I nemici fanno l’unità d’una nazione?

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Marco1971
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I nemici fanno l’unità d’una nazione?

Intervento di Marco1971 »

Propongo di séguito un articolo di Umberto Eco apparso su Repubblica il 16 maggio 2008 perché mi pare che dia qualche spunto in piú per definire cosa fa l’unità nazionale (ho messo una frase in grassetto) – e, di conseguenza, la scarsa attenzione dei piú per le sorti della lingua. M’interesserebbe conoscere i vostri pareri. L’ho ricopiato (aggiustando i corsivi e gli apostrofi, ecc.) perché non si sa se il collegamento sarà sempre funzionante.

L’arte sublime di denigrare il nemico

Repubblica — 16 maggio 2008 pagina 1 sezione: PRIMA PAGINA

Anni fa a New York sono capitato con un tassista dal nome di difficile decifrazione, e mi ha chiarito che era pakistano. Mi ha chiesto da dove venivo, gli ho detto dall’Italia, mi ha chiesto quanti siamo ed è stato colpito che fossimo così pochi e che la nostra lingua non fosse l’inglese. Infine mi ha chiesto quali sono i nostri nemici. Al mio «prego?» ha chiarito pazientemente che voleva sapere con quali popoli fossimo da secoli in guerra per rivendicazioni territoriali, odi etnici, continue violazioni di confine, e così via. Gli ho detto che non siamo in guerra con nessuno. Pazientemente mi ha spiegato che voleva sapere quali sono i nostri avversari storici, quelli che loro ammazzano noi e noi ammazziamo loro. Gli ho ripetuto che non ne abbiamo, che l’ultima guerra l’abbiamo fatta cinquanta e passa anni fa, e tra l’altro iniziandola con un nemico e finendola con un altro. Non era soddisfatto. Come è possibile che ci sia un popolo che non ha nemici? Sono sceso lasciandogli due dollari di mancia per compensarlo del nostro indolente pacifismo, poi mi è venuto in mente che cosa avrei dovuto rispondergli, e cioè che non è vero che gli italiani non hanno nemici. Non hanno nemici esterni, e in ogni caso non sono mai in grado di mettersi d’accordo per stabilire quali siano, perché sono continuamente in guerra tra di loro. Pubblichiamo una sintesi d’autore dell’intervento che Umberto Eco ha tenuto ieri nell’ambito del ciclo “Elogio della politica”, diretto da Ivano Dionigi, all’Università di Bologna Pisa contro Livorno, Guelfi contro Ghibellini, nordisti contro sudisti, fascisti contro partigiani, mafia contro stato, governo contro magistratura - e peccato che all’epoca non ci fosse ancora stata la caduta del secondo governo Prodi altrimenti avrei potuto spiegargli meglio cosa significa perdere una guerra per colpa del fuoco amico. Però, riflettendo meglio su quell’episodio, mi sono convinto che una delle disgrazie del nostro paese, negli ultimi sessant’anni, è stata proprio di non avere avuto veri nemici. L’unità d’Italia si è fatta grazie alla presenza dell’austriaco o, come voleva Berchet, dell’irto e increscioso alemanno, Mussolini ha potuto godere del consenso popolare incitandoci a vendicarci della vittoria mutilata, delle umiliazioni subite a Dogali e ad Adua e delle demoplutocrazie giudaiche che ci infliggevano le inique sanzioni. Si veda che cosa è accaduto agli Stati Uniti quando è scomparso l’Impero del Male e il grande nemico sovietico si è dissolto. Rischiavano il tracollo della loro identità sino a che Bin Laden, memore dei benefici ricevuti quando veniva aiutato contro l’Unione Sovietica, ha porto agli Stati Uniti la sua mano misericordiosa e ha fornito a Bush l’occasione di creare nuovi nemici rinsaldando il sentimento d’identità nazionale, e il suo potere. Avere un nemico è importante non solo per definire la nostra identità ma anche per procurarci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori e mostrare, nell’affrontarlo, il valore nostro. Pertanto quando il nemico non ci sia, occorre costruirlo. Si veda la generosa flessibilità con cui i naziskin di Verona eleggevano a nemico chiunque non appartenesse al loro gruppo, pur di riconoscersi come gruppo. Ed ecco che questa sera non ci interessa tanto il fenomeno quasi naturale di individuazione di un nemico che ci minaccia, quanto il processo di produzione e demonizzazione del nemico. Nelle Catilinarie Cicerone non avrebbe avuto bisogno di disegnare una immagine del nemico perché del complotto di Catilina aveva le prove. Ma lo costruisce quando, nella seconda orazione, dipinge ai senatori l’immagine degli amici di Catilina, riverberando sul principale accusato il loro alone di perversità morale (...). Un diverso per eccellenza è lo straniero. Già nei bassorilievi romani i barbari appaiono come barbuti e camusi, e lo stesso denominativo di barbari come è noto allude a un difetto di linguaggio e quindi di pensiero. Tuttavia sin dall’inizio vengono costruiti come nemici non tanto i diversi che ci minacciano direttamente (come sarebbe il caso dei barbari), bensì coloro che qualcuno ha interesse a rappresentare come minacciosi anche se non ci minacciano direttamente, così che non tanto la loro minacciosità ne faccia risaltare la diversità, ma la loro diversità diventi segno di minacciosità. Si vedano i proclami contro i riti dionisiaci (di origine straniera) e quanto Tacito dice degli ebrei: «profano è per loro tutto quello che è sacro per noi e quanto è per noi impuro per loro è lecito» (e viene in mente il ripudio anglosassone per i mangiatori di rane francesi o quello tedesco per gli italiani che abusano d’aglio). Gli ebrei sono «strani» perché si astengono dalla carne di maiale, non mettono lievito nel pane, oziano il settimo giorno, si sposano solo tra loro, si circoncidono (si badi) non perché sia una norma igienica o religiosa, ma «per marcare la loro diversità», seppelliscono i morti e non venerano i nostri Cesari. Una volta dimostrato quanto siano diversi alcuni costumi reali (circoncisione, riposo del sabato) si può sottolineare ulteriormente la diversità inserendo nel ritratto costumi leggendari (consacrano l’effigie di un asino, spregiano genitori, figli, fratelli, la