Intervista a Claudio Marazzini su Famiglia Cristiana
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Intervista a Claudio Marazzini su Famiglia Cristiana
Vi segnalo quest’intervista a Claudio Marazzini, nuovo presidente dell’Accademia della Crusca. A parte attaccare implicitamente due gruppi politici (è perfino banale dire che ci sono politici che parlano male in tutti gli schieramenti), il neopresidente, a quanto pare, si è accorto che in italiano esistono «veri squadroni di parole [i forestierismi, nota mia] accolte con gioia e consenso da tutti i paladini di una certa modernità». Non si capisce bene, però, cosa voglia fare al riguardo…
Spassoso il giudizio positivo su server, «prestito necessario»: ha pure una radice latina! Mi ricorda tanto una battuta di Homer Simpson sulle sue ciambelle: sono farcite con «roba rossa fatta con un frutto», perciò sono sane.
Spassoso il giudizio positivo su server, «prestito necessario»: ha pure una radice latina! Mi ricorda tanto una battuta di Homer Simpson sulle sue ciambelle: sono farcite con «roba rossa fatta con un frutto», perciò sono sane.
Ultima modifica di Ferdinand Bardamu in data gio, 14 ago 2014 17:26, modificato 1 volta in totale.
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Qui si commenta l'intervista. Tra le altre cose l'autrice dell'articolo dice:
«Qualche giorno fa abbiamo riportato l’intervento del presidente dell’Accademia della Crusca, il linguista Claudio Marazzini, il quale ha puntato il dito contro l’eccessivo (a suo dire) uso dei termini inglesi o mutuati da altre lingue nel quotidiano» (sottolineatura mia).
Piú avanti scrive:
«Ma davvero si tratta di una forma di snobismo? O non potrebbe invece trattarsi di parole che spiegano meglio (rispetto all’italiano) quella cosa, quel sentimento, quel concetto politico? Non potrebbe essere che l’inglese, ormai studiato sin dall’infanzia dalla maggior parte dei bambini, sia penetrato così pervicacemente nella nostra quotidianità colloquiale che ci sentiamo più a nostro agio con «spending review» che non con «revisione della spesa»? [:shock:
] [grassetto mio]»
«Qualche giorno fa abbiamo riportato l’intervento del presidente dell’Accademia della Crusca, il linguista Claudio Marazzini, il quale ha puntato il dito contro l’eccessivo (a suo dire) uso dei termini inglesi o mutuati da altre lingue nel quotidiano» (sottolineatura mia).
Piú avanti scrive:
«Ma davvero si tratta di una forma di snobismo? O non potrebbe invece trattarsi di parole che spiegano meglio (rispetto all’italiano) quella cosa, quel sentimento, quel concetto politico? Non potrebbe essere che l’inglese, ormai studiato sin dall’infanzia dalla maggior parte dei bambini, sia penetrato così pervicacemente nella nostra quotidianità colloquiale che ci sentiamo più a nostro agio con «spending review» che non con «revisione della spesa»? [:shock:

