Dittonghi

Spazio di discussione su questioni di fonetica, fonologia e ortoepia

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Ivan92
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Intervento di Ivan92 »

Vi prego di perdonare in anticipo la melensaggine del quesito. Come considerare una parola come baita, che abbiamo detto essere composta di due sillabe (bai-ta)? Piana o sdrucciola? Sí, lo so che in fin dei conti baita non è poi cosí diversa da rata (piana). Eppure, codesta i breve e asillabica mi forvía.
valerio_vanni
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Intervento di valerio_vanni »

Io dico piana, senza ombra di dubbio.
Ivan92
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Intervento di Ivan92 »

Io concordo con lei. Ma allora come considerare parole come bugía o mormorío? Tronche?
valerio_vanni
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Intervento di valerio_vanni »

Le considero tronche perché l'accento è sull'ultima sillaba.
Per definirle piane bisognerebbe considerarle (n+1)sillabiche.

Si tratta però di "tronche" speciali, con delle differenze dalle più classiche con vocale semplice (città, però, andò etc): per esempio non producono raddoppiamento fonosintattico.

Poi, può darsi che esista una denominazione più precisa per questo tipo di parole e che io non la conosca.

Aggiungo inoltre una differenza, notata statisticamente nelle canzoni: il dittongo interno alla parola rimane sempre tale, quello a fine frase a volte può finire diviso su due note (quindi passare a iato).
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Carnby
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Intervento di Carnby »

Secondo la grammatica tradizionale, baita e bugia sono entrambe piane perché si dividono come bai-ta e bu-gi-a. Ovviamente dal punto di vista puramente fonetico le cose sono molto differenti e bugia può esser considerata «tronca».
Ultima modifica di Carnby in data dom, 18 gen 2015 11:32, modificato 1 volta in totale.
Ivan92
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Intervento di Ivan92 »

Sí, difatti per bugia m'interessava proprio il punto di vista fonetico, ché tradizionalmente la questione si risolve in quattro e quattr'otto: è piana e non potrebbe essere altrimenti. Ma in baita, dittongo anche per la grammatica classica, le divergenze di pensiero s'attenuano fino a scomparire, e si è concordi nel considerarla piana. Ora, ai è sicuramente un dittongo, ma pensare che la parola sia piana, mi fa un certo effetto. Se foneticamente baita è pressoché simile a rata, non possiamo prescindere da codesta i, che, seppur breve e asillabica, in alcuni contesti (musicali, poetici, ecc.) può esser accentata. Un'ipotetica *baíta, allora, come dovrà essere considerata se bàita è piana? Ma forse la questione è molto piú semplice di quanto si pensi. Come dice valerio, sono tronche particolari.
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Infarinato
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Intervento di Infarinato »

In effetti, secondo la grammatica tradizionale le cose sono piuttosto complicate in virtú della cervellotica [metrico-etimologica, grafomorfologica, non fonetica] definizione di «dittongo e iato», e quindi di «sillaba».

Per questo io, seguendo il Canepàri, preferisco parlare di parole ultimali (e.g., capitò, portò), penultimali (capíto, capitàno, pòrta), terzultimali (càpita, pòrtano), quartultimali (càpitano, dóndolano), quintultimali (àpplicagliela) e sestultimali (fàbbricamicelo) quando le considero foneticamente, anziché di tronche (od ossitone), piane (o parossitone), sdrucciole (o proparossitone), bisdrucciole, trisducciole e quadrisdrucciole, termini che adopero solo quando intenda riferirmi alla definizione tradizionale di quei concetti.

Quindi, secondo la grammatica [e la metrica] tradizionale (seguo il Serianni), «dittonghi» sono solo i «dittonghi discendenti» /ai, ɛi, ei, ɔi, oi, ui, au, ɛu, eu/ quando, ovviamente, l’accento cada sul primo elemento: essi contano per una sola sillaba a meno che non si trovino in fin d’enunciato (e quindi anche nelle parole isolate), nel qual caso si ripartiscono in due sillabe.

«Dittonghi» sarebbero anche i cosiddetti «dittonghi ascendenti», cioè le sequenze eterofoniche /ja, jɛ, je, jɔ, jo, ju, wa, wɛ, we, wɔ, wo/, che contano ovviamente per una sola sillaba.

Quanto ai «trittonghi», il loro valore sillabico si deduce facilmente da quelli di cui sopra, ché sono sempre formati da /j/ o /w/ + dittongo discendente, da /jw/ + vocale o da /wj/ + vocale.

