Anglofilia imperante - Proposte di un ingegnere
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Anglofilia imperante - Proposte di un ingegnere
Perché la pubblicità televisiva di un'auto francese in Italia si conclude con lo slogan (anzi, con il "claim") "Drive the change"? L'auto è francese, i potenziali acquirenti sono italiani, cosa c'entra l'inglese? Un'altra marca, sempre francese, non è da meno con "Motion & Emotion".
C'è poco da fare: l'inglese suona più attuale, più internazionale, più "cool". E' un processo irreversibile?
In tutte le epoche storiche le lingue hanno subito influenze reciproche, accogliendo ed eventualmente adattando termini stranieri. Tali influenze sono spesso state in relazione alla dominanza culturale in determinati ambiti. Così, si usano in tutto il mondo termini italiani in campo musicale ("adagio", "andante"...) e culinario ("pasta", "pizza"...).
Oggi assistiamo tuttavia ad una dominanza senza precedenti della lingua inglese, divenuta uno standard riconosciuto pressoché in tutti i settori, con un'intensità tale da far seriamente riflettere sulle sorti delle altre lingue e dell'italiano in particolare.
In Italia è praticamente mancante una vera politica linguistica: ci si limita ad osservare le tendenze in atto e, quando diventano significative, le si registra come legittime nei dizionari. Così, ad esempio, nessuno si sognerebbe di tradurre "hashtag", mentre è stato ormai sdoganato il termine "selfie" per le foto in autoscatto e chi proponesse delle versioni "sciacquate nell'Arno" per tali termini, verrebbe senza dubbio schernito e compatito.
Perciò guardiamo con ironia e senso di superiorità agli svizzeri italiani, che usano "servi-sol" al posto di "self-service" e ai francesi che, forti del loro dirigismo linguistico (Délégation générale à la langue française et aux langues de France) resistono al "computer" con il loro "ordinateur".
Perché l'inglese è così attraente? I motivi sono molteplici:
- è la lingua della prima superpotenza mondiale, da cui acquistiamo tecnologia, spettacolo, informazione;
- è la lingua della scienza e della tecnica, imbattibile cavallo di Troia per la lingua di Albione;
- è la lingua che si è affermata come standard universale per comunicare con il resto del mondo, anche se in una versione iper-semplificata, che spesso fa inorridire gli anglofoni madre-lingua;
- è una lingua rapida, con moltissime micro-parole (quasi tutte le combinazioni di due consonanti e una vocale intermedia hanno qualche significato: tab, bat, pat, tap, sin, mat, tan, tag...).
Eppure non possiamo dire che sia la lingua più armoniosa ed eufonica: la pronuncia non si desume univocamente dalla lingua scritta (al punto che anche gli anglofoni hanno bisogno di chiarimenti fonetici per le nuove parole), la rapidità va spesso a detrimento dell'eleganza e della coerenza (si pensi alla miriade di "phrasal verbs" del tipo "take off" e "carry out", in cui il significato cambia drasticamente con il cambio della preposizione, non sempre secondo criteri logici).
I motivi di attrazione sembrano però prevalere e perseverare con un atteggiamento puramente notarile potrebbe comportare non pochi rischi per la sopravvivenza di molte parti del nostro patrimonio linguistico, ammesso ovviamente che tale patrimonio sia considerato un valore da salvaguardare, come ritiene il sottoscritto.
D'altra parte, i metodi direttivi in Italia non sembrano funzionare e rischierebbero di ottenere l'effetto opposto: rafforzare l'attrazione dei termini inglesi eventualmente "proibiti", proprio come avviene per un adolescente di fronte alle proibizioni dei genitori.
Che fare allora?
Un primo passo potrebbe essere l'azione alla fonte, cioè nel momento in cui avvengono le traduzioni ufficiali. A mio avviso, il livello medio delle traduzioni, soprattutto in ambienti tecnici, è decisamente peggiorato negli ultimi anni. Si pensi al caso delle norme UNI o analoghe, tradotte da corrispondenti norme europee o mondiali (sempre che lo siano, dato che ormai la stessa UNI adotta spesso i testi direttamente in lingua inglese): molte traduzioni sono opera evidente di esperti tecnici, ma non altrettanto esperti in campo linguistico. Ad esempio: in un documento del Global Reporting Initiative la parola inglese "materiality" è stata pigramente tradotta come "materialità", quando invece il significato nel contesto in questione è quello di "rilevanza" (non a caso i francesi l'hanno tradotta con "pertinence"); in alcuni film si sente esclamare "ben fatto!", che è un evidente ricalco di "well done!", che un traduttore oculato riporterebbe più propriamente come "bravo!"
