La pronuncia dei giornalisti
Moderatore: Cruscanti
La pronuncia dei giornalisti
Ogniqualvolta seguo il telegiornale (invero sempre piú di rado), «mi si rizza il crine»: eccidio di suoni e di prosodia! Che bell’esempio di pronuncia danno i nostri presentatori! Un avvenimento non /ri'sale/ ma /ri'zale/ a una data ora; non «sémbra» ma «sèmbra»; e mi fermo subito con gli esempi, ché la lista non finirebbe mai.
Con qualche tolleranza, posso accettare una pronuncia che si discosta un pochinino dallo standard, ma reputo assai poco ammissibile un esempio come il seguente — fra i molti che si potrebbero portare — citato nel Manuale di Pronuncia Italiana di Luciano Canepàri:
L’ha detto il Presidente, della Repubblica Cossiga…
Secondo me, un presentatore del telegiornale dovrebbe aver seguito un corso di dizione. Non vorrei apparire intollerante, ma il rispetto della lingua nazionale andrebbe preservato anche nella pronuncia di chi, per mestiere, si rivolge a tutta la nazione.
Attendo di leggere le vostre posizioni.
Con qualche tolleranza, posso accettare una pronuncia che si discosta un pochinino dallo standard, ma reputo assai poco ammissibile un esempio come il seguente — fra i molti che si potrebbero portare — citato nel Manuale di Pronuncia Italiana di Luciano Canepàri:
L’ha detto il Presidente, della Repubblica Cossiga…
Secondo me, un presentatore del telegiornale dovrebbe aver seguito un corso di dizione. Non vorrei apparire intollerante, ma il rispetto della lingua nazionale andrebbe preservato anche nella pronuncia di chi, per mestiere, si rivolge a tutta la nazione.
Attendo di leggere le vostre posizioni.
-
- Moderatore «Dialetti»
- Interventi: 77
- Iscritto in data: ven, 12 nov 2004 23:28
- Info contatto:
Ha ragione. A far l'elenco, non si finirebbe piú.
Io, che non son giovane, rammento l'epoca degli "speaker" e delle "speakerine": pronunciavano le parole perfettamente, e con bella voce; avevano il DOP a portata di mano e, mi dicono, lo consultavano a ogni dubbio.
Poi la "mezzadria" (i.e. lottizzazione) impose i giornalisti (giornalisti? Diciamo gazzettieri di estrazione partitica), i quali si portarono dietro non so quante virtú, sicuramente qualche difettuccio, tra cui spicca la sconoscenza della pronuncia. E pure della "santa grammatica"!
Io, che non son giovane, rammento l'epoca degli "speaker" e delle "speakerine": pronunciavano le parole perfettamente, e con bella voce; avevano il DOP a portata di mano e, mi dicono, lo consultavano a ogni dubbio.
Poi la "mezzadria" (i.e. lottizzazione) impose i giornalisti (giornalisti? Diciamo gazzettieri di estrazione partitica), i quali si portarono dietro non so quante virtú, sicuramente qualche difettuccio, tra cui spicca la sconoscenza della pronuncia. E pure della "santa grammatica"!
A mio avviso, la spiegazione di questo fenomeno la si può dare citando soltanto una parola: raccomandazione!
Se si potesse accedere alla professione di giornalista grazie ai propri meriti, credo proprio che ciò non accadrebbe o, quantomeno, lo si riscontrerebbe in misura molto minore.
A dire il vero, però, l'uso improprio della nostra lingua è diffuso in tutti gli ambienti, e non soltanto in quello giornalistico. Mi è capitato di sentire solecismi anche da altre categorie di persone: studenti di lettere, medici e avvocati, tanto per citarne alcuni.
Non posso ammettere che, ad esempio, si dica "sarebbe potuto essere", oppure "non sapevo che fosse arrivato" in luogo di "non sapevo che sarebbe arrivato" ("sarebbe" è posteriore rispetto a "sapevo"). Ma perché sono in pochi a cogliere queste sfumature (chiamiamole così)?
Una delle categorie peggiori, secondo il mio parere, rimane l'ingegnere (il mio settore), anche se io spero di essere un caso a parte visto che sto molto attento all'uso della nostra lingua.
