Un conato di italianità?

Spazio di discussione su questioni che non rientrano nelle altre categorie, o che ne coinvolgono piú d’una

Moderatore: Cruscanti

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Decimo
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Un conato di italianità?

Intervento di Decimo »

Probabilmente non riceverò i commenti che richiedo... Chiamo in causa particolarmente Freelancer, Giulia Tonelli, bubu7 e Bue.
Confidando che Infarinato, Marco, Incarcato e Federico daranno i loro pareri: questo è il mondo di fuori che chiedo commentiate, una diatriba tra uno dei soliti propugnatori della lingua italiana contro gli esperti del settore.

Cito a freddo alcune frasi dal precedente sito:
sessioni su Spring.NET tenute da Rod Johnson e Mark Pollack, del team che si occupa del porting del framework Spring (Java) nel mondo .NET.
In questo post trovate una bella raccolta di link a blog
Online le slide del webcast Design Idiomatico
Bue
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Iscritto in data: lun, 08 nov 2004 11:20

Intervento di Bue »

che devo dire? Credo che bubu, giulia e io abbiamo ribadito più volte la nostra posizione in materia. Queste cose ci infastidiscono tanto quanto voi, ma non pensiamo che la soluzione sia la proposta di adattamenti e calchi da parte di un piccolo gruppo di persone prive del grado di autorevolezza necessario, ammesso che ne esista uno potenzialmente in grado di avere effetto.

Come abbiamo a più riprese ripetuto, pensiamo che l'unica strada percorribile sia quella dell'incentivazione alla cultura della lingua, che porta inevitabilmente all'amore per la stessa.


P.S. chiedo scusa per essermi arrogato il diritto di parlare anche a nome di altri. L'ho fatto di mia iniziativa, dunque non ambasciatorialmente, solo perche' mi sembrava che le posizioni fossero state espresse ripetutamente.
Ultima modifica di Bue in data lun, 21 mag 2007 18:17, modificato 2 volte in totale.
Avatara utente
Marco1971
Moderatore
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Iscritto in data: gio, 04 nov 2004 12:37

Intervento di Marco1971 »

C’è molto buon senso nelle parole riassuntive e – presumo – ambasciatoriali di Bue. Ma vorrei a mia volta ricordare o riassumere una cosa: gli stessi dizionari usano ormai la rete per tastare il polso dell’uso; quindi, se un termine riesce a diffondersi, verrà accolto. E in questo processo non interviene autorità alcuna: basta abituare la gente a certi termini – con un po’ di persuasione.

Quello che invece non mi convince affatto è che non si possa far nulla e che ci si debba rimettere alle autorità linguistiche (che, tra parentesi, non possono far nulla, né hanno «autorità» presso le masse, come, sintetizzando il discorso, mi scrisse Luca Serianni). Ha molta piú «autorità» la televisione o Google, per la maggioranza, o almeno cosí mi sembra.

In conclusione, il potere della rete è ormai enorme, e costituisce appunto uno dei canali piú percorribili per la diffusione di sostituti, soprattutto nel campo dell’informatica. Basta avere un po’ piú fiducia e un po’ meno paura.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Ladim
Interventi: 216
Iscritto in data: lun, 08 nov 2004 14:36

Intervento di Ladim »

Per chi vanta un'esclusiva familiarità con l'inglese, e giustifica così una qualche ignoranza relativa ad alcuni aspetti fondamentali della propria lingua, si potrebbe rispolverare – io credo – la bella etichetta di «analfabetismo di ritorno»: è già infantile l'ingenuità con cui il sostenitore dell'anglismo ipercorrettivo vorrebbe difendere una passione che, al nostro sguardo, è soprattutto un impenitente disinteresse per la propria cultura, un evidente, quanto sconfortante complesso d'inferiorità in faccia a un ideale di civiltà unicamente sbilanciato su mere e superficiali questioni pratiche (e il lessico di oggi, allora, sarebbe solo un 'oggetto' fatto di 'oggetti' pensati da chi, più 'intelligente' di noi, ne sa fare un uso 'più appropriato', anche quando 'sbaglia').

Chi vive a stretto contatto con alcuni ambienti non può fare a meno di constatare che l'uso degli anglismi è 'ormai' un fatto 'irrinunciabile', un fatto dipendente da una generale condizione di arretratezza in cui versa la nostra identità culturale, e cioè – in parole ancora più povere – dal cattivo stato della nostra istruzione, che sa rendere obsoleto ciò che potrebbe non esserlo: l'interesse per l'informatica, se non preceduto da un'adeguata istruzione (con la quale si dovrebbe imparare a comprendere e ad amare i valori 'costituiti' della nostra cultura), può davvero comportare un'accoglienza a-critica di ogni 'altra' forma culturale, a fortiori se l'identità individuale di partenza è debole, per non dire debolissima e sradicata (altri, forse, direbbe 'resettata').
Avatara utente
Freelancer
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Iscritto in data: lun, 11 apr 2005 4:37

Re: Un conato di italianità?

