Ho spostato questi interventi fuori tema in una discussione a parte perché a mio avviso la questione che trattano merita un approfondimento.
Risponderò cercando di rimanere il piú possibile sul terreno linguistico. Ovviamente il fatto si presta a manipolazioni e strumentalizzazioni politiche, delle quali qui non possiamo e non vogliamo discutere.
Stando alla definizione che tutti abbiamo presente, un suicida è una persona che si toglie volontariamente la vita.
Ne consegue che una persona che ingerisca consapevolmente una miscela di farmaci letali, preparati appositamente da personale medico, al fine di evitarsi mesi di dolorosa agonia, è un o una suicida, a prescindere da qualunque connotazione morale o moralistica si voglia dare alla parola.
È vero però che il suicida, nell’immaginario comune, è una persona che si uccide in solitudine, alla Werther: per questo, nel caso del malato che pone fine anzitempo alle sue sofferenze, occorre aggiungere l’aggettivo
assistito.
Le riconosco però una cosa. Per evitare che quest’atto finisca prigioniero di visioni di parte, è forse opportuno usare una parola meno carica di connotazioni negative. Dopotutto, parliamo di una categoria particolare di persone, i malati terminali, per i quali la morte anticipata a molti sembra un atto di compassione. Un termine neutro allora può essere
eutanasia volontaria.