Non dico che dovremmo essere tutti dei linguisti, ma certi strafalcioni non sono tollerabili.
Comunque, l'errore più diffuso credo che sia il non usare il congiuntivo nelle frasi dubitative tipo "io penso che si deve...", in luogo di "io penso che si debba".
Se si potesse accedere alla professione di giornalista grazie ai propri meriti, credo proprio che ciò non accadrebbe o, quantomeno, lo si riscontrerebbe in misura molto minore.
A dire il vero, però, l'uso improprio della nostra lingua è diffuso in tutti gli ambienti, e non soltanto in quello giornalistico. Mi è capitato di sentire solecismi anche da altre categorie di persone: studenti di lettere, medici e avvocati, tanto per citarne alcuni.
Non posso ammettere che, ad esempio, si dica "sarebbe potuto essere", oppure "non sapevo che fosse arrivato" in luogo di "non sapevo che sarebbe arrivato" ("sarebbe" è posteriore rispetto a "sapevo"). Ma perché sono in pochi a cogliere queste sfumature (chiamiamole così)?
Una delle categorie peggiori, secondo il mio parere, rimane l'ingegnere (il mio settore), anche se io spero di essere un caso a parte visto che sto molto attento all'uso della nostra lingua.
Non dico che dovremmo essere tutti dei linguisti, ma certi strafalcioni non sono tollerabili.
Comunque, l'errore più diffuso credo che sia il non usare il congiuntivo nelle frasi dubitative tipo "io penso che si deve...", in luogo di "io penso che si debba".
Amarcord
Temo che il mio, come altri interventi, abbia il gusto di un amarcord. Se oggi la televisione viene spesso citata come veicolo di un cattivo uso della lingua, agli inizi e per parecchi anni è stato vero il contrario: la televisione degli anni '50-'60 dava esempio di un ottimo uso della lingua. Gli annunciatori avevano una dizione impeccabile. E anche i presentatori e gli uomini di spettacolo si sforzavano di nascondere o attenuare per quanto possibile l'inflessione regionale.
Che cosa è accaduto? Certo, c'è stata la lottizzazione partitica. Ma io penso, forse sbagliando, che la ragione sia di ordine più culturale che politico. Si è abbassata la guardia; si sono accettati livelli di preparazione più bassi e si è passati sopra a tutto con indulgenza. Come se richiedere lo sforzo di pronunciare bene le parole fosse un intollerabile sopruso. E' accaduto, a diversi livelli, anche nella scuola e nell'università. Oggi ben pochi di coloro che compaiono in televisione si sforzano di nascondere l'inflessione regionale o dialettale. Al contrario, questa viene esibita come un mezzo per ispirare simpatia, per sembrare più vicini al pubblico.
Non so però che cosa si possa fare, se non segnalare il fenomeno e sforzarsi di dare un esempio diverso.
Che cosa è accaduto? Certo, c'è stata la lottizzazione partitica. Ma io penso, forse sbagliando, che la ragione sia di ordine più culturale che politico. Si è abbassata la guardia; si sono accettati livelli di preparazione più bassi e si è passati sopra a tutto con indulgenza. Come se richiedere lo sforzo di pronunciare bene le parole fosse un intollerabile sopruso. E' accaduto, a diversi livelli, anche nella scuola e nell'università. Oggi ben pochi di coloro che compaiono in televisione si sforzano di nascondere l'inflessione regionale o dialettale. Al contrario, questa viene esibita come un mezzo per ispirare simpatia, per sembrare più vicini al pubblico.
Non so però che cosa si possa fare, se non segnalare il fenomeno e sforzarsi di dare un esempio diverso.
Penso che chiunque abbia una pronuncia che si discosta da quella vigente in una data zona venga considerato un «alieno» dalla gente comune, soprattutto se il parlante è della zona e segue la pronuncia regionale, modificando solo il timbro di qualche e e o. Assumere la pronuncia modello significa cambiare sistema fonetico in tutto e per tutto: allora l’«anomalia» viene percepita in maniera diversa: non piú «storpiatura» della pronuncia locale, ma «sistema diverso».
Appena sostituirono le amate soliti annunciatrici con delle giovani sgallettate ve n'era una che ogni volta sentivo dire:
«E ora dalle sedi règgionali andranno in onda i tiggi règgionali, a seguirè il tiggittrè»
con una cadenza romanissima...