Intervento di Freelancer »

Decimo ha scritto:Probabilmente non riceverò i commenti che richiedo...
Penso, e spero, che lei si chieda: è questo l'italiano che sarà parlato da tutti gli italiani tra 50 anni? Perché qui veramente vediamo in atto la creolizzazione paventata da Arrigo Castellani.

Secondo me, no. Siamo qui in presenza di una delle tante varietà dell'italiano e in particolare di una lingua settoriale in cui ha luogo la commistione tra due fattori che non sempre vanno uniti in altre lingue speciali: l'enorme afflusso di anglismi, superiore in volume a quello di altre lingue speciali, si cala su un terreno lessicale nudo, data l'inesistenza di una tradizione scientifica italiana in questo settore. Quindi chi ha una normale istruzione e legge documenti solo in inglese, ha grandissime difficoltà a trasformare tutto questo materiale - sintagmi inclusi, non solo termini, si veda per esempio il dare un taglio di overview per dare una panoramica, un descrizione generale - in italiano normale.

In altre lingue speciali invece esiste un substrato lessicale e sintattico in cui tanti termini nuovi trovano posto sì, ma altri trovano concorrenti o espressioni cristallizzate in cui devono inserirsi. Si pensi al linguaggio della medicina, della chimica, della fisica e ancora di più a quello della meccanica in generale - ad esempio il settore automobilistico, che anch'esso riveste molta importanza per gli italiani - in cui esiste uno zoccolo duro, per così dire, di nomenclatura che risale agli inizi e allo sviluppo della tecnologia e può essere scalfito ma non disintegrato.

Del resto, tornando al linguaggio dell'informatica, anch'esso è variegato secondo chi lo parla; nel caso citato abbiamo uno specialista che conosce solo la tecnologia pura, ma potrebbe parlarlo anche un avvocato specializzato nel settore, e la sua lingua sarà diversa; o addirittura il legislatore, che dovrà sì adoperare tecnicismi irrinunciabili ma li calerà in una struttura sintattica burocratica - magari altrettanto deprecabile, ma questo è un altro discorso.

A completamento di quanto ha detto Bue: non parlerà mai un italiano creolizzato chi conosce bene l'italiano e anche l'inglese nonché la cultura americana, perché non solo avrà la voglia di (mi si permetta il termine) mappare una realtà linguistica in un'altra, ma ne sarà anche in grado.

Insomma, dobbiamo essere tutti traduttori competenti.
:wink:
Ultima modifica di Freelancer in data mar, 22 mag 2007 3:37, modificato 1 volta in totale.
Ladim
Interventi: 216
Iscritto in data: lun, 08 nov 2004 14:36

Intervento di Ladim »

Il Suo intervento, gentile Freelancer, descrive agilmente un aspetto importante, e cioè la stratificazione della lingua: le Sue parole sono precise e condivisibili. E tuttavia vorrei attestare il mio coinvolgimento sottolineando soprattutto la passività con cui, troppo spesso, il linguaggio è vissuto da chi non ne può comprendere le reali 'implicature' culturali e sociali. Il parlante comune, pedissequamente, fa capo all'uso plastificato di un linguaggio predefinito, facile e, per definizione, povero e marginale (tant'è che di frequente fraintendiamo o non ascoltiamo il nostro interlocutore); il 'fanatico' che delinea sé stesso nelle parole che pronuncia o scrive, ripetendo un numero spropositato di anglismi, manifesterebbe un atteggiamento – quando non è guidato da una coscienza edotta – non molto dissimile da quello di chi condisce il proprio eloquio con volgarità e turpitudini: in altre parole, ci troviamo di fronte all'appendice verbalizzata di una tabula rasa, e cioè una formazione intellettuale che non ospita nulla del moltissimo che ha permesso la strutturazione del nostro prezioso sistema culturale. Se è vero, come è vero, che il settore informatico non è un patrimonio culturale del nostro paese, è anche vero che l'identità linguistica di una tradizione culturale come la nostra, se attiva e vissuta, non permetterebbe in nessun caso un tale abuso (evidentemente ridicolo) di strafalcioni lessicali.