Tutte le altre combinazioni vocaliche (o vocalico-semiconsononantiche) sono, per la grammatica tradizionale, degl’«iati», e quindi si ripartiscono sempre in due o piú sillabe, a seconda dei casi (ovviamente, ai fini del computo, non si considerano le i meramente diacritiche o «etimologiche» come, e.g., in ciò, cielo, maglie, sogniamo o scialle).

Un po’ d’esempi: mai (foneticamente: ultimale, dittongo, una sillaba; tradizionalmente: «dittongo discendente», quindi normalmente una sillaba, ma due in fin d’enunciato e quindi come parola isolata, ergo «piana»), mia (foneticamente: ultimale, dittongo, una sillaba; tradizionalmente: «iato», due sillabe, ergo «piana» anch’essa), miei (foneticamente: ultimale, approssimante + dittongo, una sillaba; tradizionalmente: «trittongo» formato da /j/ + dittongo discendente, quindi normalmente una sillaba, ma due in fin d’enunciato e quindi come parola isolata, ergo «piana» anch’essa). Insomma, per la grammatica tradizionale sono «tronche» solo le parole uscenti in vocale [singola] accentata, eventualmente seguita da una coda consonantica: e.g., ciò, però, virtú, piú, do, qui, , tradí, cantiam, amor.

Bugia (foneticamente: ultimale, dittongo nell’ultima sillaba, disillabica) e baita (foneticamente: penultimale, dittongo nella prima sillaba, disillabica), come ricordava giustamente Carnby, sono entrambe «piane» secondo la grammatica tradizionale (la prima con un «iato» finale, trisillabica; la seconda con un «dittongo discendente» iniziale, ergo disillabica), ma… come intuiva opportunamente Ivan, le cose non sono sempre cosí «semplici», ché alcuni «grammatici», in base a criteri meramente grafici, possono arrivare all’abominio di considerare baita e Laura «sdrucciole» per «distinguerle» da parole [sempre «piane» e sempre penultimali] come aita e paura, che presentano un vero iato fonetico, e sono quindi trisillabiche anche per la fonetica. :?
valerio_vanni
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Intervento di valerio_vanni »

Ivan92 ha scritto:Se foneticamente baita è pressoché simile a rata, non possiamo prescindere da codesta i, che, seppur breve e asillabica, in alcuni contesti (musicali, poetici, ecc.) può esser accentata.
Questo però è veramente raro (dentro alla parola). Più facile a fine frase (e quindi a fine parola) che un dittongo venga spezzato su due note.
Un'ipotetica *baíta, allora, come dovrà essere considerata se bàita è piana?
Un esempio non ipotetico è circùito - circuìto.

Secondo me è un falso problema. La contraddizione apparente deriva dall'osservarle a un livello più basso rispetto alle sillabe, cioè come sequenza di foni.
La definizione di tronca - piana - etc (o ultimale, penultimale etc) è successiva alla (e dipendente dalla) divisione in sillabe, che a sua volta dipende dagli accenti. Tutti i sillabatori automatici visti finora, che ragionano senza dati sugli accenti ma solo in base alle sequenze, falliscono. Senza sapere dov'è l'accento non si può sillabare.

Guardando le parole nel loro stato sillabato, cir'cui.to e cir.cu'i.to, mi pare naturale dire che l'accento stia nella penultima sillaba.
Ivan92
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Intervento di Ivan92 »

Chiarissimo ed esauriente come sempre, gentile Infarinato. Le pongo tre semplici quesiti:

1- Quando dà la definizione di trittongo, lo fa prendendo in considerazione il punto di vista tradizionale?

2- Anche un parola come buio è, foneticamente parlando, ultimale?

3- Dicendo che mai è un monosillabo ma che si ripartisce in due sillabe se preso isolatamente, non ravvisa anche Lei una certa contraddittorietà? Mi sembra che la grammatica tradizionale complichi le cose. Voglio dire, se un monosillabo è bisillabo quando si trova in fin d'enunciato e se preso isolatamente, è tutto fuorché un monosillabo!! Sarebbe troppo semplice dire che mai è un bisillabo eccetto quando questo si trovi nel corpo d'una frase? Mi riferisco, ovviamente, al pensiero classico-tradizionale.
valerio_vanni
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Intervento di valerio_vanni »

Buio è penultimale, l'accento è sulla prima sillaba /'bu.jo/. Altrimenti le pronunce sarebbero /bu'io/, /bu'jo/ o /bu'jɔ/.
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Intervento di Infarinato »

valerio_vanni ha scritto:La definizione di tronca - piana - etc (o ultimale, penultimale etc) è successiva alla (e dipendente dalla) divisione in sillabe, che a sua volta dipende dagli accenti.
Codesto è certamente vero [per l’italiano] sul piano fonetico, una sequenza di vocali («vocoidi») contigue non potendosi ripartire su due sillabe se non in presenza di una qualche differenza accentuale (eventualmente anche solo secondaria), gli altri tipi di sillabazione [interconsonantica o fra vocale e consonante] essendo meccanicamente determinati.

