«Utilizzo»

Spazio di discussione su questioni di lessico e semantica

Moderatore: Cruscanti

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Marco1971
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«Utilizzo»

Intervento di Marco1971 »

I vocabolari c’informano che la parola utilizzo è molto comune al posto di utilizzazione nell’uso commerciale, burocratico e bancario. C’informano anche che utilizzare (derivato da utile) significa «Adoperare mettendo a profitto, impiegare rendendo utile: u. gli avanzi, gli scarti; per l’articolo ho utilizzato certi miei vecchi appunti; cerca di u. bene il tuo tempo; spero di farcela, utilizzando qualche ritaglio di tempo; non sappiamo come u. i dipendenti assunti l’anno scorso» (Treccani).

Nella realtà, invece, non è affatto cosí e tutti adoperano utilizzo e utilizzare nel senso generico di uso e usare (e ogni volta mi si drizzan le chiome). Usare, impiegare, adoperare, servirsi di, avvalersi di, ecc. sono quasi sistematicamente sostituiti da utilizzare in uno spaventevole appiattimento espressivo. Chi può dirmi perché?

Si finirà col dire anche «nell’utilizzo comune, nell’utilizzo letterario»?

P.S. Rettifico: Google ci conferma che si dice già... :roll:
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Fausto Raso
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Intervento di Fausto Raso »

Io credo che dipenda dal fatto che TUTTI i vocabolari attestano i due verbi l'uno sinonimo dell'altro. Si veda Qui
Negli esempi da lei riportati, però, le persone "acculturate" dovrebbero essere in grado di capire la differenza "semantica" dei due verbi.
«Nostra lingua, un giorno tanto in pregio, è ridotta ormai un bastardume» (Carlo Gozzi)
«Musa, tu che sei grande e potente, dall'alto della tua magniloquenza non ci indurre in marronate ma liberaci dalle parole errate»
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Eppure, lo stesso Sabatini-Coletti in linea, a cui lei rimanda, alla voce utilizzare dà solo un esempio “acconcio”:

Usare qlco.; renderlo utile o metterlo a profitto: u. gli avanzi del pranzo per preparare la cena.

Ho notato che persino persone cólte, come quelle che collaborano all’Accademia della Crusca, usano spessissimo utilizzare. :?
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Fausto Raso
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Intervento di Fausto Raso »

Marco1971 ha scritto:Ho notato che persino persone cólte, come quelle che collaborano all’Accademia della Crusca, usano spessissimo utilizzare. :?
Non si meravigli, cortese Marco, tra i "collaboranti" della Crusca ci sono persone che commettono anche orrori orto-sintattico-grammaticali. :oops: :evil:
«Nostra lingua, un giorno tanto in pregio, è ridotta ormai un bastardume» (Carlo Gozzi)
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Intervento di Marco1971 »

Fausto Raso ha scritto:Non si meravigli, cortese Marco, tra i "collaboranti" della Crusca ci sono persone che commettono anche orrori orto-sintattico-grammaticali. :oops: :evil:
Non mi spingerei fin là... a meno che abbia qualche esempio in mente...?
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Fausto Raso
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Intervento di Fausto Raso »

Marco1971 ha scritto:Non mi spingerei fin là... a meno che abbia qualche esempio in mente...?
È meglio stendere un velo pietoso...
«Nostra lingua, un giorno tanto in pregio, è ridotta ormai un bastardume» (Carlo Gozzi)
«Musa, tu che sei grande e potente, dall'alto della tua magniloquenza non ci indurre in marronate ma liberaci dalle parole errate»
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Re: «Utilizzo»

Intervento di bubu7 »

