Ritorna il discorso del rispetto dei vincoli nell'ambito della ricerca e della necessaria creatività.u merlu rucà ha scritto:Per quanto concerne màcia, l'esito potrebbe anche essere regolare, ma partendo da una base *maccula . Nei dialetti liguri -cl- > -ʎ-/-ʤ- se è preceduto da vocale, ma se è preceduto a consonante > -ʧ- (masculu > 'maʃʧu); *maccula, con anaptissi, a sua volta deriva da *makkla che è regolare da *mak-tla; in pratica, rispetto all'etimo (normale) di macula da *mak-la cambia il suffisso, che invece del diminutivo *lo- (ovviamente qui al
femminile) sarebbe quello locativo-strumentale *-tlo- (anch'esso al femminile).
Se vedo un oggetto leggero fluttuare nell'aria, non sono autorizzato a ritenere miracolisticamente sospesa la legge di gravità. E' meglio che pensi all'effetto concomitante di qualche altra forza (ad es., il vento).
Non possiamo invocare categorie esplicative di 2000 anni dopo.
Maccula era la pronuncia degli ultimi anziani dialettofoni che avevano problemi oculistici e riferivano, in dialetto, dei termini medici.
Infatti, gli italianismi (non solo parole dotte, sul perché faccio un cenno nel seguito) entrano nel genovese mediante generalizzata geminazione: infatti, si dice fratte = frate, moddu = modo, patatta = patata, insalatta = insalata, broddu = brodo, veddru = vetro, vitta = vita, mattemattica = matematica.
Certo, anche in voci terzultimali. Ma, se pure in genovese si dica tittulu = titolo e abbitu = abito (verbo), non si tratta dello stesso meccanismo che (in alcune occorrenze terzultimali anetimologiche del fiorentino quali, ad es., attimo e fabbrico) venne poi anche "codificato" nella lingua italiana.
Se non si fosse "volutamente" scelto l'italianismo (mediante la "volontà" della norma e del controllo sociale) la derivazione diretta e la regolare evoluzione fonetica ci avrebbero consegnato esiti che i parlanti genovesi stessi - pur "barbari" e "remoti" rispetto a una fiorentinità limpida - avrebbero rifiutato:
titulu>tituru>tiduru>tidur>tidu>tiu;
abitu>avitu>avidu>aviu e (nel socioletto popolare in cui [-v-]>[-0-])
aviu>aiu>aiju>ajju. Entrambi ritenuti non accettabili!
In genovese quanto illustrato avvenne e avviene soltanto perché molti fonemi consonantici intervocalici vennero leniti e, poi, ridotti allo zero fonico: nell'equivalente di dito si pervenne a diu e così via. Il fonema [-t-] sotto accento, normalmente, passa a [-0-], quindi [-t-] non fa più parte del sistema linguistico e si accettano i prestiti, ma con [-tt-], semplicemente perché i fonemi geminati (sotto accento) non vennero intaccati.
L'esito regolare fræ significò soltanto fratello e, assumendo il prestito per frate, si pronunciò fratte.
Perché [-t-] non esisteva più nell'inventario fonematico del dialetto.
L'esito (regolare) mőu = modo, verso la fine del '700, parve pronuncia da buzzurri ignoranti e (come in innumerevoli altri casi, che mi e vi risparmio) si adottò l'italianismo, che non potè che essere pronunciato moddu perché [-d-] non esisteva più nell'inventario fonematico del dialetto.
Ma, a differenza del fiorentino, le voci terzultimali genovesi di derivazione diretta non manifestarono mai geminazione.
Essa si ebbe solamente nei prestiti dall'italiano o da altre lingue.
Infatti, questa modalità di geminazione non dipende dalla posizione dell'accento e si verificò anche in voci penultimali (ad es., in fratte = frate).
So benissimo che gli ultimi vecchi pronunciano spetacculu, miracculu, pericculu. Ma c'è [-kk-] solo perché si tratta di voci prese da poco dalla lingua italiana.
Fino a non molto tempo fa si poteva ancora acoltare: Nu gh'é peigu = non c'è pericolo (è escluso). Non porto ulteriori esempi (che sarebbero innumerevoli), ma ciò dimostra che (nella derivazione diretta) non c'è stata geminazione: pericuru>periguru>perigur>perigu>peìgu>péigu.
Perché, infatti, [-r-]>[-0-]. Come t, d & c..
A Ventimiglia e altrove si verificarono gli stessi processi evolutivi.
Solo che, dopo, a Ventimiglia si degeminò.
Altrimenti, neppure a Ventimiglia ci sarebbe [-t-]. Se non proveniente da [-tt-]. Si avrebbe, infatti, [-0-]<[-t-] come, appunto, in frai = fratello.
Questa è la vera spiegazione!
Sgombrato il campo dall'assurdo maccula, occorre, però, capire se qualcuna delle spiegazioni che avevo tentato di porre in campo possa avere senso.
Senza avere ancora consultato alcun testo, avevo pensato che si fosse voluta evitare la collisione con maggia nel senso di maglia.
Riflettendo che, ad es., nel caso di cubbia = coppia si è in presenza di un esito altrettanto "irregolare", cioè non condotto alle estreme conseguenze (per altro, "regolari" nella fonetica genovese).
Perché non si ebbe il "regolare" esito cuggia? Evidentemente, per evitare la collisione col termine "tabù" cuggia = testicolo. E le coppie rimasero cubbie, non cugge, termine sottoposto a "tabù".
Certamente altre parti anatomiche venivano verbalizzate, ma questo sarebbe lo spunto per un interessante articolo.
La sensibilità dell'epoca non era la nostra.
Pur senza averlo consultato prima (ma non me ne avrei a male se non mi si credesse) ho trovato un autore che la pensa come me.
Il defunto Aprosio scrive: " lat. macula (e "sbaglia" perché si parte da macla, macula avrebbe dato magua!) dovrebbe dare maggia. Maccia indica la fase più remota del passaggio, per evitare la confusione con maggia "maglia".
Non è che "two is meglio di one".
E' che si tratta di una spiegazione convincente, che rispetta i vincoli della dialettologia italiana e che trova il conforto dell'utilizzo di un analogo meccanismo di "fissazione a una fase anteriore" (al fine dell'evitamento di una collisione "spiacevole") come, appunto, si verificò per non incorrere nell'omofonia con un termine "tabù".
Evidentemente, non ci sarebbe stato alcun vincolo di tipo fonetico a ostacolare la "naturale" evoluzione di cubbia in cuggia.
O di cubbie in cugge . . .
Infatti, a doppio corrisponde duggiu e a stoppia stuggia.
L'onestà intellettuale m'impone di non porgere codesto risultato quale verità assoluta e di ritenerla, operativamente, un'ipotesi di lavoro.
Teoricamente, sono costretto ad ammettere che potrebbe anche esisterne una migliore.
Essa, però, per risultare anche soltanto accettabile non deve infrangere quanto è patrimonio acquisito della linguistica italiana - quella iberica ha le sue specificità -.
Parafrasando (dal nostro lato dello "specchio") il vecchio Probo (che non citò espressamente la voce nel suo elenco, per altro, solamente esemplificativo): macla, non macula . . .
