«Cosa» ~ «che cosa»
Moderatore: Cruscanti
«Cosa» ~ «che cosa»
E` vastissimo, a tutti i livelli di comunicazione, l'uso della locuzione interrogativa "che cosa" priva dell'aggettivo interrogativo "che".
Dal punto di vista letterale, chiedere, ad esempio, "cosa vuoi?", non ha ovviamente alcun significato, e lo considero una follia grammaticale.
Mi chiedo tuttavia: considerato l'(ab)uso invalso e accettato - sebbene, ritengo, inconsapevole - nella lingua, sia parlata che scritta, di tale ellissi, dobbiamo oramai considerarla come acquisita, e, quindi, anche "ufficialmente" e tranquillamente pronunciabile, ovvero resistere, restando tenacemente ancorati ai buoni indirizzi e regole della logica, prima ancora che della grammatica?
Grazie.
Dal punto di vista letterale, chiedere, ad esempio, "cosa vuoi?", non ha ovviamente alcun significato, e lo considero una follia grammaticale.
Mi chiedo tuttavia: considerato l'(ab)uso invalso e accettato - sebbene, ritengo, inconsapevole - nella lingua, sia parlata che scritta, di tale ellissi, dobbiamo oramai considerarla come acquisita, e, quindi, anche "ufficialmente" e tranquillamente pronunciabile, ovvero resistere, restando tenacemente ancorati ai buoni indirizzi e regole della logica, prima ancora che della grammatica?
Grazie.
Luca Serianni, nella sua grammatica (VII.256), scrive:
Cosa invece di che cosa fu spesso osteggiato dai grammatici del secolo scorso, ma si diffuse ampiamente grazie al largo impiego fattone dal Manzoni nell’edizione definitiva dei Promessi Sposi.
È quindi un uso corretto in un registro non sostenuto; nello scritto formale s’impiega la forma completa che cosa o il solo che.
Cosa invece di che cosa fu spesso osteggiato dai grammatici del secolo scorso, ma si diffuse ampiamente grazie al largo impiego fattone dal Manzoni nell’edizione definitiva dei Promessi Sposi.
È quindi un uso corretto in un registro non sostenuto; nello scritto formale s’impiega la forma completa che cosa o il solo che.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Re: «Cosa» ~ «che cosa»
Mi permetto di citare Lorenzo Da Ponte ad esempio nel libretto de Le Nozze di Figaro:slaros ha scritto:Dal punto di vista letterale, chiedere, ad esempio, "cosa vuoi?", non ha ovviamente alcun significato, e lo considero una follia grammaticale.
"Cosa stai misurando, caro il mio Figaretto?"
"Non so piu` cosa son, cosa faccio"
"Cosa sento! Tosto andate e scacciate il seduttor"
"Cosa ridi?"
eccetera.
Dunque mi pare che di tutto si tratti meno che di un "illogico" o "folle" uso recente dovuto a sciatteria ignoranza ecc. Si tratta invece, a quanto so, semplicemente di un uso tipico settentrionale (Da Ponte e Manzoni lo erano, dopo tutto).
- Ferdinand Bardamu
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Concordo con Bue: la forma non si può certo definire folle, benché, come ha detto Marco, in contesti formali siano preferibili sia la forma piena che cosa sia il semplice che.
Non sono in grado di tracciare una storia della nascita e diffusione di cosa in frasi interrogative; tuttavia, posso confermare che, in dialetto veneto, è forma normale, anzi, l'unica possibile: per esempio «Che vuoi?» può essere soltanto «Cossa vuto?» (o, addirittura, con aferesi, «'Sa vuto?»).
L'origine supposta da Bue è perciò certamente plausibile. A Da Ponte e Manzoni aggiungo un esempio del veneziano Goldoni:
OTTAVIO
Con sua buona grazia, non voglio sentir altro (s'alza).
LELIO
Perché? Cosa c'è di male? (Carlo Goldoni, Il teatro comico)
Non sono in grado di tracciare una storia della nascita e diffusione di cosa in frasi interrogative; tuttavia, posso confermare che, in dialetto veneto, è forma normale, anzi, l'unica possibile: per esempio «Che vuoi?» può essere soltanto «Cossa vuto?» (o, addirittura, con aferesi, «'Sa vuto?»).