Questa pigrizia traduttiva, con la frequente complicità di traduttori automatici, incoraggia obbrobri del tipo: "finalizzare" al posto di "completare", "sottomettere" anziché "sottoporre" e altre perle simili. Sul sito di una compagnia telefonica si può leggere ad esempio: "Tutti i punti accumulati nel periodo (...) non potranno essere redenti prima di tale data". Sì, proprio "redenti", traduzione automatica di "redeemed"!
Altra via da percorrere potrebbe essere quella dell'autoregolamentazione da parte delle categorie più influenti sulla comunicazione al vasto pubblico, in primis i giornalisti. Si potrebbe invitare tali categorie a riflettere seriamente sulla reale utilità di ogni termine inglese contenuto nei propri articoli o interventi.
Si potrebbe anche ipotizzare la creazione di un marchio di qualità linguistica delle presentazioni, da utilizzarsi soprattutto in ambito aziendale e accademico: l'apposizione di tale marchio sulle diapositive di una presentazione attesterebbe che l'oratore aderisce ad un codice di autoregolamentazione linguistica. L'emulazione reciproca potrebbe contribuire a diffondere il marchio e a sensibilizzare un numero crescente di persone.
Si potrebbe poi ricorrere alla sensibilizzazione mediante annunci mirati (del tipo "Pubblicità Progresso"), ma anche qui il rischio sarebbe di rafforzare il messaggio opposto, con l'effetto dell'adolescente rimproverato.
Una soluzione più efficace e furba potrebbe far leva sull'immagine attraente dell'utilizzo di termini inglesi, appannandola ad arte: ad esempio, qualche comico in prima serata televisiva potrebbe ridicolizzare un Presidente del Consiglio, addirittura fiorentino, che parla di "JOBS Act"; potrebbe ironizzare su un giornalista che parla di "timing" di un progetto; potrebbe farci sorridere di chi utilizza termini inglesi senza saperli nemmeno pronunciare (quanto è ridicolo sentire dei tromboni pronunciare "fescion", "internescional", "pession", come se ci fosse una regola in inglese per cui le "a" debbano essere pronunciate "e"!)
Qualcuno starà pensando che questa battaglia non abbia ragione di esistere e che anzi l'inglese dovrebbe diffondersi ancora di più per aprirci al mondo, visto che non brilliamo certo con gli stranieri per le nostre competenze linguistiche.
Sono assolutamente d'accordo con la necessità di diffondere maggiormente una buona conoscenza della lingua inglese (e sono grato ai miei genitori che mi permisero a 17 anni di conseguire il diploma Proficiency dell'Università di Cambridge, strumento importante per la mia successiva attività professionale di ingegnere), ma ritengo altresì che vada preservato più efficacemente il nostro patrimonio linguistico da un assalto senza precedenti. Non possiamo affidarci soltanto alla pasta e alla pizza!
Marco Zomer
Collegno (Torino)
(neo-iscritto al foro)
C'è poco da fare: l'inglese suona più attuale, più internazionale, più "cool". E' un processo irreversibile?
In tutte le epoche storiche le lingue hanno subito influenze reciproche, accogliendo ed eventualmente adattando termini stranieri. Tali influenze sono spesso state in relazione alla dominanza culturale in determinati ambiti. Così, si usano in tutto il mondo termini italiani in campo musicale ("adagio", "andante"...) e culinario ("pasta", "pizza"...).
Oggi assistiamo tuttavia ad una dominanza senza precedenti della lingua inglese, divenuta uno standard riconosciuto pressoché in tutti i settori, con un'intensità tale da far seriamente riflettere sulle sorti delle altre lingue e dell'italiano in particolare.
In Italia è praticamente mancante una vera politica linguistica: ci si limita ad osservare le tendenze in atto e, quando diventano significative, le si registra come legittime nei dizionari. Così, ad esempio, nessuno si sognerebbe di tradurre "hashtag", mentre è stato ormai sdoganato il termine "selfie" per le foto in autoscatto e chi proponesse delle versioni "sciacquate nell'Arno" per tali termini, verrebbe senza dubbio schernito e compatito.