Marco1971 ha scritto:Nella realtà, invece, non è affatto cosí e tutti adoperano utilizzo e utilizzare nel senso generico di uso e usare (e ogni volta mi si drizzan le chiome). Usare, impiegare, adoperare, servirsi di, avvalersi di, ecc. sono quasi sistematicamente sostituiti da utilizzare in uno spaventevole appiattimento espressivo. Chi può dirmi perché?
Mah..., direi che usare e utilizzare (uso e utilizzo) si affiancano nell'uso: basta un'indagine con un motore di ricerca.
Altri termini, del suo elenco, risultano più diffusi in registri più alti...
Non parlerei quindi di appiattimento quanto, piuttosto, di variazione delle frequenze relative, dei campi semantici e di registro.
I termini, col tempo, si usurano e nuove parole (create, prese in prestito o ripescate) vengono avvertite come più adaguate a esprimere un determinato concetto.
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
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Intervento di Marco1971 »

Se due termini, originariamente distinti per significato, s’adoperano indifferentemente, non è lecito parlare di appiattimento espressivo o, se preferisce, semantico?
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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bubu7
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Intervento di bubu7 »

Marco1971 ha scritto:Se due termini, originariamente distinti per significato, s’adoperano indifferentemente, non è lecito parlare di appiattimento espressivo o, se preferisce, semantico?
Certo, i due termini si adoperano oggi indifferentemente in alcuni contesti e in alcuni registri. Risulta inoltre in espansione il campo semantico di utilizzare.
È un segno della vitalità di una lingua che vi siano modifiche dei campi semantici dei termini (con inevitabili sovrapposizioni). Alla fine si può arrivare alla sostituzione di un termine con l'altro che può finire nei termini disusati. È difficile immaginare una sostituzione istantanea di un termine con un altro...

Sempre su utilizzare (preferisco focalizzare l'attenzione sul verbo piuttosto che sul derivato a suffisso zero...) possiamo aggiungere un'altra indicazione che ne motivi l'espansione: vediamo che il termine è costruito col suffisso –izzare, suffisso oggi molto produttivo e che ha un'aria europea che avrebbe incontrato i favori del Leopardi. Gaetano Berruto, in Sociolinguistica dell'italiano contemporaneo (1987), lo definisce suffisso internazionalizzante.

Sempre su utilizzare, che fa storcere il naso ad alcuni puristi, riporto la voce del Vocabolario di parole e modi errati dell'Ugolini (dalla mia IV ediz. del 1880):
UTILIZZARE: il Tommaseo l'ha in uggia, fino a chiamarla inutile e barbara; ma è nella Crusca. Il Viani poi la conforta con un esempio del Magalotti, ed il Fanfani nel suo dizionario con uno del Minucci.
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
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Intervento di Marco1971 »

bubu7 ha scritto:Certo, i due termini si adoperano oggi indifferentemente in alcuni contesti e in alcuni registri.
Sarò particolarmente fortunato (o sfortunato, secondo il punto di vista), ma m’imbatto quotidianamente in utilizzare (nel senso generico di usare) sia nella lingua sorvegliata (saggi, articoli, ecc.), sia nella lingua comune (per esempio nella scrittura dei vari diari e fori di discussione).
bubu7 ha scritto:Risulta inoltre in espansione il campo semantico di utilizzare. [...]
Intende il campo lessicale? Pongo la domanda perché mi confondo spesso a causa del francese, al cui champ sémantique corrisponde il nostro campo lessicale, mentre il nostro campo semantico è lo champ lexical. :?
bubu7 ha scritto:Sempre su utilizzare (preferisco focalizzare l'attenzione sul verbo piuttosto che sul derivato a suffisso zero...) possiamo aggiungere un'altra indicazione che ne motivi l'espansione: vediamo che il termine è costruito col suffisso –izzare, suffisso oggi molto produttivo e che ha un'aria europea che avrebbe incontrato i favori del Leopardi. Gaetano Berruto, in Sociolinguistica dell'italiano contemporaneo (1987), lo definisce suffisso internazionalizzante.
Questo è verissimo: oggi si izza a tutto spiano. Non sono sicuro però che Leopardi sarebbe stato a favore dell’utilizzare «appiattito» (e che potrebbe a lungo andare far sparire il povero usare) per il solo fatto del suffisso internazionalizzante, lui che tanto amava la ricchezza e le sfumature. :)

Grazie anche per l’interessante citazione dell’Ugolini. :)
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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[FT] «Campo lessicale» e «campo semantico»

Intervento di Marco1971 »

Che confusione... Leggo nel Treccani:

campo l., l’insieme formato dalle unità lessicali relative a una medesima nozione (per es., il campo lessicale dei lavori agricoli, della legatoria, della parentela, ecc.; ma l’espressione non è univoca, e viene talora usata come sinon. di campo semantico).

campo s., riferito a un singolo elemento linguistico polisemico, il complesso dei suoi possibili significati, e, riferito a un gruppo di elementi, la sfera di significati che essi hanno in comune.


