La lingua e il contesto

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bubu7
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La lingua e il contesto

Intervento di bubu7 »

Riporto, come mio personale promemoria da rileggere di tanto in tanto, questo stralcio tratto dall’introduzione, di Tullio De Mauro, alla Costituzione della Repubblica Italiana edita dalla Utet, Fondazione Maria e Goffredo Bellonci onlus (2008).

Se qualcun altro ne vuole approfittare, faccia pure… :wink:
Scrivere testi farciti di parole incomprensibili anche a persone di robusta esperienza lessicografica non è segno di grande perizia. Al contrario, è cosa facile e poco costosa: basta avere sottomano un discreto dizionario, saperlo consultare e “buttare tra i piedi del lettore” (diceva Karl Kraus) parole di colore oscuro.
Naturalmente non tutte le parole rarissime sono un inutile lusso. Parecchie, forse tutte, hanno avuto un giorno o hanno oggi un contesto linguistico e una situazione interattiva in cui sono state e sono opportunamente adoperabili per farsi capire e capire. Una lingua ci offre sempre risorse per lottare contro l’inesprimibile, traendolo alla luce della comprensione anche con l’aiuto di parole rare e poco note, se e quando occorre. L’errore non sta nell’adoperare parole rare o tecniche e poco note, ma nell’adoperarle fuori dei contesti e delle situazioni in cui esse sono opportune, cioè utili più di altre a trasmettere un dato contenuto a un interlocutore dato. Fuori di questa duplice condizione di adeguatezza al contenuto e al destinatario, mettere tra i piedi del prossimo parole che non sa è (continuava ironicamente Karl Kraus) un segno di cattiva educazione.
Ci imbattiamo qui [in una] seconda conseguenza che può trarsi nel confronto tra le sterminate risorse lessicali potenziali di una lingua nella sua interezza e quelle assai più limitate di parlanti anche assai colti. La seconda conseguenza (finemente osservata già da Giacomo Leopardi) è che, talora anche in perfetta buona fede, abituati a muoverci entro un certo campo di esperienza con un particolare bagaglio di parole specifiche, le esportiamo in altri contesti, con estranei a quel campo di esperienza e di discorsi. In buona fede, anche in buona fede, ci mostriamo krausianamente maleducati e, in definitiva, sbadati verso gli altri e perfino sciocchi. […] Insomma, il ricchissimo sistema potenziale di una lingua ha molte norme d’uso diversificate a seconda dei contesti, delle situazioni e degli interlocutori.
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
V. M. Illič-Svitič
Ladim
Interventi: 216
Iscritto in data: lun, 08 nov 2004 14:36

Intervento di Ladim »

Si sa, ogni contesto ha un suo contesto. Prima di lasciar correre il nostro pensiero, dobbiamo riconoscere la cornice, capire dove finisce, dove inizia, in ultimo intendere le circostanze opportune che possono dare il significato corretto alle nostre parole e idee. La «lotta contro l’inesprimibile» (che era un virtuoso e sublime concetto del Kierkegard) – qualcosa mi dice – sarà sempre un’appassionata approssimazione a una verità illusoria e variamente fraintesa. Ma tutto quel che ci porta a riflettere, se siamo fortunati, ci aiuta a capire una verità più «vera»: la ‘responsabilità’ conta più di ogni altra cosa – non delle parole, convenzionali in sé, non delle azioni (ché la vita moderna [e no] è il dominio di una diffusa irrazionalità!). È il 'proposito' che ci contraddistingue: come non dar ragione al De Mauro?!

Se stiamo compilando un documento il cui scopo è di essere percepito e letto da 'tutti', la medietà può sposarsi ancora colla mediocrità (in senso non dispregiativo). Se però stiamo esprimendo un nostro punto di vista, è giusto farlo con le parole che più assecondano quell’appassionata e personale «approssimazione». Del resto, anche la comprensione implica comunque una lotta, un atto di umiltà che postula l’assoluta volontà di accogliere la parola altrui. Così accettiamo (quando non rifiutiamo) la «batrocomiomachia» come il «twist» e il «jazz», oppure l’«andante con brio»; e magari, dopo, impariamo anche a usarli secondo le convenzioni più sorvegliate e condivisibili, disponendo infine (e finalmente) di un meccanismo intellettuale il più possibile esercitato (ché siamo sempre nella società e a una società guardiamo).

Quando il ‘proposito’ non è malevolo, allora non vi è maleducazione, e nemmeno un particolare interesse per i «piedi del lettore»: le parole non sono più vere della realtà che descrivono, e le parole sono la stessa illusione della realtà. Semmai le parole tradiscono un ordine, un’organizzazione intellettuale, nel migliore dei casi appunto un proposito. Non è da tutti capire quando è opportuno usare un registro piuttosto che un altro; è di pochissimi saper forzare le convenzioni per conseguire una vittoria e ottenere lo scopo per cui a volte si usano determinate parole.

«Maleducazione» è, come è ovvio, ferire senz’altro la sensibilità, in questo caso, di chi ci «legge» – ma siamo un po’ troppo abituati a scoraggiarci, a quanto pare, e – forse – non sempre sappiamo riconoscere tutte le possibili «verità» della maleducazione.

Faccio punto.
Avatara utente
Incarcato
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Iscritto in data: lun, 08 nov 2004 12:29

Intervento di Incarcato »

Ladim, grazie per quell'olofrastico negativo! :D
(Peccato per le quadre. :wink: )
I' ho tanti vocabuli nella mia lingua materna, ch'io m'ho piú tosto da doler del bene intendere le cose, che del mancamento delle parole colle quali io possa bene esprimere il concetto della mente mia.
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