Perciò guardiamo con ironia e senso di superiorità agli svizzeri italiani, che usano "servi-sol" al posto di "self-service" e ai francesi che, forti del loro dirigismo linguistico (Délégation générale à la langue française et aux langues de France) resistono al "computer" con il loro "ordinateur".
Perché l'inglese è così attraente? I motivi sono molteplici:
- è la lingua della prima superpotenza mondiale, da cui acquistiamo tecnologia, spettacolo, informazione;
- è la lingua della scienza e della tecnica, imbattibile cavallo di Troia per la lingua di Albione;
- è la lingua che si è affermata come standard universale per comunicare con il resto del mondo, anche se in una versione iper-semplificata, che spesso fa inorridire gli anglofoni madre-lingua;
- è una lingua rapida, con moltissime micro-parole (quasi tutte le combinazioni di due consonanti e una vocale intermedia hanno qualche significato: tab, bat, pat, tap, sin, mat, tan, tag...).
Eppure non possiamo dire che sia la lingua più armoniosa ed eufonica: la pronuncia non si desume univocamente dalla lingua scritta (al punto che anche gli anglofoni hanno bisogno di chiarimenti fonetici per le nuove parole), la rapidità va spesso a detrimento dell'eleganza e della coerenza (si pensi alla miriade di "phrasal verbs" del tipo "take off" e "carry out", in cui il significato cambia drasticamente con il cambio della preposizione, non sempre secondo criteri logici).
I motivi di attrazione sembrano però prevalere e perseverare con un atteggiamento puramente notarile potrebbe comportare non pochi rischi per la sopravvivenza di molte parti del nostro patrimonio linguistico, ammesso ovviamente che tale patrimonio sia considerato un valore da salvaguardare, come ritiene il sottoscritto.
D'altra parte, i metodi direttivi in Italia non sembrano funzionare e rischierebbero di ottenere l'effetto opposto: rafforzare l'attrazione dei termini inglesi eventualmente "proibiti", proprio come avviene per un adolescente di fronte alle proibizioni dei genitori.
Che fare allora?
Un primo passo potrebbe essere l'azione alla fonte, cioè nel momento in cui avvengono le traduzioni ufficiali. A mio avviso, il livello medio delle traduzioni, soprattutto in ambienti tecnici, è decisamente peggiorato negli ultimi anni. Si pensi al caso delle norme UNI o analoghe, tradotte da corrispondenti norme europee o mondiali (sempre che lo siano, dato che ormai la stessa UNI adotta spesso i testi direttamente in lingua inglese): molte traduzioni sono opera evidente di esperti tecnici, ma non altrettanto esperti in campo linguistico. Ad esempio: in un documento del Global Reporting Initiative la parola inglese "materiality" è stata pigramente tradotta come "materialità", quando invece il significato nel contesto in questione è quello di "rilevanza" (non a caso i francesi l'hanno tradotta con "pertinence"); in alcuni film si sente esclamare "ben fatto!", che è un evidente ricalco di "well done!", che un traduttore oculato riporterebbe più propriamente come "bravo!"
Questa pigrizia traduttiva, con la frequente complicità di traduttori automatici, incoraggia obbrobri del tipo: "finalizzare" al posto di "completare", "sottomettere" anziché "sottoporre" e altre perle simili. Sul sito di una compagnia telefonica si può leggere ad esempio: "Tutti i punti accumulati nel periodo (...) non potranno essere redenti prima di tale data". Sì, proprio "redenti", traduzione automatica di "redeemed"!
Altra via da percorrere potrebbe essere quella dell'autoregolamentazione da parte delle categorie più influenti sulla comunicazione al vasto pubblico, in primis i giornalisti. Si potrebbe invitare tali categorie a riflettere seriamente sulla reale utilità di ogni termine inglese contenuto nei propri articoli o interventi.
Si potrebbe anche ipotizzare la creazione di un marchio di qualità linguistica delle presentazioni, da utilizzarsi soprattutto in ambito aziendale e accademico: l'apposizione di tale marchio sulle diapositive di una presentazione attesterebbe che l'oratore aderisce ad un codice di autoregolamentazione linguistica. L'emulazione reciproca potrebbe contribuire a diffondere il marchio e a sensibilizzare un numero crescente di persone.