Peggio ancora sono gli inviati.
Ed ic artoni animati, dove si capisce quasi sempre se son stati doppiati a Roma o a Milano (soprattutto in quest'ultimo caso).
«E ora dalle sedi règgionali andranno in onda i tiggi règgionali, a seguirè il tiggittrè»
con una cadenza romanissima...
Peggio ancora sono gli inviati.
Ed ic artoni animati, dove si capisce quasi sempre se son stati doppiati a Roma o a Milano (soprattutto in quest'ultimo caso).
«Duva vidi moju zzappa fundu»
·Dum·Doceo·Disco·
·Dum·Doceo·Disco·
-
- Interventi: 11
- Iscritto in data: ven, 07 ott 2005 11:55
La pronuncia dei giornalisti
Concordo con tutti su quanto è stato segnalato sulla quantità di obbrobri che si sente alla radio ed in televisione, purtoppo non credo che ne caveremo un ragno da un buco perché tali giornalisti difficilmente verranno a leggere i nostri interventi.
A parte ciò, vorrei fare un piccolo chiarimento su quanto segnalato da Dario qualche mese fa (io sta rientrando dopo molti mesi di assenza): certamente il contesto nel quale ha udito "non sapevo che fosse arrivato" avrebbe voluto "... che sarebbe arrivato", però la frase con il congiuntivo va bene quanto l'arrivo è precedente alla conoscenza. Se, per esempio giungo in stazione pensando che il treno sarebbe arrivato in ritardo ed invece lo trovo lì, posso tranquillamente esclamare "Non sapevo che il treno fosse già arrivato!".
Cordialmente
A parte ciò, vorrei fare un piccolo chiarimento su quanto segnalato da Dario qualche mese fa (io sta rientrando dopo molti mesi di assenza): certamente il contesto nel quale ha udito "non sapevo che fosse arrivato" avrebbe voluto "... che sarebbe arrivato", però la frase con il congiuntivo va bene quanto l'arrivo è precedente alla conoscenza. Se, per esempio giungo in stazione pensando che il treno sarebbe arrivato in ritardo ed invece lo trovo lì, posso tranquillamente esclamare "Non sapevo che il treno fosse già arrivato!".
Cordialmente
Ma «io penso che si deve» non va frustato, né seppellito vivo; è lecito, (arriveranno fors’anche le citazioni), è stato usato, e ha un valore rafforzativo; chi usa l’indicativo — ma bisogna distinguere la scelta particolare dal solecismo — vuole sottolineare la sua profonda convinzione. O sbaglio?dario ha scritto:Comunque, l'errore più diffuso credo che sia il non usare il congiuntivo nelle frasi dubitative tipo "io penso che si deve...", in luogo di "io penso che si debba".

…e comunque, in questo caso specifico, Google dà la vittoria (10.954 contro 418) al congiuntivo.

Una donna ci aspetta alle colline.
Sí sí, Miseria, è vero quel che dice, ma è anche vero che i giornalisti televisivi (non tutti, ma quasi) questa sfumatura non sanno nemmeno che esista.
Ultima modifica di Incarcato in data mar, 31 gen 2006 14:16, modificato 1 volta in totale.
- Infarinato
- Amministratore
- Interventi: 5603
- Iscritto in data: gio, 04 nov 2004 10:40
- Info contatto:
Veramente, con pensare, mi sembra che l’indicativo sia lecito solo nell’accezione d’«immaginare», «riflettere» (vado a memoria: c’è qualcosa nel Serianni). Ergo, «pensa che ce n’erano ben cinque!», ma «penso che si debba»…Miseria ha scritto:Ma «io penso che si deve» non va frustato, né seppellito vivo; è lecito, (arriveranno fors’anche le citazioni), è stato usato, e ha un valore rafforzativo; chi usa l’indicativo — ma bisogna distinguere la scelta particolare dal solecismo — vuole sottolineare la sua profonda convinzione. O sbaglio?dario ha scritto:Comunque, l'errore più diffuso credo che sia il non usare il congiuntivo nelle frasi dubitative tipo "io penso che si deve...", in luogo di "io penso che si debba".