L'origine supposta da Bue è perciò certamente plausibile. A Da Ponte e Manzoni aggiungo un esempio del veneziano Goldoni:
OTTAVIO
Con sua buona grazia, non voglio sentir altro (s'alza).
LELIO
Perché? Cosa c'è di male? (Carlo Goldoni, Il teatro comico)
- u merlu rucà
- Moderatore «Dialetti»
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Re: «Cosa» ~ «che cosa»
Da Ponte non so, ma il Manzoni non era andato a risciacquare i panni in Arno? Forse ha avuto qualche problema ad usare l'icché del fiorentinoBue ha scritto:Dunque mi pare che di tutto si tratti meno che di un "illogico" o "folle" uso recente dovuto a sciatteria ignoranza ecc. Si tratta invece, a quanto so, semplicemente di un uso tipico settentrionale (Da Ponte e Manzoni lo erano, dopo tutto).

Se non erro (occorre una conferma) il semplice cosa è di casa anche in Toscana, per esempio a Pisa: Ma cosa ci 'ombina? Ma che cosa ha che fare?
Re: «Cosa» ~ «che cosa»
Sí.u merlu rucà ha scritto:Se non erro (occorre una conferma) il semplice cosa è di casa anche in Toscana, per esempio a Pisa: Ma cosa ci 'ombina? Ma che cosa ha che fare?

Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
- Infarinato
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Re: «Cosa» ~ «che cosa»
Anche l’aferetico ’sa: «’Sa vorresti fà’ te??».u merlu rucà ha scritto:Se non erro (occorre una conferma) il semplice cosa è di casa anche in Toscana, per esempio a Pisa: Ma cosa ci 'ombina? Ma che cosa ha che fare?

Ferdinand Bardamu ha scritto che la forma non si può certo definire folle.....
L'ho definita "folle" per sottolinearne la palese illogicità. Provate a sostituire la parola "cosa", che è un comune sostantivo come tanti altri, con una qualsiasi altra parola...: tavolo, penna, cielo, aria...... "Cielo dici?", "Tavolo fai?", "Penna senti?", "Aria vuoi?", etc. etc.. Cioè, basta astrarci per un attimo dal significato che siamo abituati a dare alla locuzione, privata del suo aggettivo interrogativo, e osservarla dal punto di vista, appunto, "logico" (in tutti i sensi), per coglierne in pieno tutta la sua manifesta irragionevolezza e rendersi conto che il termine "cosa" - tutt'altro che autonomo all'interno della locuzione - acquista senso solo se accompagnato dall'interrogativo "che". Altra cosa è rassegnarsi all'uso comune, ma con l'avvertenza che - a mio umilissimo parere - nello scritto formale la locuzione piena debba essere di gran lunga preferita (come ben dice sopra anche Luca Serianni)!
L'ho definita "folle" per sottolinearne la palese illogicità. Provate a sostituire la parola "cosa", che è un comune sostantivo come tanti altri, con una qualsiasi altra parola...: tavolo, penna, cielo, aria...... "Cielo dici?", "Tavolo fai?", "Penna senti?", "Aria vuoi?", etc. etc.. Cioè, basta astrarci per un attimo dal significato che siamo abituati a dare alla locuzione, privata del suo aggettivo interrogativo, e osservarla dal punto di vista, appunto, "logico" (in tutti i sensi), per coglierne in pieno tutta la sua manifesta irragionevolezza e rendersi conto che il termine "cosa" - tutt'altro che autonomo all'interno della locuzione - acquista senso solo se accompagnato dall'interrogativo "che". Altra cosa è rassegnarsi all'uso comune, ma con l'avvertenza che - a mio umilissimo parere - nello scritto formale la locuzione piena debba essere di gran lunga preferita (come ben dice sopra anche Luca Serianni)!
Beh, basta cambiare la consonante iniziale (per non esser volgari), e "cavolo fai?" è un'espressione che si sente eccome.slaros ha scritto:Provate a sostituire la parola "cosa", che è un comune sostantivo come tanti altri, con una qualsiasi altra parola [...] "Tavolo fai?"