Si potrebbe poi ricorrere alla sensibilizzazione mediante annunci mirati (del tipo "Pubblicità Progresso"), ma anche qui il rischio sarebbe di rafforzare il messaggio opposto, con l'effetto dell'adolescente rimproverato.
Una soluzione più efficace e furba potrebbe far leva sull'immagine attraente dell'utilizzo di termini inglesi, appannandola ad arte: ad esempio, qualche comico in prima serata televisiva potrebbe ridicolizzare un Presidente del Consiglio, addirittura fiorentino, che parla di "JOBS Act"; potrebbe ironizzare su un giornalista che parla di "timing" di un progetto; potrebbe farci sorridere di chi utilizza termini inglesi senza saperli nemmeno pronunciare (quanto è ridicolo sentire dei tromboni pronunciare "fescion", "internescional", "pession", come se ci fosse una regola in inglese per cui le "a" debbano essere pronunciate "e"!)
Qualcuno starà pensando che questa battaglia non abbia ragione di esistere e che anzi l'inglese dovrebbe diffondersi ancora di più per aprirci al mondo, visto che non brilliamo certo con gli stranieri per le nostre competenze linguistiche.
Sono assolutamente d'accordo con la necessità di diffondere maggiormente una buona conoscenza della lingua inglese (e sono grato ai miei genitori che mi permisero a 17 anni di conseguire il diploma Proficiency dell'Università di Cambridge, strumento importante per la mia successiva attività professionale di ingegnere), ma ritengo altresì che vada preservato più efficacemente il nostro patrimonio linguistico da un assalto senza precedenti. Non possiamo affidarci soltanto alla pasta e alla pizza!
Marco Zomer
Collegno (Torino)
(neo-iscritto al foro)
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- Iscritto in data: sab, 06 set 2008 15:30
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- Iscritto in data: dom, 06 apr 2014 12:42
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Forse ha ragione: le possibilità sono minime.
Ribadisco tuttavia che occorre giocare d'astuzia "con le armi del nemico", facendo capire che l'anglofilia non è per niente desiderabile né attraente.
In tale direzione si muove ad esempio la mia proposta di marchio di qualità linguistica nelle presentazioni aziendali. Se tale marchio diventasse una moda, avremmo un risultato positivo grazie alla semplice emulazione (che attualmente gioca invece a favore dei forestierismi).
Ribadisco tuttavia che occorre giocare d'astuzia "con le armi del nemico", facendo capire che l'anglofilia non è per niente desiderabile né attraente.
In tale direzione si muove ad esempio la mia proposta di marchio di qualità linguistica nelle presentazioni aziendali. Se tale marchio diventasse una moda, avremmo un risultato positivo grazie alla semplice emulazione (che attualmente gioca invece a favore dei forestierismi).
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- Iscritto in data: ven, 13 apr 2012 9:09
Mi piace l'idea del marchio di qualità linguistica; lavoro giusto in un ambiente adatto a buttare sul tappeto un tale discorso: da un lato si calca la mano sulle identità locali, dall'altro nei corridoi e sulle circolari siamo bombardati da termini anglosassoni. Un piano, tranquillo, limpido italiano, invece, no, sembra non passare per la testa dell'"azienda".
Io ormai sto rinunciando a dare un significato a tutti i nuovi termini che infarciscono il mio lavoro: una specie di reazione allergica, tento di studiarmeli, ma non mi entrano proprio, non si agganciano all'oggetto che vorrebbero indicare.
Il punto, secondo me, è che c'è una gran confusione sull'argomento.
Il fatto che gli italiani sappiano poco e male l'inglese non deve confondersi col fatto che si sappia poco e male anche l'italiano.
Voglio dire: so l'inglese, se parlo e scrivo tale lingua in maniera comprensibile per un inglese.
Invece si sta diffondendo l'idea che "sapere l'inglese" equivalga a infarcire il discorso di termini inglesi sparsi a caso e storpiati a volontà.
Con la ovvia controparte di scrivere in inglese troppo spesso con la costruzione italiana, col verbo e il soggetto posizionato dove capita, il soggetto saltato a piè pari, e cose del genere.