Del resto, ci sarà sempre l'informatico (come il giovane studente di economia, come il giovane studente di materie commerciali etc.) che si scandalizzerà, vivaddio, di fronte all'uso abnorme di anglismi, detti e scritti dai suoi 'colleghi' meno pratici di cultura italiana.

Infine, gentile Roberto, più volte ho letto con piacere le Sue parole – anche quando volevano essere provocatorie, le ho sempre sentite ancorate a un solido buon senso (se mi permette, la Sua voce, qui, per il lavoro che Lei fa e per la Sua diligente conoscenza dei fatti di lingua, è di straordinario interesse); eppure mi sono sempre chiesto: quale può essere l'esito linguistico di un autorevole e competente traduttore che – dittature editoriali permettendo – introduce il proprio lettore a una traduzione, per così dire, fortificata con una certa consapevolezza culturale? Sarebbe un modo, io credo, di far ragionare anche chi è meno abituato a farlo... Ma Lei, di sicuro, comprende bene la mia innocente ingenuità.
Avatara utente
giulia tonelli
Interventi: 370
Iscritto in data: mar, 12 lug 2005 10:51
Località: Stoccolma

Intervento di giulia tonelli »

Sottoscrivo in pieno l'intervento di Bue, e inoltre credo sia ingenuo pensare di poter avere una qualsivoglia influenza su meccanismi psicologici e sociali di questa portata.

Mi permetto di dire la mia, dalla mia esperienza di traduttore, su questa domanda di Ladim:
Ladim ha scritto:quale può essere l'esito linguistico di un autorevole e competente traduttore che – dittature editoriali permettendo – introduce il proprio lettore a una traduzione, per così dire, fortificata con una certa consapevolezza culturale?
L'esito sarebbe che la traduzione verrebbe macellata dal revisore. Ma supponiamo di lavorare per una casa editrice piccola e scalcagnata, in cui non c'e' un revisore, e la traduzione passa cosi' com'e', con parole come computiere, programmario, istradatore e muro di fuoco. Penso i lettori si troverebbero a disagio, magari avrebbero difficolta' a comprendere alcune cose, in generale farebbero piu' fatica a capire i concetti espressi dal libro, a causa della forma scelta. Credo che molti troverebbero irritante il linguaggio. Credo che una percentuale prossima allo zero dei lettori apprezzerebbe lo sforzo, mentre la stragrande maggioranza dei lettori ascriverebbe la scelta a follia, fanatismo e simpatie fasciste del traduttore e della casa editrice. E, sinceramente, qualora esistesse una traduzione fatta cosi', la motivazione piu' probabile sarebbero le simpatie fasciste, non la consapevolezza linguistica. I nostalgici del ventennio a giro sono molti di piu' delle persone che pensano che gli anglismi siano un problema.
Possiamo pero' pensare a una traduzione che non contiene i termini "estremi" da me menzionati, ma tuttavia cerca, senza sconvolgere il lettore, di tradurre in italiano il maggior numero di parole possibili. Questo e' quello che io ho sempre cercato di fare. Mi sembra l'unico atteggiamento sensato, per un traduttore che ha a cuore questi problemi. Purtroppo le case editrici macellano anche queste traduzioni "timide".
Avatara utente
Incarcato
Interventi: 900
Iscritto in data: lun, 08 nov 2004 12:29

Intervento di Incarcato »

È ovvio che una tipologia di traduzione come quella di cui parla Giulia andrebbe presentata al lettore, sarebbe una forma di sperimntazione culturale a cui bisogna prepapare il pubblico. Non sarebbe saggio tradurre adottando la nostra lista punto e basta (faccio per dire).
Ladim
Interventi: 216
Iscritto in data: lun, 08 nov 2004 14:36

Intervento di Ladim »

Gentile Giulia e caro Incarcato, valutavo proprio l'ipotesi di una traduzione anche 'moderata' e tuttavia corredata comunque di una noterella in cui il traduttore, brevemente, illustri il senso del proprio lavoro – e cioè, nel caso di Giulia, la scelta di conservare computer e simili, ma di tradurre il traducibile (cosa di per sé ovvia, ma che, se tematizzata, può far pensare). Non è tanto la traduzione in sé, quanto la coscienza linguistica che vi orbiterebbe intorno, quindi. Però, se tanto mi dà tanto, mi aspetto, anche in questo caso, una pari 'macellazione' (la grande editoria di oggi è nelle mani di chi vede interessi che hanno poco o punto che fare con la cultura: anche qui il 'consumatore' investe il proprio denaro, quando acquista un libro, e l'editoria deve far fruttare quell'investimento, proprio e del lettore: una compiacenza pericolosa e democratica, insita in tutti i processi di massa [una massa ineducata cui nessuno, in buona sostanza, ha mai spiegato bene come affrontare una qualsiasi lettura] – ancora alla metà del secolo scorso erano gl'intellettuali a gestire i progetti editoriali: oggi, al loro posto, vediamo solo degli umili gerenti con la solita monomania [necessità] degli affari...).
Avatara utente
bubu7
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Iscritto in data: gio, 01 dic 2005 14:53
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Intervento di bubu7 »