Ma il problema è proprio il punto di vista tradizionale, che considera «iati» alcuni dittonghi fonetici, ergo l’implicazione di cui sopra non regge piú. Ad esempio, una parola [foneticamente] disillabica penultimale come Paolo tradizionalmente viene considerata trisillabica e quindi «sdrucciola».
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Intervento di Infarinato »

Ivan92 ha scritto:1- Quando dà la definizione di trittongo, lo fa prendendo in considerazione il punto di vista tradizionale?
Certo: trittonghi fonetici (cioè sequenze di tre vocali contigue non separate da alcuna differenza accentuale) in italiano non esistono.
Ivan92 ha scritto:2- Anche un parola come buio è, foneticamente parlando, ultimale?
Le ha già risposto Valerio. Aggiungo soltanto che, ovviamente, qui i rappresenta una /j/, che [in italiano] è una consonante [esclusivamente iniziale di sillaba], che può quindi essere eventualmente preceduta solo da altre consonanti appartenenti alla medesima sillaba, ogni vocale che la dovesse precedere dovendo necessariamente appartenere alla sillaba precedente.
Ivan92 ha scritto:3- Dicendo che mai è un monosillabo ma che si ripartisce in due sillabe se preso isolatamente, non ravvisa anche Lei una certa contraddittorietà? Mi sembra che la grammatica tradizionale complichi le cose.
Beh, ma l’ha letto il mio intervento citato in apertura? Chiedermi cosa ne penso della definizione tradizionale di dittongo e iato è francamente una domanda retorica. ;)
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Intervento di Ivan92 »

La ringrazio. :)
Infarinato ha scritto:Certo: trittonghi fonetici (cioè sequenze di tre vocali contigue non separate da alcuna differenza accentuale) in italiano non esistono.
Dunque quiete, per esempio, è composta d'una consonante [w] e d'una sequenza eterofonica [jɛ]?
Infarinato ha scritto:Le ha già risposto Valerio. Aggiungo soltanto che, ovviamente, qui i rappresenta una /j/, che [in italiano] è una consonante [esclusivamente iniziale di sillaba], che può quindi essere eventualmente preceduta solo da altre consonanti appartenenti alla medesima sillaba, ogni vocale che la dovesse precedere dovendo necessariamente appartenere alla sillaba precedente.
Ecco svelato l'arcano. Credevo che la sequenza /-ujo/ formasse un dittongo. A ogni modo, se /j/ può esser preceduta da altre consonanti appartenenti alla medesima sillaba, perché si dice al contempo ch'è esclusivamente iniziale di sillaba?
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Intervento di Infarinato »

Ivan92 ha scritto:Dunque quiete, per esempio, è composta d'una consonante [w] e d'una sequenza eterofonica [jɛ]?
Sí, ovvero, piú banalmente: di due consonanti e una vocale. ;)
Ivan92 ha scritto: A ogni modo, se /j/ può esser preceduta da altre consonanti appartenenti alla medesima sillaba, perché si dice al contempo ch'è esclusivamente iniziale di sillaba?
Perché, a priori, una consonante [non sillabica] può comparire o in attacco o in coda di sillaba o in entrambi i luoghi, ma in italiano (diversamente che, e.g., in francese —si pensi a una parola come feuille /føj/—, e anche diversamente rispetto ad altre consonanti italiane —si pensi alla /r/ di rana e a quella di parte) /j/ può comparire solo in attacco, eventualmente preceduta da altre consonanti. ;)
Ivan92
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Intervento di Ivan92 »

Infarinato ha scritto:Sí, ovvero, piú banalmente: di due consonanti e una vocale. ;)
Chiarissimo! Se ho ben capito, la divisione in sillabe darà il seguente esito: quie-te. Insomma, ciò che sostiene anche la grammatica tradizionale. Soltanto che non bisogna considerare /-wjɛ/ alla stregua d'un trittongo, per le ragioni da Lei precedentemente addotte, ché, in fin dei conti, quiete si comporta come prete. Giusto? :)
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