- Ferdinand Bardamu
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Certo, come no? Ipotesi in libertà per ipotesi in libertà: sarà un caso che molti di coloro che amano «adornare» il loro italiano di anglicismi poi non sappiano andare al di là del balbettío quando si tratta di fare conversazione in inglese?Roberta Scorranese ha scritto:Ma davvero si tratta di una forma di snobismo? O non potrebbe invece trattarsi di parole che spiegano meglio (rispetto all’italiano) quella cosa, quel sentimento, quel concetto politico? Non potrebbe essere che l’inglese, ormai studiato sin dall’infanzia dalla maggior parte dei bambini, sia penetrato così pervicacemente nella nostra quotidianità colloquiale che ci sentiamo più a nostro agio con «spending review» che non con «revisione della spesa?
In che modo spending review spieghi l’operazione meglio di revisione della spesa rimane un mistero.
(Non capisco poi come qualcosa possa «penetrare pervicacemente», ma lasciamo perdere.)
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Basta vedere il trattamento che riserviamo al nostro patrimonio artistico e paesaggistico, per capire che fine farà la nostra lingua: fra cent'anni avremo solamente un rudere linguistico, con un dizionario composto al 60% di parole inglesi, cinesi e arabe – ovviamente, maladattate al nostro sistema fonologico, con l'aggiunta, magari, di qualche xenofonema – e una trasparenza fonologica peggiore di quella inglese.
- Ferdinand Bardamu
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La china che abbiamo preso sembra quella; tuttavia, se tralasciamo il luogocomunismo che traspare qua e là, sembra che gli utenti che commentano condividano almeno in parte la nostra insofferenza per gli anglicismi. Insomma, quello che la giornalista, molto superficialmente, ha dato per iscontato nell’articolo («ci sentiamo piú a nostro agio con ‹spending review›…»: ma noi chi?), non sembra trovare riscontro nel sentire comune. (Ammesso che una manciata di commenti su un sito si possa considerare, anche lontanamente, «sentire comune».)
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Io la penso così: non ho nulla contro il ruolo dell'inglese di lingua internazionale (e contro la globalizzazione non possiamo farci nulla, a meno di non tornare ai cavalli e ai segnali di fumo), ma quando si parla inglese si usino parole inglesi e quando si parla italiano (che rimarrà lingua di cultura) si usino parole italiane.PersOnLine ha scritto:fra cent'anni avremo solamente un rudere linguistico, con un dizionario composto al 60% di parole inglesi, cinesi e arabe
Peccato che la globalizzazione pretenda anche l'abbattimento delle barriere fra i popoli, e che la diversità linguistica costituisca a tutti gli effetti una barriera.Carnby ha scritto:Io la penso così: non ho nulla contro il ruolo dell'inglese di lingua internazionale (e contro la globalizzazione non possiamo farci nulla, a meno di non tornare ai cavalli e ai segnali di fumo), ma quando si parla inglese si usino parole inglesi e quando si parla italiano (che rimarrà lingua di cultura) si usino parole italiane.

Esiste anche la possibilità di essere poliglotti, no?Apani ha scritto:Peccato che la globalizzazione pretenda anche l'abbattimento delle barriere fra i popoli, e che la diversità linguistica costituisca a tutti gli effetti una barriera.