Ho l'impressione che a volte si scontrino due concezioni della lingua e della cultura.
La prima, elitaria, vorrebbe fornire alle masse una lista di traducenti costruita dagl'illuminati e che la plebe incolta dovrebbe adottare al posto dei barbarismi.
La seconda, più democratica, che vorrebbe salvare la lingua come corollario di una maggiore cultura generale della popolazione.
Una maggiore cultura generale che comporterebbe un approccio critico nei confronti della lingua e che porterebbe al rifiuto sia di un eccesso di esotismi sia di proposte di traducenti quando questi ultimi risultassero strampalati.
Secondo me la lingua si può salvare se si salvano gl'italiani e non viceversa. Non mi sembra questo gran bel risultato avere una lingua senza barbarismi parlata da gente incolta (semplicemente perché invece di libri infarciti d'anglicismi legge libri infarciti di traducenti): preferisco una lingua creolizzata parlata da persone di profonda cultura (ma quest'ultima combinazione è evidentemente contraddittoria).
Non mi appare una previsione arrischiata aspettarmi invece una lingua normale, con un numero relativamente ridotto di forestierismi, parlata da persone con una cultura non eccelsa ma sempre maggiore, mediamente, di quella di cent'anni fa.
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
V. M. Illič-Svitič
Ladim
Interventi: 216
Iscritto in data: lun, 08 nov 2004 14:36

Intervento di Ladim »

Non semplificherei le cose, ma anzi le lascerei complesse come sono. Non è un testo infarcito di traducenti che può fare 'qualcosa', io credo; bensì, come dice lei stesso, sono gl'italiani il vero oggetto del nostro dibattito. Vi è una sana percentuale d'irrazionalità nel sentirsi legato a un luogo o a una tradizione; così l'identità si produce attraverso la consuetudine, e la nostra, quella italiana, oggigiorno non è delle più sorvegliate – parlo di consuetudine culturale (lontano da ogni fanatismo).

Quindi penserei a una sola tradizione culturale (all'interno della quale possiamo immaginare pacificamente i due gradi approssimativi dell'«eccelso» e del «non eccelso»), a un solo modo di percepire la lingua, pur adoperandola in tutte le sue ricche e molteplici sfaccettature (in questo caso avremmo un uso creativo della lingua, infine un baluardo linguistico non più fatto di sostrato 'articolatorio' e di tradizione popolare, ma, adeguandoci ai tempi, culturale senz'altro). Per quel che riguarda l'uso incondizionato degli anglismi, pare evidente un retroterra, per dir così, 'ignorante', un inquietante vuoto culturale – e non punto il dito sulla cultura informatica; parlo invece dell'idea di cultura che caratterizza e dà vita al concetto di etnia: ci conviene quindi negare il valore costitutivo della lingua, quando rimandiamo al concetto di popolo (ma, sia chiaro, non parlo dei 'maus' e dei 'compiuter', quanto della creolizzazione più e meno divertita, viepiù spontanea)?
Avatara utente
Federico
Interventi: 3008
Iscritto in data: mer, 19 ott 2005 16:04
Località: Milano

Intervento di Federico »

bubu7 ha scritto:Ho l'impressione che a volte si scontrino due concezioni della lingua e della cultura. [...] preferisco una lingua creolizzata parlata da persone di profonda cultura (ma quest'ultima combinazione è evidentemente contraddittoria).
Farei molta attenzione a introdurre i concetti di democratico ed elitario in questo ambito: siamo in un periodo in cui si contestano i risultati della massificazione e squalificazione della cultura con finalità democratiche di questo genere. Tornando a noi: non si vede perché una lingua totalmente epurata da ogni forestierismo (per dire, e supponendo che questa sia la variante piú elitaria possibile – del che dubito fortemente –) dovrebbe essere in contrasto con degli obiettivi democratici di diffusione della cultura e della consapevolezza linguistica; ancora meno mi è chiaro perché mai chi s'impegni a compilare una lista di forestierismi debba credere poco nella necessità di aumentare la cultura generale, anche senza considerare la sua fiducia negli effetti della lista sui parlanti.

Insomma, anche a me sembra che sia preferibile non semplificare; ma sulle parole di Ladim devo riflettere ancora.
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