patria e gli dei) (...). Nuova forma di nemico sarà poi, con lo svilupparsi dei contatti tra i popoli, non solo quello che sta fuori e che esibisce la sua stranezza da lontano, ma quello che sta tra noi, oggi diremmo l’immigrato extracomunitario, che in qualche modo si comporta in modo diverso o parla male la nostra lingua, e che nella satira di Giovenale è il greculo furbo e truffaldino, sfrontato, libidinoso, capace di stendere sul letto la nonna di un amico (...). Il nemico sempre puzza, e tale Berillon all’inizio della guerra mondiale (1915) scriveva un La polychesie de la race allemande dove dimostrava che il tedesco medio produce più materia fecale del francese, e di odore più sgradevole (...). Mostruoso e puzzolente sarà, almeno dalle origini del cristianesimo, l’ebreo, visto che il suo modello è l’Anticristo, l’arcinemico, il nemico non solo nostro ma di Dio (...). Talora il nemico è percepito come diverso e brutto perché è di classe inferiore. In Omero Tersite («storto, zoppo di un piede; le spalle curve e ripiegate sul petto; la testa a punta coperta di una rara peluria, Iliade, II, 212) è socialmente inferiore ad Agamennone o ad Achille e pertanto invidioso di loro. Tra Tersite e il Franti di De Amicis c’è poca differenza, brutti entrambi, Ulisse percuote a sangue il primo e la società manderà Franti all’ergastolo (...). Pare che del nemico non si possa fare a meno. La figura del nemico non può essere abolita dai processi di civilizzazione. Il bisogno è connaturato anche all’uomo mite e amico della pace. Semplicemente si sposta allora l’immagine del nemico da un oggetto umano a una forza naturale o sociale che in qualche modo ci minaccia e che deve essere vinta, sia essa lo sfruttamento capitalistico, l’inquinamento ambientale, la fame del terzo mondo. Ma se pure questi sono casi “virtuosi”, ci ricorda Brecht che anche l’odio per l’ingiustizia stravolge la faccia. L’etica è dunque impotente di fronte al bisogno ancestrale di avere nemici? Direi che l’istanza etica sopravviene non quando si finge che non ci siano nemici, bensì quando si cerca di capirli, di mettersi nei loro panni. Non c’è in Eschilo un astio verso i persiani, la cui tragedia egli vive tra loro e dal loro punto di vista. Cesare tratta i Galli con molto rispetto, al massimo li fa apparire un poco piagnoni ogni volta che si arrendono, e Tacito ammira i germani, trovandoli anche di bella complessione, limitandosi a lamentare la loro sporcizia e la loro renitenza ai lavori faticosi perché non sopportano caldo e sete. Cercare di capire l’altro significa distruggerne il cliché, senza negarne o cancellarne l’alterità. Ma siamo realisti. Queste forme di comprensione del nemico sono proprie dei poeti, dei santi, o dei traditori. Le nostre pulsioni più profonde sono di ben altro ordine (...). Se è così, la costruzione del nemico deve essere intensiva e costante. Ce ne offre un modello veramente esemplare George Orwell in 1984: «Come al solito, la faccia di Emmanuel Goldstein, il Nemico del Popolo, era apparsa sullo schermo. S’udì qualche fischio, qua e là, fra i presenti. La donnetta dai capelli color sabbia diede in una sorta di gemito in cui erano mescolati paura e disgusto. Prima ancora che fossero passati una trentina di secondi d’Odio, incontrollabili manifestazioni di rabbia ruppero fuor da una metà del pubblico nella sala. Durante il suo secondo minuto, l’Odio arrivò fino al delirio. La gente si levava e si rimetteva a sedere con gran rimestio, e urlava quanto più poteva nello sforzo di coprire il belato di quella voce maledicente che veniva dallo schermo. La donnetta dai capelli color sabbia era diventata rossa come un peperone e apriva e chiudeva la bocca come un pesce tratto fuor d' acqua. La bruna dietro a Winston aveva cominciato a strillare: “Porco! Porco! Porco!”. Winston si accorse che anche lui stava strillando come tutti gli altri, e batteva furiosamente i tacchi contro il piolo della sedia. La cosa più terribile dei Due Minuti d’Odio non consisteva tanto nel fatto che bisognava prendervi parte, ma, al contrario, proprio nel fatto che non si poteva trovar modo di evitare di unirsi al coro delle esecrazioni. Una fastidiosa estasi mista di paura e di istinti vendicativi, un folle desiderio d’uccidere, di torturare, di rompere facce a colpi di martello percorreva l' intero gruppo degli astanti come una sorta di corrente elettrica, tramutando ognuno, anche contro la sua stessa volontà, in un paranoico urlante e sghignazzante». Non è necessario raggiungere i deliri di 1984 per riconoscerci come esseri che hanno bisogno di un nemico. Le recenti elezioni ci hanno mostrato quanto può la paura dei nuovi flussi migratori. Allargando a una intera etnia le caratteristiche di alcuni suoi membri che vivono in una situazione di marginalizzazione, si sta oggi costruendo in Italia l’immagine del nemico rumeno, capro espiatorio ideale per una società che, travolta in un processo di trasformazione anche etnica, non riesce più a riconoscersi. La visione più pessimistica in proposito è quella di Sartre in Huis clos. Da un lato possiamo riconoscere noi stessi solo in presenza di un Altro, e su questo si reggono le regole di convivenza e mansuetudine. Ma più volentieri troviamo quest’Altro insopportabile perché in qualche misura non è noi. Così che riducendolo a nemico ci costruiamo il nostro inferno in terra. Quando Sartre chiude tre defunti, che in vita non si conoscevano, in una camera d’albergo, uno di essi capisce la tremenda verità: «Guardate che cosa semplice: insipida come una rapa. Non c’è tortura fisica, va bene? Eppure, siamo all’inferno. E nessun altro deve arrivare, qui. Nessuno. Fino alla fine, noi tre soli, insieme. Manca il boia. Hanno realizzato una economia di personale. Ecco tutto. Il boia, è ciascuno di noi per gli altri due». – UMBERTO ECO
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Decimo
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Re: I nemici fanno l’unità d’una nazione?

