Scusate se mi sovrappongo al problema lemmi malscritti... Ma per
outsider credo, e sono d'accordo con GiuliaTonelli, si debba semplicemente aggirare il problema, ricorrendo a perifrasi o a una molteplicità di traducenti a seconda dei contesti.
Il problema dei traducenti esula dal semplice tentativo di rispondere ad ogni forestierismo con una e una sola parola: è l'eterno problema della ricodificazione.
Credo che in un buon
terzo dei casi, se non di più (per questo alcune soluzioni di
Italiano ci manchi io tenderei a rivederle), il tentativo rischi di andare incontro a naufragi senza allegria, per parafrasare il vecchio Ungaretti.
Forse la mia è un'opinione un po' da
outsider 
però...
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P. s.: un esempio concreto. In una remota epoca, risalente al mio paleo-universitario III B (dottorato di ricerca), eravamo coinvolti, dei miei colleghi ed io, in una traduzione del principale trattato retorico (greco) di Ermogene di Tarso intitolato latinamente
De ideis, e grecamente
Perì ideon logou". Quando incontrammo la parola
deinòtes cominciarono lunghe dispute: e il problema era spinosissimo, dato che la
deinòtes, nel trattato di Ermogene, è la chiave di volta del sistema delle forme dello stile (è più o meno la mescidanza di tali forme governata dal criterio del
prepon, del
decos). L'aggettivo
deinòs, da cui essa deriva, significa "abile" e "terribile" (
'nu mostro, si direbbe in protopartenopeo comune). Nei retori di età ellenistica (vedi lo ps. Demetrio del
De interpretatione) essa indica la "forza" o "terribilità" espressiva; nei retori di età imperiale da Dionigi di Alicarnasso (così almeno è detto nei passi fondamentali del
De compositione verborum) in poi, tale parola indica l'abilità oratoria (=eloquenza), come mistione acconcia (
prèpousa, basata sul
prepon) di tutte le forme di stile (di qui poi la ricorrente metafora del retore-Pròteo o del retore-Odìsseo). Ermogene rifà un po' la storia del concetto: e lì sono, si potrebbe dire pseudo-anglicamente,
bitter coks, dato che tutte le accezioni del termine vengono discusse (e il traducente "eloquenza", usato per forza di cose, aveva il collo teso come una gallina ruspante alla vigilia di un Natale campagnolo). Ci fu chi ci propose di lasciare invariati i nomi delle forme di stile, traslitterando il greco (posizione che potrebbe essere assimilata a quella di alcuni utenti del fòro, attestati su posizioni liberiste), c'eravamo noi a cercare di autoconvincerci che "eloquenza", proposto dal sottoscritto, potesse funzionare; c'era la non bellissima traduzione francese, non accessibile al pubblico ma posseduta dal dipartimento in forma di dissertazione dottorale fotocopiata, che proponeva "habilité" (il che faceva somigliare il trattato a un'inno retorico-rivoluzionario, tipo,
limpidité beauté habilité), e la traduzione ispanica dava "fuerza" (forse la soluzione meno peregrina, a ben vedere). Le cose erano aggravate dalle retoriche rinascimentali latine, fra Italia e Inghilterra:
vis, eloquentia, aptum dicendi genus (di qui la proposta di qualcuno: "appropriatezza") e simili. Dopo mesi di torcimento pachimeningico, la traduzione si estinse perché il responsabile (che non ero io... non avevo pubblicazioni) fu chiamato ad altre, più alte, glorie, perché le dispute non si sanarono, e per altri motivi che tacere è bello. E la bocca rimase amara, con reciproche ingiuste accuse e difese e improprie (
non aptae) attribuzioni di responsabilità.
Perciò, lezione ophèlima tratta dal futile anecdoto, quando l'italiano decodifica lingue dalla troppo più versatile plasmabilità lessicale (o dalla maggior variabilità d'accezioni per singolo lemma), tendo in parte a diffidare (con rimpianto) del monotraducente...