Il confronto tra Castellani e De Mauro è stato così commentato da Alberto Sobrero:
In [i]Italiano e oltre[/i], VII (1992), Alberto A. Sobrero ha scritto:
Si può «vivere nella performance», come dice il testimonial di un noto annuncio pubblicitario? Il dubbio è insieme esistenziale (io, Giuseppe Rossi, vivo o no nella performance?) e linguistico. Secondo il linguista Arrigo Castellani dovrei vivere nella performanza. E inoltre, per avere a posto non solo i capelli ma anche la coscienza linguistica, non dovrei avere un hobby ma un ubino (proprio così), non un windsurf ma un velopàttino, né dovrei dire week-end, bensì... eh no, non fine settimana, che è troppo facile, e ormai troppo usato: dovrei dire intrèdima (composto con èdima, che è dell'italiano antico). E così via — sempre secondo Castellani —:
non blackout ma abbuio
non baby-sitter ma guardabimbi
non marketing ma vendistica
non bestseller ma vendissimo
non skipper ma nocchiero
non smog ma fubbia (incrocio di fumo + nebbia, così come smog è incrocio di smoke + fog).
Va da sé che sponsor dovrebbe essere sostituito da sponsore e lobby da lòbbia.
Questa Appendix Probi del Duemila fa sorridere molti; e ha fatto sorridere anche Tullio De Mauro, che sull'ultimo numero degli «Asterischi» Laterza garbatamente polemizza con Castellani, ricordando la complessità delle regole di una lingua e l'inutilità dell'intervento — anche sacrosanto — di un singolo nel determinare il corso storico di una lingua. De Mauro porta il discorso sulla «massa parlante», dove si compongono le forze che derivano dalle spinte dei singoli e dei gruppi di parlanti: masse che, in definitiva, determinano il volto e la storia di una lingua secondo macro-regole che sfuggono al controllo del singolo. Sono due posizioni estreme, ciascuna delle quali probabilmente coglie una parte di verità. È vero che è la Storia a decidere per noi, e che la buona circolazione linguistica all'interno di una comunità non si garantisce con gli editti ne con le regole del galateo linguistico, bensì migliorando le conoscenze e le possibilità di commercio intellettuale e civile dei parlanti (De Mauro), ma è altrettanto vero che quando la varietà dell'uso si diversifica e si frammenta al di là di un certo limite la comunità linguistica reagisce con anticorpi che tendono a preservarne l'identità e l'unità (Castellani): e che, in quei casi, si avverte anche un 'bisogno di identità'. Ecco, oggi si ha l'impressione che siamo arrivati vicini a questo limite, e che la comunità cominci a produrre 'bisogno di identità' in dosi massicce: appunto, con la funzione di anticorpo.
Il CENSIS aggiorna ogni anno l'immagine dell'Italia e degli italiani, e scopre ogni anno nuove segmentazioni del tessuto sociale, che appare sempre più vario: per dirne una, nessuno oggi parla più di classi sociali (e se lo fa usa pudiche virgolette), perché lo stesso reddito, la stessa scolarità, la frequentazione degli stessi ambienti danno luogo ai più diversi stili di vita. Ma d'altra parte l'economia italiana sta in piedi proprio perché è frammentata in una miriade di micro-sistemi economici, interdipendenti e ben differenziati. Qualcosa del genere accade anche nella lingua (ne accennavo anche nel precedente Parlando parlando). Il sogno della lingua unica per tutti è svanito: le varietà della lingua (varietà regionali, registri, ecc.) si mescolano, si aggrovigliano, si incrociano; nelle diagnosi sociolinguistiche sui testi parlati cominciano a proliferare agglomerati terminologici (informale-giovanile, popolare-regionale-colloquiale, e così via) che mascherano malamente l'incertezza e la fatica di ricondurre a categorie certe delle scelte stilistiche di escursione ormai molto ampia. Con la stessa naturalezza lo stile dei discorsi più formali si è arricchito di un gran numero di forme colloquiali, o volgari (si pensi alla recente campagna elettorale) e simmetricamente nelle chiacchiere al bar, o dal parrucchiere, sono entrati molti 'pezzi' pregiati del registro sostenuto, o tecnicismi 'duri' (per fare un esempio minimo: chi non usa, oggi, il verbo esternare, fino a sei mesi fa sepolto nella Costituzione italiana e in pochi altri testi inconsultati?). Anche la lingua, insomma, appare frammentata in micro-sistemi, interdipendenti ma differenziati, un po' incrociati, un po' sovrapponibili, spesso intercambiabili. E identificare i mille spezzoni di questa lingua, caratterizzarli e classificarli sembra sempre più difficile. Forse è impossibile. Forse è anche inutile. Anche perché, nel frattempo, si registra una decisa reazione di segno opposto, di direzione centripeta: la voglia di certezze, di punti di riferimento. È una richiesta — è stato notato più volte — che viene dalle scuole (si veda la tendenza impetuosa al ritorno alla vecchia Grammatica, anche in barba ai programmi vigenti, nella scuola media) e viene dalla 'gente' (si vedano le tirature dei molti libri di bon ton linguistico alte al di là di ogni ragionevole previsione di qualunque ufficio marketing): viene insomma dal pubblico e dal privato, dalla massa e dall'individuo. E mi sembra una richiesta da prendere molto sul serio, almeno in quanto rivela nello stesso tempo voglia di identità linguistica (Castellani) e voglia di buon commercio intellettuale e civile (De Mauro).
Facciamo benissimo a fare, come insegnano gli economisti, monitoraggi continui sullo stato di salute della lingua, a individuare tendenze dominanti e recessive, nicchie privilegiate e sacche di ristagno, con quel che segue; ma forse dovremmo fare qualcosa di più per mettere a fuoco anche una buona bussola per chi si vuole orientare. Qui la fubbia si sta infittendo.