Intervento di Decimo »

In proposito vale la pena rimandare, per completezza, alle interessanti considerazioni di Domenico Losurdo sulla formazione dell’identità italiana a ridosso del Risorgimento:

Lo stesso Risorgimento italiano può essere esaminato alla luce del conflitto tra culture. Ridotta a semplice espressione geografica dal paese che la domina e la occupa, l’Italia deve costruire la sua identità per poter rivendicare e affermare la sua indipendenza anche sul piano politico. Non mancano tendenze a costruire un’identità sostanzialmente sottratta alla storia e quindi di tipo in qualche modo fondamentalistico. Si spiegano certi tratti della filosofia di Gioberti: egli celebra il «primato morale e civile degli italiani», si rifà a una mitica popolazione originaria (i Pelasgi); si propone di creare una scuola filosofica «cattolica, moderata, antifrancese, antigermanica e veramente italiana; la quale colla sua influenza distrugga il male fatto da tre secoli». In questo quadro vanno collocati alcuni motivi presenti nello stesso inno di Mameli che inneggia all’«elmo di Scipio» e alle glorie degli antichi Romani. (Domenico Losurdo, Il linguaggio dell’Impero, Laterza, Roma-Bari 2007, § II.8)

Aggiunge però:

Naturalmente, i movimenti nazionali di liberazione possono trovare e trovano anche espressioni piú mature. Nel polemizzare con coloro che esigono l’espulsione patriottica dall’Italia della «filosofia tedesca», i cui testi parlano la stessa lingua dalle truppe austriache d’occupazione, Bertrando Spaventa contrappone la tesi della circolazione del pensiero: non è pensabile senza il Rinascimento italiano la filosofica classica tedesca; richiamarsi a quest’ultima non è un atto di tradimento; è privo di senso storico contrapporre tradizioni nazionali stereotipe e senza rapporti reciproci. (Ivi; per le diverse tendenze nel Risorgimento italiano, cfr id., Dai fratelli Spaventa a Gramsci, La Città del Sole-IISF, Napoli 1997, cap. V)
V’ha grand’uopo, a dirlavi con ischiettezza, di restaurar l’Erario nostro, già per somma inopia o sia di voci scelte dal buon Secolo, o sia d’altre voci di novello trovato.
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