La Crusca sullo spread e altri «mostri» della finanza

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Ferdinand Bardamu
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La Crusca sullo spread e altri «mostri» della finanza

Intervento di Ferdinand Bardamu »

Un articolo dell’Accademia della Crusca sul linguaggio della finanza. Alcune osservazioni personali:
Antonio Gambaro, [i]L’italiano giuridico che cambia - Il punto di vista del privatista[/i] ha scritto:la ragione per cui nel sottosettore del diritto bancario e finanziario l’italiano giuridico ha adottato una terminologia inglese non è l’esterofilia del legislatore, è che nella lingua italiana mancano le parole per designare certi oggetti giuridici di nuovo conio. I francesi che hanno adottato la strategia opposta e traducono tutto, essendo vincolati a farlo dalla c.d. Loi Turbon, non si trovano in posizione diversa. Le parole che si leggono nei testi ufficiali francesi possono suonare familiari al francofono però quando si tratta di 'negocier des indices' il senso dell’operazione è quello stabilito da una prassi internazionale che parla inglese
Non mi convince molto quest’argomentazione. D’accordo, i francesi «traducono tutto» (è un male?), e il significato dei termini tradotti è «quello stabilito da una prassi internazionale che parla inglese». E con ciò? Occorre che un concetto, una prassi, un oggetto siano nati in Italia perché abbiano un nome italiano? Per questa ragione, dovremmo chiamare la cioccolata chocolatl o il pomodoro xitomatl?

La Crusca però ci potrebbe rispondere che «[l]e diverse nazioni europee singolarmente, e l’Italia in particolare, non hanno avuto né il tempo né il peso economico per contrapporre alternative nel settore della finanza e nella legislazione che lo regola». Queste, però, mi sembrano scuse. La traduzione di termini d’origine inglese comparirebbe in documenti italiani, la cui circolazione, ovviamente, è limitata all’Italia. Il peso economico servirebbe se fossimo noi a voler imporre qualche concetto nostrale agli altri. Quanto al tempo, be’, quanto tempo occorre per tradurre una parola?

La conclusione dell’articolo è questa:
Matilde Paoli ha scritto:Attualmente, se nella comunicazione “normale” o in ambiti specialistici di lunga tradizione nel nostro Paese, di fronte all’uso di termini importati da altre lingue e in particolare dall’inglese o dall’angloamericano, è già possibile un intervento propositivo (più che normativo) da parte della comunità intellettuale, tale intervento è di più difficile attuazione nel campo dell’alta finanza. Sicuramente più facile sarebbe agire nel senso della chiarificazione dei termini quando questi in qualche modo ricadono sui cittadini, chiarificazione spesso necessaria e auspicabile anche quando i termini o le espressioni appartengono a pieno titolo alla nostra lingua, almeno dal punto di vista formale.
Il problema, infatti, non è solo degli specialisti che s’abbandonano alla corrente; è anche e soprattutto dei tiggí e dei giornali che danno per scontato che tutti capiscano l’inglese, e l’inglese tecnico per giunta. Nell’articolo si ricorda che in Ispagna spread «si trova soprattutto all’interno degli articoli in corsivo e con traduzione tra parentesi, mentre nei titoli appare spesso il corrispettivo in lingua spagnola prima de riesgo». È cosí difficile fare altrettanto?
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Carnby
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Intervento di Carnby »

Basterebbe che qualche economista italofono l'avesse chiamato divario (con differenziale i matematici si scatenano) e oggi nessuno parlerebbe di spread.
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Ferdinand Bardamu
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Intervento di Ferdinand Bardamu »

Appunto. Serve peso economico per tradurre una parola in italiano?
PersOnLine
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Intervento di PersOnLine »

Gli italiani sono un popolo indisciplinato: già hanno scarso successo le risoluzioni normative, figuriamoci un mero intervento «propositivo». La verità è che basterebbe intervenire prevedendo che nella comunicazione dalla, tra e con la pubblica amministrazione si debbano usare solo parole e locuzioni italiane (magari istituendo un dizionario ufficiale dei traducenti) e già questo basterebbe per mettere in giro nuove parole italiane e rivitalizzarne l’uso; così come se la RAI si desse semplicemente un codice di autoregolamentazione linguistica, ciò basterebbe innescare un circolo virtuoso all’interno della comunicazione dei media, visto che la RAI è ancora un modello e ha ancora una sua istituzionalità.

Ma neanche semplici interventi come questi verranno mai adottati, a mio avviso per tre ordini di motivi: la pigrizia, non solo del parlante, ma anche di chi dovrebbe avere o sentire il compito di tutelare la lingua come bene culturale (intellettuali, linguisti e la Crusca); l’ipocrisia, che un po’ permea nostra cultura, per cui ci piace ammantarci di anglosassonità per credere o far credere di essere diventati improvvisamente più “virtuosi”; e la pavidità di chi potrebbe/dovrebbe fare, ma non fa, per la paura dei soliti accostamenti col fascismo che saltano fuori ogni volta che si tenta una minima politica di tutela culturale.
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Loi Turbon? :lol: No, è la loi TOUbon.

Per il resto, non ho altro da aggiungere a quanto è stato lucidamente detto da Ferdinand.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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