altra volta), già in Galileo appaiono neologismi in in- (come ci dice Migliorini), il loro numero aumenta ancora nell'Ottocento e da allora sono andati moltiplicandosi in progressione geometrica.
Esiste dunque un gran numero di locuzioni ormai cristallizzate nelle quali poco ha una vera e propria funzione negativa o contrariante; diciamo una proposta poco allettante ma non una proposta *inallettante, eventualmente una proposta sgradita se non vogliamo la litote; normalmente si dirà una lettura poco soave ma non una lettura insoave (anche se magari un poeta lo potrebbe scrivere), molto più probabilmente il comune parlante dirà una lettura sgradevole, deludente.
Ecco perché improfondo ci pare nuovo e sorprendente, poetico sì ma fuori del comune parlare: si scontra con un cristallizzato poco profondo o basso che il parlante nativo spontaneamente riconosce come l'usuale contrario di profondo. Magari attecchirà nella lingua comune, chi lo può dire? Ad esempio Migliorini nel 1938 osservava, a proposito dei nomi di agente dai verbi in -ire, che colpitore sorprendeva; oggi lo troviamo lemmatizzato.
Tirando le somme, mi pare che - allo stato attuale del lessico - usare improfondo significa voler raggiungere effetti speciali; mentre per un banale shallow si potrà tranquillamente usare, secondo il contesto, un altrettanto 'banale' poco profondo o basso o superficiale.
Possiamo dunque chiederci se esista una particolare modalità di attuazione 'parziale' che renda, non improponibile, ma certo nuovo e sorprendente improfondo. Mi sembra che un indizio ce lo dia il Klajn in Influssi inglesi nella lingua italiana, là dove scrive, discutendo degli influssi morfologici e sintattici, a proposito del prefisso in-, che agli inizi della sua storia l'italiano aveva ben poche negazioni con in-, generalmente ereditate dal latino (infelice ecc.); perciò era spesso necessario negare l'intera proposizione, adoperare i prefissi s- e dis- (privativi più che negativi) oppure avverbi come mal, poco ecc. (sott. mia).
Trattandosi di un processo troppo multiforme e incerto per esprimere una nozione elementare qual è la negazione (e qui bisognerebbe ricollegarsi a quanto scrive Fochi in Lingua in rivoluzione sui paroloni, ma lo rimandiamo a un'altra volta), già in Galileo appaiono neologismi in in- (come ci dice Migliorini), il loro numero aumenta ancora nell'Ottocento e da allora sono andati moltiplicandosi in progressione geometrica.
Esiste dunque un gran numero di locuzioni ormai cristallizzate nelle quali poco ha una vera e propria funzione negativa o contrariante; diciamo una proposta poco allettante ma non una proposta *inallettante, eventualmente una proposta sgradita se non vogliamo la litote; normalmente si dirà una lettura poco soave ma non una lettura insoave (anche se magari un poeta lo potrebbe scrivere), molto più probabilmente il comune parlante dirà una lettura sgradevole, deludente.
Ecco perché improfondo ci pare nuovo e sorprendente, poetico sì ma fuori del comune parlare: si scontra con un cristallizzato poco profondo o basso che il parlante nativo spontaneamente riconosce come l'usuale contrario di profondo. Magari attecchirà nella lingua comune, chi lo può dire? Ad esempio Migliorini nel 1938 osservava, a proposito dei nomi di agente dai verbi in -ire, che colpitore sorprendeva; oggi lo troviamo lemmatizzato.
Tirando le somme, mi pare che - allo stato attuale del lessico - usare improfondo significa voler raggiungere effetti speciali; mentre per un banale shallow si potrà tranquillamente usare, secondo il contesto, un altrettanto 'banale' poco profondo o basso o superficiale.
Ultima modifica di Freelancer in data mer, 26 ago 2009 22:43, modificato 1 volta in totale.
Re: Il contrario di «profondo»
Il problema è proprio questo, come ben sai. Non lo devo certo spiegare a te.Roberto ha scritto:Tirando le somme, mi pare che - allo stato attuale del lessico - usare improfondo significa voler raggiungere effetti speciali; mentre per un banale shallow si potrà tranquillamente usare, secondo il contesto, un altrettanto 'banale' poco profondo o basso o superficiale.
Nella lingua comune il neologismo è improponibile anche per le ragioni che ho esposto (era questa la risposta a Marco che affermava: "In tutti gli altri stili...").