Per il GRADIT invece sarebbe tutto univoco:

campo lessicale l’insieme dei significati di una singola parola.

campo semantico insieme dei significati di un gruppo di parole di senso affine, che costituisce parte del campo noetico di una lingua.


Io ricordavo questo, appunto... Come odio queste incertezze terminologiche! Ci si decida!
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Re: [FT] «Campo lessicale» e «campo semantico»

Intervento di bubu7 »

Marco1971 ha scritto: Intende il campo lessicale? Pongo la domanda perché mi confondo spesso a causa del francese, al cui champ sémantique corrisponde il nostro campo lessicale, mentre il nostro campo semantico è lo champ lexical. :?
Intendevo questo:
campo s., riferito a un singolo elemento linguistico polisemico, il complesso dei suoi possibili significati.
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Re: [FT] «Campo lessicale» e «campo semantico»

Intervento di Marco1971 »

bubu7 ha scritto:Intendevo questo:
campo s., riferito a un singolo elemento linguistico polisemico, il complesso dei suoi possibili significati.
Sí, certo. Il problema che mi pongo è d’ordine terminologico: vediamo nelle definizioni del Treccani che campo semantico e campo lessicale sono talvolta usati l’uno al posto dell’altro. Mentre il GRADIT dà un senso univoco all’uno e all’altro, e le sue definizioni parrebbero essere in linea con la grammatica di Dardano-Trifone e il dizionario di retorica e di stilistica di Angelo Marchese. A me poco importa quale terminologia si adotta; mi piacerebbe soltanto che, a scanso d’equivoci, fosse «universale».
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Intervento di bubu7 »

Marco1971 ha scritto: Questo è verissimo: oggi si izza a tutto spiano. Non sono sicuro però che Leopardi sarebbe stato a favore dell’utilizzare «appiattito» (e che potrebbe a lungo andare far sparire il povero usare) per il solo fatto del suffisso internazionalizzante, lui che tanto amava la ricchezza e le sfumature. :)
Queste variazioni sono all'ordine del giorno nelle lingue vitali, soprattutto quando riguardano termini polise[me]mici.
Tra le altre considerazioni (oltre a uno sguardo alle altre lingue romanze) vi è la seguente: la lingua ridistribuisce continuamente i significati tra gli elementi di cui dispone. Soprattutto nel caso della polisemia (il cui aumento può comportare un apparente appiattimento della lingua) va preso in considerazione anche l'ambito testuale che può assumersi un maggiore carico nello sciogliere i dubbi di significato.
Fermo restando che, in certi casi, l'appiattimento o la semplificazione, per usare un termine forse più neutro, non è necessariamente un male se comunque l'informazione viene trasmessa con successo.
Senza riferirmi al caso specifico, la raccomandazione è di considerare sempre quanti più aspetti possibile di un dato fenomeno (convergenza con l'evoluzione della famiglia romanza, analisi di possibili variazioni sintattiche...) prima di esprimere un giudizio su una determinata evoluzione del sistema.
Infine rimango convinto, al di là di possibili interventi nel campo strettamente linguistico, che il problema sia soprattutto culturale. Una cultura viva e progressiva, necessariamente cerca e trova gli strumenti linguistici (neologismi, aumento delle accezioni di termini preesistenti...) per descrivere la realtà. Una cultura debole e subalterna si apre alle culture dominanti, col rischio di snaturarsi.
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Intervento di Marco1971 »

Sono largamente d’accordo con lei. Tuttavia – e non solo per me – non sarebbe inutile suffragare le considerazioni generali con esempi concreti, per dare a esse piú netta evidenza.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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