Insomma, ci sarebbe sì da lavorare sull'"immagine": non sapere né l'una né l'altra lingua in maniera pulita, non può e non deve essere percepito come una nota di merito.
Io ormai sto rinunciando a dare un significato a tutti i nuovi termini che infarciscono il mio lavoro: una specie di reazione allergica, tento di studiarmeli, ma non mi entrano proprio, non si agganciano all'oggetto che vorrebbero indicare.
Il punto, secondo me, è che c'è una gran confusione sull'argomento.
Il fatto che gli italiani sappiano poco e male l'inglese non deve confondersi col fatto che si sappia poco e male anche l'italiano.
Voglio dire: so l'inglese, se parlo e scrivo tale lingua in maniera comprensibile per un inglese.
Invece si sta diffondendo l'idea che "sapere l'inglese" equivalga a infarcire il discorso di termini inglesi sparsi a caso e storpiati a volontà.
Con la ovvia controparte di scrivere in inglese troppo spesso con la costruzione italiana, col verbo e il soggetto posizionato dove capita, il soggetto saltato a piè pari, e cose del genere.
Insomma, ci sarebbe sì da lavorare sull'"immagine": non sapere né l'una né l'altra lingua in maniera pulita, non può e non deve essere percepito come una nota di merito.
- Infarinato
- Amministratore
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- Iscritto in data: gio, 04 nov 2004 10:40
- Info contatto:
Una cosa analoga era venuta in mente anche a qualcuno di noi otto anni or sono…domna charola ha scritto:Mi piace l'idea del marchio di qualità linguistica…
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- Interventi: 6
- Iscritto in data: dom, 06 apr 2014 12:42
- Località: Collegno (TO)
La ringrazio per la segnalazione: non è facile mettersi al passo con le attività pregresse per un neo-iscritto al fòro!
Ho letto con attenzione il filone "Cruscato", incluse le varie ipotesi di nome da assegnare al marchio.
La mia proposta non implicherebbe tuttavia una "certificazione", sia pur volontaria, di una terza parte. Sarebbe invece un marchio di autoregolamentazione che attesterebbe più o meno: "Io aderisco a determinati principî linguistici e la mia presentazione si conforma a tali principî".
Per realizzare un tale marchio occorrerebbe:
- identificare i principî di riferimento;
- fondare il marchio, coinvolgendo un primo nucleo di comunicatori importanti in ambito giornalistico-aziendale;
- diffondere opportunamente il marchio e contare sull'emulazione degli oratori.
Fantascienza? Io spererei di no.
Ho letto con attenzione il filone "Cruscato", incluse le varie ipotesi di nome da assegnare al marchio.
La mia proposta non implicherebbe tuttavia una "certificazione", sia pur volontaria, di una terza parte. Sarebbe invece un marchio di autoregolamentazione che attesterebbe più o meno: "Io aderisco a determinati principî linguistici e la mia presentazione si conforma a tali principî".
Per realizzare un tale marchio occorrerebbe:
- identificare i principî di riferimento;
- fondare il marchio, coinvolgendo un primo nucleo di comunicatori importanti in ambito giornalistico-aziendale;
- diffondere opportunamente il marchio e contare sull'emulazione degli oratori.
Fantascienza? Io spererei di no.
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- Iscritto in data: dom, 06 apr 2014 12:42
- Località: Collegno (TO)
Intervengo ancora, solo per segnalare che una versione condensata del mio contributo è stata pubblicata come "Editoriale dei Lettori" ieri su "La Stampa" (sia edizione cartacea, sia qui).
Mi scuso per l'autocitazione, ma ritengo che il tema sia quindi sufficientemente caldo per avere una buona possibilità di vedere pubblicate eventuali lettere sullo stesso argomento nei prossimi giorni, scrivendo a "lettere@lastampa.it".