Mi rivolgo a Dario e al suo commento in merito all'uso del modo congiuntivo con i verbi dubitativi nelle proposizioni dipendenti.
Cito, di séguito, qualche esempio tratto da "La Grammatica della Lingua Italiana" di Marcello Sensini:
"...Tuttavia sarà bene tener presente che rinunciare al congiuntivo e, di conseguenza all'opposizione indicativo/congiuntivo, cioè modo della certezza/modo deldubbio e dell'opinione, vuole dire rinunciare a esprimere sfumature di significato tutt'altro che secondarie e inutili.
Si veda, per esempio, la differenza di significato che esiste tra le coppie di frasi seguenti e che è tutta affidata all'opposizione indicativo/congiuntivo:
"Dicono che le pesche siano mature" (chi parla accetta l'opinione altrui come un dato di fatto e, quindi, considera la cosa sicura) / "Dicono che le pesche siano mature (chi parla non è personalmente convinto della cosa e la presenta in modo dubitativo, lasciando ad altri la responsibilità dell'affermazione):
"Penso che sei triste (ti penso triste: mi rendo conto che, con tutto quello che ti è successo, non puoi non essere triste) / "Penso che tu sia triste" (ho l'impressione che tu abbia motivo di essere triste);
"Aspetterò finché tornerà (e sono sicuro che tornerà) / "Aspetterò finché torni (ma non sono sicuro se tornerà).
Vorrei aggingere un modesto commento rispetto a quanto ho appena citato: Spesso, pensando a quello che penserebbe la gente, ho paura di usare il modo presente - benché esso sia giusto nei casi sopraccitati - per affermare che ho la sicurezza di quanto asserisco. Forse tale esitazione deriva dal fatto che molta gente è convinta del fatto che, in questi casi, l'unico modo corretto è il congiuntivo e, quindi, chi dovesse usare il modo indicativo verrebbe additato.
Concludo dicendo che mi ritengo alquanto fortunato in questi casi, poiché, essendo insicuro di carattere, mi avvalgo prevalentemente del modo congiuntivo e risolvo i miei futili problemi.
Roberto
Cito, di séguito, qualche esempio tratto da "La Grammatica della Lingua Italiana" di Marcello Sensini:
"...Tuttavia sarà bene tener presente che rinunciare al congiuntivo e, di conseguenza all'opposizione indicativo/congiuntivo, cioè modo della certezza/modo deldubbio e dell'opinione, vuole dire rinunciare a esprimere sfumature di significato tutt'altro che secondarie e inutili.
Si veda, per esempio, la differenza di significato che esiste tra le coppie di frasi seguenti e che è tutta affidata all'opposizione indicativo/congiuntivo:
"Dicono che le pesche siano mature" (chi parla accetta l'opinione altrui come un dato di fatto e, quindi, considera la cosa sicura) / "Dicono che le pesche siano mature (chi parla non è personalmente convinto della cosa e la presenta in modo dubitativo, lasciando ad altri la responsibilità dell'affermazione):
"Penso che sei triste (ti penso triste: mi rendo conto che, con tutto quello che ti è successo, non puoi non essere triste) / "Penso che tu sia triste" (ho l'impressione che tu abbia motivo di essere triste);
"Aspetterò finché tornerà (e sono sicuro che tornerà) / "Aspetterò finché torni (ma non sono sicuro se tornerà).
Vorrei aggingere un modesto commento rispetto a quanto ho appena citato: Spesso, pensando a quello che penserebbe la gente, ho paura di usare il modo presente - benché esso sia giusto nei casi sopraccitati - per affermare che ho la sicurezza di quanto asserisco. Forse tale esitazione deriva dal fatto che molta gente è convinta del fatto che, in questi casi, l'unico modo corretto è il congiuntivo e, quindi, chi dovesse usare il modo indicativo verrebbe additato.
Concludo dicendo che mi ritengo alquanto fortunato in questi casi, poiché, essendo insicuro di carattere, mi avvalgo prevalentemente del modo congiuntivo e risolvo i miei futili problemi.
Roberto
uno studioso autodidatta di lingue e linguistica
Chi c’è in linea
Utenti presenti in questa sezione: Nessuno e 4 ospiti