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Con le parole di Ferdinand, per preservare il nostro sguardo sul mondo e il nostro peculiare modo di pensare. Per salvaguardare un mondo: il nostro.Apani ha scritto:Ma a che scopo usare la propria lingua quando si può perfettamente parlare con quella globale?
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Il cervello si sviluppa nella primissima infanzia anche attraverso la conquista della comunicazione verbale, e l'ambiente linguistico in cui questa si svolge influenza tale sviluppo.
I gruppi di suoni che vengono collegati ai vari concetti via via scoperti verranno poi percepiti come intrinsecamente legati a essi, quasi come il modo naturale di "pensare" quelle cose.
In pratica, il pensiero si forma, e si svolge, in una lingua che è quella che ne ha guidato lo sviluppo, e che resterà poi per sempre la "lingua madre", quella in cui istintivamente formuliamo le idee e le elaboriamo.
È il motivo per cui imparare più di una lingua "naturalmente", nella prima infanzia, aiuta a raggiungere l'optimum di conoscenza linguistica per ciascuna di esse, cioè la capacità di "pensare direttamente" in quella lingua, anziché tradurre i concetti via via che vengono in mente nella lingua madre.
In questo quadro, sino a che ci saranno bambini cresciuti entro una famiglia che parla una lingua locale anziché la lingua globale (che è ancora da inventare e codificare), questi torneranno alla propria lingua ogni qualvolta vorranno comunicare con maggiore precisione e ricchezza di sfumature ciò che sentono o stanno pensando (o anche nelle situazioni istintive, di emozione, di pericolo, in cui affiora il linguaggio più spontaneo e meno controllato).
Spiegato così, terra terra, e non so quanto ci sia riuscita...
Posso comunicare perfettamente in inglese, ma attualmente la comunicazione di maggior precisione mi riporta alla necessità di usare la mia lingua naturale, quella in cui ho svolto il mio percorso formativo.
In realtà non percepisco come "perfetta" una comunicazione che non sia nella mia lingua madre.
Per questo si potrà "perfettamente parlare" con la lingua globale solo quando essa sarà rimasta l'unica. Sino ad allora, si userà la propria lingua allo scopo di esprimere in maniera migliore ciò che si pensa.
È un fenomeno che si ripete in misura minore quando si apprende una disciplina tecnica nuova.
I termini con cui impariamo a chiamare i nuovi oggetti o i nuovi concetti, anche se di per sé stranieri, assumono un nuovo significato, e ci sembrano istintivamente quelli più appropriati, il "vero nome" della cosa; risultiamo cioè restii ad accettarne un qualsivoglia traducente, che ci sembra ridicolo, non preciso, di significato diverso.
Motivo quest'ultimo alla base dell'anglitaliano imperante in molti settori...
I gruppi di suoni che vengono collegati ai vari concetti via via scoperti verranno poi percepiti come intrinsecamente legati a essi, quasi come il modo naturale di "pensare" quelle cose.
In pratica, il pensiero si forma, e si svolge, in una lingua che è quella che ne ha guidato lo sviluppo, e che resterà poi per sempre la "lingua madre", quella in cui istintivamente formuliamo le idee e le elaboriamo.
È il motivo per cui imparare più di una lingua "naturalmente", nella prima infanzia, aiuta a raggiungere l'optimum di conoscenza linguistica per ciascuna di esse, cioè la capacità di "pensare direttamente" in quella lingua, anziché tradurre i concetti via via che vengono in mente nella lingua madre.
In questo quadro, sino a che ci saranno bambini cresciuti entro una famiglia che parla una lingua locale anziché la lingua globale (che è ancora da inventare e codificare), questi torneranno alla propria lingua ogni qualvolta vorranno comunicare con maggiore precisione e ricchezza di sfumature ciò che sentono o stanno pensando (o anche nelle situazioni istintive, di emozione, di pericolo, in cui affiora il linguaggio più spontaneo e meno controllato).
Spiegato così, terra terra, e non so quanto ci sia riuscita...
Posso comunicare perfettamente in inglese, ma attualmente la comunicazione di maggior precisione mi riporta alla necessità di usare la mia lingua naturale, quella in cui ho svolto il mio percorso formativo.
In realtà non percepisco come "perfetta" una comunicazione che non sia nella mia lingua madre.
Per questo si potrà "perfettamente parlare" con la lingua globale solo quando essa sarà rimasta l'unica. Sino ad allora, si userà la propria lingua allo scopo di esprimere in maniera migliore ciò che si pensa.
È un fenomeno che si ripete in misura minore quando si apprende una disciplina tecnica nuova.
I termini con cui impariamo a chiamare i nuovi oggetti o i nuovi concetti, anche se di per sé stranieri, assumono un nuovo significato, e ci sembrano istintivamente quelli più appropriati, il "vero nome" della cosa; risultiamo cioè restii ad accettarne un qualsivoglia traducente, che ci sembra ridicolo, non preciso, di significato diverso.
Motivo quest'ultimo alla base dell'anglitaliano imperante in molti settori...
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Ma comunicare come? Certo meno efficacemente, meno «perfettamente» che nella lingua materna del[l’inter]locutore.Apani ha scritto:Beh, ai fini della globalizzazione, si preferisce di gran lunga dare un termine intradotto così che la gente possa "comunicare a tutto il mondo".
Questa, proprio non l’ho capita… e poi, zoologicamente parlando, bug in inglese vuol dire tutto, meno che «baco».Apani ha scritto:Poi, se uno sa l'inglese, legge "Bug" e pensa sia a "Baco" che a un errore di programmazione, non vedo come persuaderlo a usare l'italiano.

È come se fosse andato, Apani, a difendere i cristiani in un fòro d'integralisti sfegatati musulmani
ma non si preoccupi, non sarà crocifisso all'uscio e la sua casa data alle fiamme. Solo che mi fa l'effetto di uno che voglia scambiare per un misero hot-dog, un sontuoso vassoio d'anatra con le arance. 


Saluto gli amici, mi sono dimesso. Non posso tollerare le contraffazioni.
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