Ferdinand Bardamu ha scritto:Femminicidio sembra avere una connotazione propagandistica, se cosí vogliamo dire. Il suo significato proprio è limitato a vicende storiche particolari – come quelle ricordate da domna charola – e alle loro (si spera) improbabili riproposizioni moderne.
Eppure, oltre ad avere una sua forza espressiva volutamente esagerata, la parola non manca di centrare almeno parte della verità. Non voglio prender le parti di nessuno riguardo a quest’uso; tuttavia, non si può non notare, con la Maraini, che «[l]e statistiche ci dicono che […] ogni due giorni muore una donna per mano di un uomo, che spesso è anche suo marito o suo compagno di vita».
Che questi delitti siano originati da un consapevole e deliberato odio di genere, non credo ci sia qualcuno sano di mente che possa pensarlo. Però si può pensare che questa violenza nei confronti delle donne affondi le radici in una certa mentalità persistente, che ripropone un rapporto di forza tra i sessi ancora legato a un supposto predominio dell’uomo.
In questo senso, la carica espressiva di femminicidio serve a coinvolgere l’opinione pubblica e a additare quel che è percepito come un problema di rapporti tra uomo e donna, non come una semplice questione di passionalità amorosa.
Dunque, a dispetto d’improprietà ed esagerazioni, la parola è comunicativamente efficace, come dimostra il fatto che siamo qui a discutere non della sua grammaticalità, ma dell’opportunità di adoperarla.
Ha ragione, ma vede, proprio la connotazione propagandistica dovrebbe
sconsigliare l’uso del termine. Il tema è molto delicato, senza dubbio. A mio avviso, l’introduzione di «
femminicidio» non è un fenomeno semplicemente linguistico, ma
neolinguistico in senso orvelliano (il rimando a Wikipedia è solo per completezza).
È arduo contestare quanto lei scrive: «il suo significato proprio è limitato a vicende storiche particolari […] e alle loro […] improbabili riproposizioni moderne». E ancora: «che questi delitti siano originati da un consapevole e deliberato odio di genere, non credo ci sia qualcuno sano di mente che possa pensarlo».
Per contro, «si può» certamente «pensare che questa violenza nei confronti delle donne affondi le radici in una certa mentalità persistente, che ripropone un rapporto di forza tra i sessi ancora legato a un supposto predominio dell’uomo». In questo caso siamo però già di fronte a una scelta ideologica della cui giustificazione è lecito dubitare.
L’osservazione della Maraini ‒ «[l]e statistiche ci dicono che […] ogni due giorni muore una donna per mano di un uomo, che spesso è anche suo marito o suo compagno di vita» ‒, ad esempio, è forse degna di nota ma del tutto decontestualizzata e vaga. Fonti piú scrupolose, e non sospette, leggono i dati statistici in modo
assai diverso.
Sapendola molto sensibile all’uso corretto di questo forum le assicuro che la mia non è una battaglia politica, ma eminentemente linguistica. La discutibilità dei concetti si riflette pesantemente sulle parole, che sono poi l’unico mezzo pratico per dar loro vita: non nascondiamoci dietro all’intramontabile dito.
In omaggio al discutibile concetto di «
femminicidio», calato in un apposito lemma, abbiamo assistito all’introduzione di norme penali probabilmente, almeno in parte, indegne di un paese civile (veda al riguardo il citato articolo di Mazzola).
In questo modo la lingua viene messa al servizio di un progetto politico, piú o meno chiaro. Tutto ciò equivale a snaturamento della (funzione della) lingua, non a caso propedeutico a quello del diritto.
È un orrore che trascende l’orrore già indicibile del suono della parola, almeno per orecchie avvezze a una miglior considerazione della donna (senza dimenticare l’offesa indiretta all’uomo).