Mi scuso per l'autocitazione, ma ritengo che il tema sia quindi sufficientemente caldo per avere una buona possibilità di vedere pubblicate eventuali lettere sullo stesso argomento nei prossimi giorni, scrivendo a "lettere@lastampa.it".
marcozomer e i successivi intervenuti hanno scritto cose cui non si può non aderire di tutto cuore. La testa suggerisce però di non illuderci troppo, perché abbiamo contro una legge formidabile, quella del massimo risultato col minimo sforzo. Non penso solo alla solita storia delle parole inglesi piú brevi delle italiane, sebbene anche quella abbia la sua importanza. Il fatto di poter dire in due sillabe quello che a noi ne richiede otto o dieci, è un punto di forza, perché l’espressione concentrata ha una maggiore incisività, che la fa preferire. E in generale, la stringatezza e sinteticità dell’inglese sono senza pari. Anche il lessico si sviluppa lungo la linea di minore resistenza, rappresentata in questo caso dalle parole che dicono il massimo col minimo di fonemi (e di lettere, i 'titolisti' dei giornali ne sanno qualche cosa).
E un altro punto di forza è la facoltà dell’inglese di creare per composizione neologismi comodi ed espressivi con una disinvoltura che nessun’altra lingua possiede: blog, brunch, biopic, travelogue… Ancora: chi ha occasione di comunicare con stranieri non anglofoni, poniamo tedeschi, sa quanto è piacevole trovarsi bell’e pronto un intero lessico tecnico comune a tutti, senza doverne imparare uno nuovo. (I Tedeschi anglizzano non meno di noi, e come noi inventano pseudoanglicismi, come quando si convincono che chiamando Handy il telefono cellulare saranno capiti in tutto il mondo civile.) Gli stessi Tedeschi, in teoria, potrebbero dire puristicamente Rechner, ma per chi è meno pratico della loro lingua è comodo che dicano computer.
Controprova: i Francesi, quelli dell’ordinateur, traducono molto piú di noi, cosa lodevole, ma con risultati non sempre positivi. Mi permetto di raccontare un’esperienza personale. L’uso che facciamo ogni giorno dell’aggettivo digitale è un chiaro anglicismo, perché le cifre numerali si chiamano digiti in inglese, non in italiano — né in francese, sicché al suo posto oltralpe si preferisce numérique. Una studiosa francese domanda, in una biblioteca italiana, il permesso di fare delle foto numériques. Se non fosse intervenuto un volonteroso lí presente a spiegare la situazione, ben difficilmente l’avrebbero capita, cosa facile se avesse usato invece il criticato anglicismo digitales (che peraltro in francese non è impossibile). Minuscolo esempio della situazione creatasi in un mondo dove i contatti internazionali sono tanto piú intensi di solo cinquanta anni fa. La lotta è impari.
E un altro punto di forza è la facoltà dell’inglese di creare per composizione neologismi comodi ed espressivi con una disinvoltura che nessun’altra lingua possiede: blog, brunch, biopic, travelogue… Ancora: chi ha occasione di comunicare con stranieri non anglofoni, poniamo tedeschi, sa quanto è piacevole trovarsi bell’e pronto un intero lessico tecnico comune a tutti, senza doverne imparare uno nuovo. (I Tedeschi anglizzano non meno di noi, e come noi inventano pseudoanglicismi, come quando si convincono che chiamando Handy il telefono cellulare saranno capiti in tutto il mondo civile.) Gli stessi Tedeschi, in teoria, potrebbero dire puristicamente Rechner, ma per chi è meno pratico della loro lingua è comodo che dicano computer.
Controprova: i Francesi, quelli dell’ordinateur, traducono molto piú di noi, cosa lodevole, ma con risultati non sempre positivi. Mi permetto di raccontare un’esperienza personale. L’uso che facciamo ogni giorno dell’aggettivo digitale è un chiaro anglicismo, perché le cifre numerali si chiamano digiti in inglese, non in italiano — né in francese, sicché al suo posto oltralpe si preferisce numérique. Una studiosa francese domanda, in una biblioteca italiana, il permesso di fare delle foto numériques. Se non fosse intervenuto un volonteroso lí presente a spiegare la situazione, ben difficilmente l’avrebbero capita, cosa facile se avesse usato invece il criticato anglicismo digitales (che peraltro in francese non è impossibile). Minuscolo esempio della situazione creatasi in un mondo dove i contatti internazionali sono tanto piú intensi di solo cinquanta anni fa. La lotta è impari.
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- Iscritto in data: ven, 13 apr 2012 9:09
Secondo me, la lotta si svolge su più piani, con esiti molto diversi.
