Non nell'italiano antico, ma nell'italiano più moderno però un'uscita simile (/-e̍l/, /-ɛ̍l/*) in poesia è normalmente accettabile, giusto? Leggo nella
Grammatica di Serianni (§ I.77) che l'apocope vocalica in fin di verso, eccezione ammessa «nella poesia tradizionale», «sconosciuta alla poesia delle origini, si diffuse nel Quattrocento [...]».
Chiarisco cosa sto facendo, perché non l'ho spiegato bene e forse si può fraintendere. Nel mio testo, l'italiano che uso non finge di essere due-trecentesco (nel qual caso, appunto un'uscita simile sarebbe automaticamente esclusa), sibbene è una lingua "eclettica", poetico-letteraria, di base moderna ma che si concede parecchi elementi anticheggianti.
Nel caso specifico, si tratterebbe d'introdurre, in un contesto fonotattico moderno, un elemento lessicale più antico, anche se i due-trecenteschi, per ragioni fonotattiche, non l'avrebbero messo in quella precisa posizione (ma appunto qui la fonotassi è un po' più tollerante).
In effetti, scrivendo ora, mi rendo conto d'aver posto tutta la questione in un modo che forse crea confusione da solo. Ovviamente, come dice lei, non troviamo
el in tonia nell'italiano antico... ovvero "per forza" è sempre proclitico.

Se però possiamo immaginare
ello in fin di verso, in un contesto moderno possiamo anche immaginarlo troncato, o sbaglio? Come
amor,
mal,
dormir (esempi in Serianni,
ibidem).
Mi scuso se ho aperto un filone "sul nulla".
[*Questo perché avrei voluto rimare con
crudèl.]