È possibile, ma la spiegazione piú probabile rimane quella implicitamente data dall’Agostiniani.Ligure ha scritto: sab, 04 gen 2020 17:25 E' possibile che un autore che, evidentemente, conosceva approfonditamente la parlata locale - tanto da poter trattare anche dei suoi diversi registri comunicativi e analizzare aspetti così specifici come gl'idiotismi - s'ingannasse e segnalasse graficamente consonante semplice, se effettivamente vi fosse stata geminazione, in un'epoca in cui - evidentemente - il fenomeno linguistico, per quanto "stigmatizzato", risultava ancora diffuso e non facilmente "eliminabile" da parte dei parlanti appartenenti alle classi sociali più umili?
Appare evidente, quindi, che, se all’epoca la realizzazione [prevalente] era [ancora] di tipo consonantico (cioè un [ʎ] o un [j] o un qualcosa d’intermedio —e il commento del Salviati, contemporaneo del Beni, sembrerebbe confermarlo [si veda ancora Agostiniani 1982, loc. cit., poco sopra]), scritture quali faisa, ascoita o aitro dovevano rappresentare pronunce quali [ˈfaʎːsa, -jːs-], [asˈkoʎːta, -jːt-] e [ˈaʎːtɾo, -jːt-], rispettivamente. Ergo, nessuna scempia, ma consonante preceduta da sillaba chiusa, come negli originari falsa /fa̍lsa/ [ˈfalːsa], ascolta /asko̍lta/ [asˈkolːta] e altro /a̍ltro/ [ˈalːtɾo].Agostiniani (1982), loc. cit., ha scritto:L’impressione generale — ma tutta la questione andrà ripresa — è che anche qui, come in amiatino orientale, vedi sopra, la palatalizzazione di [l] preconsonantica si realizzi in un ventaglio di foni diversi, di cui [ʎ] e [j] sembrano essere solo i piú frequenti, o quelli comunque «emergenti». In questo ordine di idee, si chiarisce e si precisa il senso della alternanza, dal Cinquecento a tutto l’Ottocento, della grafia il, tipo il coilpo ecc. (la cui interpretazione piú ovvia e quella di un digramma, che vuole rappresentare in sequenza lineare i due tratti di ‘palatalità’ e ‘lateralità’ presenti simultaneamente in [ʎ]) con la grafia i (evidente resa di [j] o [i] o valori intermedi): non documentazione di fatti evolutivi, ma tentativo di normalizzare, di volta in volta assumendo — secondo un procedimento che è tipico della scrittura — uno dei foni come rappresentativo di tutta la classe.
Vorrei peraltro far notare come la richiamata «condizione di buona formazione sillabica» sia —mi cito— «costantemente violata fuor di tonia: non solo da parole con sillaba aperta accentata che (com’è naturale) vengono a trovarsi frequentemente in posizione pre- o postonica, ma anche dalle ‹apocopi toscane› [polisillabiche (…)]» —anzi, proprio dalle apocopi toscane. Infatti, se nel caso di parole con sillaba aperta accentata che vengano a trovarsi in posizione pre- o postonica possiamo parlare di «accorciamento contestuale di sillabe normalmente lunghe» (tra virgolette anche perché, com’è noto, la durata vocalica non è distintiva in italiano, ergo quel «normalmente» non può in alcun modo riferirsi a una struttura fonologica profonda), nelle apocopi toscane una sillaba lunga (dittongo) si abbrevia (cioè, si monottonga senza allungarsi) proprio in un contesto (o meglio, anche in un contesto) in cui farebbe bene a non farlo per non violare la suddetta condizione di buona formazione sillabica.
Riassumendo: se il fiorentino antico elimina sistematicamente i dittonghi etimologici del tipo /Vi̯/ che costituivano il nucleo di sillabe aperte (non finali) [-V(ˑ)i-], non lo fa certo per rispettare la condizione di buona formazione sillabica. Semplicemente, si ha monottongazione di [Vi], che, avvenendo in sillaba aperta, in italiano, per la suddetta condizione, non può dare che [Vː].
Ma la tendenza alla monottongazione di tali sequenze è cosí forte da eliminarle anche in fonosintassi tramite l’«apocope toscana» (e.g., vorre’ parlare), anche se in questo caso si viene a violare [seppur solo fuor di tonia] la condizione di buona formazione sillabica, rimanendo quella [ɛ] (piú propriamente [ᴇ]) breve (…il fenomeno dev’essere antico se troviamo degli abbandonere’ti, dei donera’gli, dei fa’mi, dei fu’mi, dei paga’gli, dei morra’ti, dei vuo’lo: alcuni di questi ricorrono in tonia, in rima addirittura, per cui in tali contesti bisognerà ipotizzare una pronuncia con [Vː], possibilità questa non contemplata [sia in termini di tonia sia di vocoide allungato] dal toscano moderno).
Ma stiamo divagando.

Nel caso di [-VlˈC- > -VʎˈC- > -VjˈC- > -ViCˈC-], invece, si parte da sillaba chiusa, che deve rimanere tale, sicché nel momento in cui l’elemento palatale si vocalizza completamente, l’unica possibilità (perlomeno in italiano) è che il segmento consonantico successivo si rafforzi. Per fare un esempio di castellaniana memoria, se da questo [-esːt-] togliamo la t, si ottiene quesso [-esːs-], non certo queso [-eːs-].
E, comunque, se la può fare stare piú tranquillo, esempi di [ViCˈCV] come aimmè e oimmè sono attestati anche nel fiorentino due-trecentesco.