Se parlo di gerghi tecnici, usati dagli addetti ai lavori nel momento in cui comunicano fra loro, razionalmente è meglio che ogni oggetto tecnico abbia uno e un solo nome, condiviso da tutti. Già nel Medioevo esisteva una lingua franca del sapere, e persino i nomi di persona venivano ricondotti ad essa. Ciò non toglie che, nella vita normale e nella comunicazione esterna alla gilda degli addetti ai lavori, esistesse e fosse correntemente usata la lingua locale.
Le stesso superspecialista che parla ostrogoto con i colleghi, dovrebbe essere in grado anche di rendere la sua scienza comprensibile agli altri, nella "loro" lingua corrente. In fondo, nella vita normale molto spesso una comunicazione tecnica si riduce a pochi concetti comprensibili da tutti, e che quindi possono essere espressi con termini assolutamente traducibili in italiano.
Ad esempio, quando parlo di geologia con geologi, uso i termini internazionali correnti nel nostro gergo (francesi, slavi, inglesi, gaelici etc.), però non trovo alcuna difficoltà, nello scrivere divulgativo, a sostituirli efficacemente, anzi... esprimerli in italiano aiuta la comprensione di un testo che altrimenti risulterebbe ostico.
L'esempio della signora francese e delle foto digitali non si sarebbe verificato se la signora francese si fosse impegnata a comunicare in italiano, o se il bibliotecario avesse conosciuto il francese. Avviene in tutti i casi in cui si fronteggiano due parlanti lingue diverse, e non si risolve certo appiattendo la lingua sullo scimmiottamento dei termini stranieri. Senza contare i rischi collaterali dei "falsi amici": quante cantonate, ragazzi!...
Anche la questione del minimo sforzo è relativa. Funziona sino a che si parla di computer o cose del genere, ben note a tutti. ma se appena appena ci si spinge più in là, la trasparenza della comunicazione va scemando. Ci sono testi che divengono assolutamente incomprensibili ai più, grazie all'infarcitura anglofila. Manovra peraltro consapevolmente adottata nell'ambito pubblicitario e politico, proprio per confondere le acque e "far passare" i discorsi che se troppo chiari non sarebbero efficaci...
Insomma, vale la pena secondo me di non arrendersi.
Se parlo di gerghi tecnici, usati dagli addetti ai lavori nel momento in cui comunicano fra loro, razionalmente è meglio che ogni oggetto tecnico abbia uno e un solo nome, condiviso da tutti. Già nel Medioevo esisteva una lingua franca del sapere, e persino i nomi di persona venivano ricondotti ad essa. Ciò non toglie che, nella vita normale e nella comunicazione esterna alla gilda degli addetti ai lavori, esistesse e fosse correntemente usata la lingua locale.
Le stesso superspecialista che parla ostrogoto con i colleghi, dovrebbe essere in grado anche di rendere la sua scienza comprensibile agli altri, nella "loro" lingua corrente. In fondo, nella vita normale molto spesso una comunicazione tecnica si riduce a pochi concetti comprensibili da tutti, e che quindi possono essere espressi con termini assolutamente traducibili in italiano.
Ad esempio, quando parlo di geologia con geologi, uso i termini internazionali correnti nel nostro gergo (francesi, slavi, inglesi, gaelici etc.), però non trovo alcuna difficoltà, nello scrivere divulgativo, a sostituirli efficacemente, anzi... esprimerli in italiano aiuta la comprensione di un testo che altrimenti risulterebbe ostico.
L'esempio della signora francese e delle foto digitali non si sarebbe verificato se la signora francese si fosse impegnata a comunicare in italiano, o se il bibliotecario avesse conosciuto il francese. Avviene in tutti i casi in cui si fronteggiano due parlanti lingue diverse, e non si risolve certo appiattendo la lingua sullo scimmiottamento dei termini stranieri. Senza contare i rischi collaterali dei "falsi amici": quante cantonate, ragazzi!...
Anche la questione del minimo sforzo è relativa. Funziona sino a che si parla di computer o cose del genere, ben note a tutti. ma se appena appena ci si spinge più in là, la trasparenza della comunicazione va scemando. Ci sono testi che divengono assolutamente incomprensibili ai più, grazie all'infarcitura anglofila. Manovra peraltro consapevolmente adottata nell'ambito pubblicitario e politico, proprio per confondere le acque e "far passare" i discorsi che se troppo chiari non sarebbero efficaci...
Insomma, vale la pena secondo me di non arrendersi.
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