Nella formazione dei neologismi, come va considerata la produttività dell'affisso (che è contestualizzata temporalmente; non è assoluta; è una tendenza) così va considerata la presenza di sinonimi banali (anch'essa contestualizzata temporalmente). E questo risponde anche a quanto hai riportato sul Migliorini del '38.
Posso concedere che in una frase di molto effetto o in una scrittura letteraria che ricerchi il peregrino, il neologismo sia ammissibile ma la mia obiezione era alla seguente affermazione di Marco:
Nella quasi totalità degli stili ci sono restrizioni, eccome!bubu7 ha scritto:Improfondo mi sembra improponibile: che un prefisso sia produttivo non implica automaticamente che qualsiasi produzione artificiale risulti accettabile. Sono tante le restrizioni che entrano in gioco: in genere un parlante nativo le rispetta inconsciamente...Marco1971 ha scritto:In tutti gli altri stili, dal momento che il neologismo è ben formato e comprensibile (o chiosato), non ci sono restrizioni.

La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
V. M. Illič-Svitič
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Re: Il contrario di «profondo»
Avrei forse dovuto aggiungere «restrizioni di questo tipo», ma mi era parso che dalla frase precedente si sarebbe evinto che parlavo dell’introduzione di parole correttamente foggiate ma non registrate. Rammenterà forse l’esempio che le feci anni fa: inscalfibile, creato (secondo il GRADIT) da Roberto Calasso nel suo bel libro Le nozze di Cadmo e Armonia nel 1988; allora era presente solo nel Devoto-Oli, ora dovrebbe essere incluso nelle recenti edizioni di vari dizionari. Vedendo l’assenza di tale voce nel vocabolario, Calasso avrebbe potuto optare per un’altra soluzione, ma era quell’immagine e quel suono che cercava, e bene fece a non lasciarsi imbrigliare per «sí picciol cosa».bubu7 ha scritto:Nella quasi totalità degli stili ci sono restrizioni, eccome!

Noto, d’altra parte, un’increscevole tendenza presso alcuni linguisti a asteriscare a tutto spiano senza gli opportuni controlli nella realtà delle manifestazioni loquelari. Mi riferisco a la pienezza del bicchiere qui sopra citato. Sarebbe bastato consultare anche solo il De Mauro per vedere che quest’accezione è la prima della parola pienezza (ho in serbo un esempio riportato dal Battaglia, se dovesse servire). Non è certo modo di dire comune, ma di qui a considerarlo agrammaticale, ce ne corre...
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Bastino questi tre esempi.
...trattando il concetto di pienezza della strada nella stessa maniera fisica in cui si suole intendere il concetto di pienezza della bottiglia. (Studi economici, Università di Napoli, 1962)
Spandere è piú affine a versare che a spargere; ed è un versare per troppa pienezza del vaso, o per qualche fessura del medesimo. (Dizionario dei sinonimi della lingua italiana di Stefano Pietro Zecchini, 1860, s.v. versare)
Mentre il catetere era chiuso non si versava orina: i pazienti avevano la sensazione della pienezza del recipiente e questa era così viva da... (Clinica chirurgica, vol. 26, 1919, p. 732)
...trattando il concetto di pienezza della strada nella stessa maniera fisica in cui si suole intendere il concetto di pienezza della bottiglia. (Studi economici, Università di Napoli, 1962)
Spandere è piú affine a versare che a spargere; ed è un versare per troppa pienezza del vaso, o per qualche fessura del medesimo. (Dizionario dei sinonimi della lingua italiana di Stefano Pietro Zecchini, 1860, s.v. versare)
Mentre il catetere era chiuso non si versava orina: i pazienti avevano la sensazione della pienezza del recipiente e questa era così viva da... (Clinica chirurgica, vol. 26, 1919, p. 732)
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Re: Il contrario di «profondo»
Bene. Sono contento che, alla fin fine, i nostri punti di vista non siano così distanti.Marco1971 ha scritto: Avrei forse dovuto aggiungere «restrizioni di questo tipo»...
Solo per avere un pretesto per nominare il compianto professor Castellani riporto la seguente citazione in cui, ricordando l'opera e la figura di Bruno Migliorini, scriveva:
I lavori del Migliorini contengono preziose indicazioni sugli elementi che caratterizzano un neologismo di buona fattura [...] e su quelli che ne possono favorire la diffusione. [...] Essi sono: l'utilità; la coerenza al sistema fonologico e morfologico della lingua; il non coincidere e non interferire con altre parole esistenti.
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
V. M. Illič-Svitič
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