giulia tonelli ha scritto:Mi piacerebbe l'opinione di Infarinato.
Grazie della stima. In realtà, su questo argomento, come su tanti, il mio parere vale quanto quello di chiunque altro…
Devo dire (Marco, non mi crocifiggere, ti prego) che sono
sostanzialmente d’accordo con quanto scrive Giulia. Ma procediamo con ordine:
giulia tonelli ha scritto:Io credo che le lingue differiscano tra loro non solo per ragioni fono-morfo-struttural-bla-bla, ma anche per diversa "attitudine". L'inglese è una lingua molto, molto, MOLTO più malleabile dell'italiano. In inglese è più facile inventare parole nuove che attecchiscono al volo, è più facile creare neologismi mettendo insieme parole esistenti, ed è più semplice prendere una parola già esistente e usarla in un altro significato.
«
Any noun can be ‹verbed›»

(…per far questo in modo sistematico, in italiano dobbiamo ricorrere all’«izzazione»). La maggior «malleabilità» dell’inglese rispetto all’italiano è dovuta essenzialmente a tre ragioni strettamente connesse fra loro:
- Tipologia linguistica: l’inglese moderno è una lingua [sempre piú] analitica, che forma nuove parole per semplice giustapposizione con eventuali, disarmantemente ordinari passaggi di categoria grammaticale.
- Stigma sociolinguistico (cfr. scenette romanesche di Amicus): l’inglese è la lingua della cultura [attualmente] dominante, l’italiano è una lingua col complesso d’inferiorità: non crea piú, si limita ad assorbire passivamente e adatta solo quando non può fare altrimenti (coniugazione verbale). In un contesto formale gli adattamenti «paragogici» sono mal visti dagli stessi centromeridionali, e innaturali per i settentrionali.
- Storia: l’inglese moderno, che nasce dalle ceneri dell’inglese medio, è di per sé lingua ibrida.
giulia tonelli ha scritto:L'italiano, nato come lingua letteraria e non "naturale", è infinitamente più restio ai neologismi e alle risemantizzazioni.
Stricto sensu (ma neanche troppo), l’italiano è la lingua materna solo d’un’esigua fetta della popolazione cosiddetta «italofona»: dei toscani. Una non piccola parte del nostro vocabolario rimane preclusa agl’italofoni non toscani fino all’età scolare e anche oltre, i quali, oggi, spesso non possono nemmeno piú attingere al sostrato dialettale e, quando possono, sono incerti dell’opportunità o dell’esatta modalità dell’eventuale italianizzazione. Anche certi costrutti, che toccano le strutture intime della nostra lingua, rimangono per certi versi innaturali: ricordo una discussione sulla «complessità»/«innaturalità» della successione di tre clitici, che noi toscani ci pappiamo a colazione.
Tutto questo contribuisce alla visione dell’italiano comegiulia tonelli ha scritto:un signore elegante vestito con la marsina e il cappello.
Dobbiamo dunque «lasciare ogni speranza»? No, non necessariamente, ma, al di là della rivalutazione culturale del nostro Paese (della quale è prerequisito indispensabile un rimboccamento di maniche generalizzato in campo politico-economico: vedi Spagna), bisogna essere consci dei nostri «limiti linguistici», che
non sono piú grandi di quelli d’una lingua come l’inglese, ma sono
diversi.
Tutto si può, o meglio —dobbiamo oggi onestamente riconoscere— si
sarebbe potuto tradurre (è la famosa e universalmente riconosciuta «equieffabilità delle lingue»), ma dev’essere fatto
secondo le modalità della nostra lingua. Vorrà dire, allora, che ci si dovrà piú spesso affidare a perifrasi, a
callidae iuncturae, ricorrendo agli adattamenti e alle neoformazioni solo come
extrema ratio —e che siano formazioni
compatibili con le strutture della nostra lingua: non possiamo formare parole «all’inglese»…
E, se in italiano esiste già un traducente acconcio realmente usato (ancorché magari non perfetto, poco «metaforico» o un po’ troppo «inamidato» rispetto all’originale), rallegriamoci e adottiamolo: sempre meglio del forestierismo crudo. In fondo, un po’ inamidati siamo
anche noi italiani.
E rincuoriamoci pensando alle difficoltà che molte lingue (inglese incluso) hanno nel rendere la serie di alterati dell’italiano.