Caro Slaros, come le confermeranno penso anche altri, se dovessimo applicare i criteri della logica stretta a tutta la lingua, "astraendoci dal significato che siamo abituati a dare alla locuzione", rimarremmo con ben poco!slaros ha scritto:Cioè, basta astrarci per un attimo dal significato che siamo abituati a dare alla locuzione [...] e osservarla dal punto di vista, appunto, "logico" (in tutti i sensi), per coglierne in pieno tutta la sua manifesta irragionevolezza [...] Altra cosa è rassegnarsi all'uso comune
slaros ha scritto:Scusa per l'ignoranza, ma sono un amatore e non proprio uno specialista. Che cosa significa la frase che utilizzi nella tua risposta: "uso corretto in un registro non sostenuto"?
Quindi un registro non sostenuto significa un registro di tono poco elevato, comune ma tendente alla familiarità.Il Treccani in linea ha scritto:sostenuto Di scritto, discorso e sim., stilisticamente molto sorvegliato, di tono elevato: prosa s.; un conversare, un periodare molto sostenuto.
P.S. Possibile ch’io debba «ricordare» a tutti i nuovi arrivati, sistematicamente, che in questa piazza ci si dà del lei?
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Infatti! Colgo l’occasione per rimandare a questa mia anticaglia.Bue ha scritto:Caro Slaros, come le confermeranno penso anche altri, se dovessimo applicare i criteri della logica stretta a tutta la lingua, "astraendoci dal significato che siamo abituati a dare alla locuzione", rimarremmo con ben poco!
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
- Ferdinand Bardamu
- Moderatore
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- Iscritto in data: mer, 21 ott 2009 14:25
- Località: Legnago (Verona)
Faccio mie le osservazioni di Bue e quelle espresse nell'«anticaglia» di Marco.
Non me ne voglia, caro Slaros, ma le sue critiche sono, insomma, un pochino ingenue: abbiamo che fare con uno strumento di comunicazione, come qualsiasi lingua naturale, che ha subíto il lavorio dell'uso incessante dei parlanti; si è stratificato e sovrapposto a lingue precedenti, mescolato a abitudini e particolarità morfo-sintattiche preesistenti o ne ha aggiunto di nuove.
Ne risulta una meravigliosa miscela d'antico e di moderno in gran parte impenetrabile alla logica. Non parliamo nemmeno, poi, degli sghiribizzi dell'etimologia, altrimenti dovremmo concluderne che parlare una lingua naturale è il preludio all'ingresso in manicomio.
Non me ne voglia, caro Slaros, ma le sue critiche sono, insomma, un pochino ingenue: abbiamo che fare con uno strumento di comunicazione, come qualsiasi lingua naturale, che ha subíto il lavorio dell'uso incessante dei parlanti; si è stratificato e sovrapposto a lingue precedenti, mescolato a abitudini e particolarità morfo-sintattiche preesistenti o ne ha aggiunto di nuove.
Ne risulta una meravigliosa miscela d'antico e di moderno in gran parte impenetrabile alla logica. Non parliamo nemmeno, poi, degli sghiribizzi dell'etimologia, altrimenti dovremmo concluderne che parlare una lingua naturale è il preludio all'ingresso in manicomio.

Nell’accezione 3b del Treccani:
registro 3b. In linguistica, r. di comunicazione, di espressione, ogni diverso modo di realizzare, nell’atto linguistico, le diverse possibilità che offre un sistema linguistico o dialettale, soprattutto in rapporto al ricevente e alle finalità che chi parla o scrive si propone: r. alto, elevato, teso, o r. basso, familiare, colloquiale.
registro 3b. In linguistica, r. di comunicazione, di espressione, ogni diverso modo di realizzare, nell’atto linguistico, le diverse possibilità che offre un sistema linguistico o dialettale, soprattutto in rapporto al ricevente e alle finalità che chi parla o scrive si propone: r. alto, elevato, teso, o r. basso, familiare, colloquiale.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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